La domanda «di che si tratta?» come prima mossa nella costruzione di un percorso didattico specifico è oggi troppo spesso ignorata nella scuola, dove la consapevolezza critica sembra naufragare sempre più nel mare del relativismo e dell’indifferenza. L’autore costruisce un percorso concettuale ed epistemologico su un contenuto particolare, la geometria, che ha un valore paradigmatico sul piano metodologico per ogni disciplina scientifica. L’estrema chiarezza di comunicazione rende questo contributo utile per insegnanti di ogni livello di scuola.
Quando si inizia un percorso è spontaneo chiedersi di che cosa si stia parlando. «Che cosa è la geometria?» È una domanda a cui è veramente difficile rispondere: l’oggetto delle nostre riflessioni è così ampio, vasto, variegato e articolato, che non si presta a essere descritto con una sola frase, o con un discorso sobrio e chiaro. Capita spesso di leggere che la geometria è «la scienza dello spazio » oppure anche «la scienza della estensione» o frasi analoghe, che per il momento preferirei non commentare, ma che non si possono condividere senza lunghe discussioni. Preferirei quindi non porre all’inizio un discorso che rassomigli a una definizione della geometria, e voglio limitarmi a riflettere su che cosa significhi «fare geometria».
Potremmo dire, almeno in via provvisoria e iniziale, che il fare geometria è un primo passo con il quale un soggetto umano cerca di porsi razionalmente in rapporto con gli oggetti che lo circondano; e dicendo «porsi razionalmente», intendo dire che un soggetto cerca di descrivere gli oggetti in modo preciso e obbiettivo, e di dedurre con sicurezza certe conseguenze da poche premesse.
Questo atteggiamento e questo aspetto della geometria sono stati descritti da un grande matematico moderno dicendo che la geometria ci si presenta come «il primo capitolo della fisica», cioè della conoscenza matematica del mondo.
Un tale modo di vedere non è nuovo; la sua origine potrebbe essere fatta risalire all’epoca della crisi epistemologica rinascimentale, crisi dalla quale ebbe origine la scienza fisico-matematica come oggi la intendiamo. Ricordiamo ciò che Galileo Galilei, nel dialogo Il saggiatore scrive: «La filosofia (1) è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto inanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.»
Si potrebbe dire, in altre parole, che se la matematica è la chiave di lettura della realtà materiale che ci circonda, per Galileo la geometria è il primo passo di questa lettura.
Geometria ed esperienza
I concetti della matematica, e in particolare quelli della geometria, nascono dalla esperienza, la quale causa percezioni attinenti a diverse aree sensoriali. Nel caso della geometria, possiamo riferirci a due ambiti sensoriali dai quali la nostra fantasia trae le immagini, e la nostra mente i concetti della geometria.
Area delle sensazioni visive
A questa area appartengono le sensazioni che nascono dalla osservazione di oggetti aventi particolari configurazioni (per esempio fili tesi, pezzi di superfici piane, eccetera), oppure dalla osservazione di particolari fenomeni fisici (per esempio pennelli sottili di luce in stanze oscure e polverose). Inoltre appartengono a quest’area le sensazioni che conducono alla consapevolezza delle relazioni di similitudine tra figure, quando per esempio si riconoscono le persone dai loro ritratti, o quando si fanno disegni «in scala».
Area delle sensazioni tattilo-muscolari
A quest’area appartengono le sensazioni che derivano dalla manipolazione degli oggetti, che noi giudichiamo duri o molli, oppure lisci piuttosto che scabri, o ancora pieghevoli oppure indeformabili.
[Immagine a sinistra: Compasso militare di Galileo Galilei]
Sono particolarmente importanti le sensazioni che nascono dalla manipolazione degli oggetti rigidi, e quelle che vengono indotte in noi dalle forze che esercitiamo, per spostare o in genere manipolare gli oggetti, oppure che è l’ambiente a esercitare su di noi, come per esempio le forze derivanti dal campo gravitazionale, che forniscono il riferimento spaziale, iniziale ed elementare per ogni soggetto.
Da queste osservazioni elementari, spesso mescolate tra loro, indistinte e confuse, nasce la geometria, considerata come un atteggiamento attivo, mirante, come si è detto, a descrivere in modo preciso e coerente gli oggetti e l’ambiente, e a spiegare certe relazioni degli oggetti tra loro e con il soggetto.
Il porsi razionale e coerente del soggetto nei riguardi dell’ambiente passa per varie fasi, che cercheremo di descrivere e analizzare, senza peraltro pretendere che le osservazioni che faremo riproducano esattamente la evoluzione psicologica e mentale di ogni soggetto.
Soggettivo, intersoggettivo e oggettivo
Un primo momento della descrizione della situazione del singolo nei riguardi dell’ambiente e degli oggetti è tipicamente soggettivo: l’ambiente viene percepito e quindi descritto in relazione al singolo osservatore.
Appartengono a quest’ambito concettuale anzitutto la procedura che viene chiamata di «lateralizzazione» (riconoscimento di destra e sinistra), e inoltre quell’insieme di concetti e di espressioni verbali appartenenti a quella che (un poco impropriamente rispetto all’uso matematico) viene chiamata «topologia».
In questo ambito, le idee di «alto» e «basso» hanno le loro radici nel complesso di sensazioni fornite dal campo gravitazionale in cui siamo immersi; la «destra» e «sinistra», l’«avanti» e «dietro» hanno il loro fondamento nella struttura del nostro corpo.
[Immagine a destra: Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, Euclide]
Infatti, gli astronauti nelle navicelle spaziali, in assenza di gravità, hanno grande difficoltà nel distinguere il pavimento dal soffitto della navicella; e il distinguere la destra dalla sinistra sarebbe un compito difficile per una stella marina (supponendo che abbia bisogno di precisare questi concetti e abbia gli strumenti per farlo), oppure per un animale a simmetria rotatoria, come una medusa.
Per giungere a una descrizione razionale dell’ambiente, occorre che il soggetto passi da una descrizione soggettiva a una che potremmo dire intersoggettiva: occorre cioè che il soggetto si sforzi di porsi nella situazione di altri osservatori, oppure immagini di guardare o manipolare un oggetto in vari modi. Ci si avvia così a una descrizione tale, che un oggetto o un ambiente possa essere riconosciuto da molti osservatori; l’ideale sarebbe che la descrizione possa far riconoscere un oggetto da ogni osservatore, e ciò si ottiene quando si giunga a formulare la definizione logica dell’oggetto in parola.
Si può osservare che la descrizione soggettiva di un oggetto o di un ambiente non è per ciò stesso invalida o addirittura errata: essa è soltanto limitata, e la sua validità è condizionata dalla necessaria presenza del soggetto che descrive. Nel nostro parlare quotidiano, utilizziamo quasi sempre delle descrizioni che fanno implicito riferimento alla nostra situazione di osservatori singoli (per esempio quando diciamo «alto» oppure «basso», o quando usiamo la parola «questo »); tali descrizioni sono valide nella misura in cui ci rivolgiamo ad altri soggetti che presumibilmente si trovano nelle nostre stesse condizioni o che conoscono la nostra situazione e i nostri punti di vista.
Per esempio, dicendo che «il tetto sta sopra la casa», utilizziamo il termine «sopra» con riferimento al campo gravitazionale in cui siamo immersi. Ovviamente, la descrizione è valida per ogni altro osservatore che sia presumibilmente vicino alla casa, e quindi immerso nello stesso nostro campo gravitazionale, mentre la descrizione non sarebbe valida per un osservatore che fosse agli antipodi.
Naturalmente una descrizione soggettiva diventa incompleta (e quindi può divenire invalida) quando venga fatta in termini relativi ma senza menzione del soggetto, oppure con pretesa di essere intersoggettiva. Per esempio, siamo in questa situazione quando un lato di un rettangolo viene chiamato «la base» di esso (magari aggiungendo che lo si chiama così perché «sta in basso»), senza ricordare che questa denominazione si riferisce soltanto a una determinata posizione della figura rispetto a un osservatore, posizione relativa che può ovviamente essere diversa da quella di un altro osservatore.
Oppure, quando si legge (come capita) che la Terra gira attorno al proprio asse ruotando «da destra a sinistra», trascurando di dire che ciò vale soltanto per un osservatore che descriva le cose rimanendo nell’emisfero boreale; o ancora, quando si afferma che il moto apparente del Sole nel cielo avviene «da destra verso sinistra», trascurando di dire che la descrizione è valida soltanto per un osservatore che guardi verso nord.
Analoghe considerazioni possono essere svolte a proposito di certi esercizi o anche di certe «schede didattiche» in cui si domanda a un ragazzino di dire, guardando un disegno, se «Marco sta alla destra oppure alla sinistra di Antonio», senza purtroppo precisare se si tratta di destra o sinistra rispetto all’osservatore o rispetto alle persone di cui si guardano le immagini.
L’astrazione e la costruzione di immagini
Dal punto di vista della geometria, gli oggetti dell’ambiente non sono mai considerati in tutta la complessità e la ricchezza delle loro proprietà materiali; essi sono sottoposti a un’operazione di astrazione, che avviene a vari livelli e con varie modalità.
Un primo livello di astrazione conduce a prescindere da certe proprietà fisiche degli oggetti, quali per esempio colore, peso o temperatura.
In secondo luogo, la fantasia elabora le sensazioni prodotte dagli oggetti, eliminando certe componenti delle sensazioni e spingendone altre al limite. In particolare, vengono trascurate le sensazioni di caldo e di freddo che gli oggetti ci comunicano. Di poca o nessuna importanza risultano essere anche le sensazioni derivanti dal peso degli oggetti e dagli sforzi che eventualmente compiamo per smuoverli, pur se tali sforzi sono da distinguersi da quelli che compiamo per verificare la durezza o la indeformabilità degli oggetti.
A questo proposito si può osservare che, come abbiamo già detto, raramente le sensazioni che conducono alla costruzione della immagine di un oggetto ai fini della geometria provengono da un unico ambito sensoriale.
Per esempio, la qualità di indeformabilità (che sta alla base della costruzione del concetto di corpo rigido e quindi anche di trasformazione per movimento rigido) nasce dalle sensazioni provocate dagli sforzi che potremmo fare per cercare di deformare un oggetto, dalle constatazioni del fatto che l’oggetto resiste ai nostri sforzi, ma anche dalla verifica (pertinente all’ambito della vista) del fatto che l’oggetto non cambia sensibilmente di forma. In particolare, le espressioni stesse comunemente usate di «solido geometrico» e di «geometria solida» per indicare la geometria degli oggetti tridimensionali, tradiscono forse la genesi in ambito tattilo-muscolare di certi concetti della geometria spaziale.
La nostra fantasia, a partire dalle sensazioni materiali elementari, costruisce delle immagini con un’operazione che abbiamo chiamato «astrazione». Sappiamo che il termine astrazione indica il risultato di un’azione che viene indicata anche con i verbi «prescindere », «ignorare», «trascurare» e simili.
In particolare la nostra fantasia opera costruendo un’immagine, per così dire, scarnificata, perfettamente trasparente: per esempio passando dal dado materiale al cubo, solido geometrico.
Infine la fantasia mette in atto delle operazioni che si potrebbero chiamare di «estrapolazione », operando un «passaggio al limite». Per esempio, dalla sensazione di un corpicciolo molto piccolo (e già questa espressione esprime un giudizio molto soggettivo), la fantasia elabora l’immagine del «punto geometrico ».
A questo proposito, vale la pena di ricordare che negli Elementi di Euclide (III sec. a.C.), e poi nella successiva letteratura geometrica greca, il termine che oggi viene tradotto con «punto» aveva il significato letterale di «segno»: cioè indicava un «posto» elementare e indivisibile.
[Immagine a sinistra: Pagine dagli Elementi di Euclide]
Analogamente, dalla osservazione di un filo teso la fantasia elabora l’immagine di un segmento di retta, cioè di qualche cosa che non può avere una realizzazione materiale, perché è, come si suol dire, «infinitamente sottile». Osservazioni analoghe si possono fare su ciò che la fantasia elabora quando si costruisce l’immagine di una porzione di piano. Tenendo presenti queste osservazioni, si usa dire che la geometria tratta di oggetti della nostra esperienza «idealizzati».
Le operazioni di passaggio al limite che la fantasia esegue non sono soltanto quelle ricordate finora: noi immaginiamo anche di poter eseguire indefinitamente certe operazioni, per esempio la scelta di un punto in un segmento o in un pezzo di piano, la suddivisione di un segmento, e anche il prolungamento indefinito di un segmento o l’ampliamento indefinito di un pezzo di piano. In queste frasi il termine «indefinito» o l’avverbio «indefinitamente» vogliono significare che noi immaginiamo che, comunque si ripeta l’operazione considerata, non si incontreranno mai degli ostacoli che ne impediscono la ripetizione, nelle stesse circostanze.
È superfluo osservare che queste cose sono soltanto immaginate: infatti, per quanto riguarda la scelta di un punto in un segmento o in una parte di piano, sappiamo bene che la materia, e gli strumenti che noi utilizziamo per operare su di essa, hanno costituzioni tali che, a un certo punto, arrestano le procedure di suddivisione, che invece la nostra fantasia immagina di poter proseguire a volontà. Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte a proposito della operazione che di solito viene indicata con l’espressione «prolungare un segmento (rettilineo)». Infatti, sappiamo bene che se proseguissimo a camminare sempre nella stessa direzione sulla superficie terrestre, sulla quale abitiamo materialmente, non incontreremmo dei punti sempre nuovi, come vuole l’immaginazione del prolungamento rettilineo indefinito, ma ci ritroveremmo (al massimo dopo 0000 km) a incontrare dei punti sui quali siamo già stati.
Quindi anche la retta che noi immaginiamo, come si suol dire, «infinita» è un oggetto costruito dalla nostra fantasia. Occorre tuttavia osservare che queste immagini della nostra fantasia non sono ingiustificate, o cervellotiche, incoerenti o addirittura contraddittorie, come sono talvolta le immagini che si costruiscono nei mondi magici delle favole infantili o nelle creazioni poetiche. Le immagini della geometria invece nascono, come si è detto, dalla esperienza e possono darci delle informazioni sul mondo reale.
Tuttavia l’utilizzazione corretta di queste informazioni richiede che si sia coscienti del processo con cui tali immagini sono state create, e quindi del significato che esse hanno.
La costruzione del concetto
Una ulteriore operazione di astrazione prende le mosse dalle immagini di cui abbiamo detto (che vengono costruite dalla nostra fantasia a partire dall’esperienza sensibile), per giungere a costruire un ente mentale che viene abitualmente chiamato «concetto».
Non intendiamo addentrarci nella discussione sulla natura del concetto, discussione che è incominciata più di 2000 anni fa, con la filosofia greca, e che ancora prosegue.
[Immagine a destra: Henri Poincaré (1854-1912)]
Ci limitiamo a dare qualche cenno sull’argomento, nella misura in cui ciò si rende necessario per una certa chiarezza in ciò che segue.
In particolare, la questione sulla natura e sul significato del concetto fu lungamente dibattuta dalla filosofia medievale, con quella celebre disputa nota con l’espressione quaestio de universalibus. Infatti, una delle caratteristiche del concetto è quella di poter essere un «universale», cioè di poter servire da predicato in molte frasi vere, diverse tra loro: così il concetto espresso dal termine «uomo» può fare da predicato in molte frasi vere, come per esempio: «Socrate è un uomo, Cesare è un uomo, Augusto è un uomo, Napoleone è un uomo».
Nella teoria tradizionale della deduzione si opera su concetti, tra i quali il ragionamento stabilisce dei collegamenti validi; si osserva anzi che soltanto il collegamento tra concetti è ragione e fondamento di deduzione valida e universale.
È noto che non tutti i concetti possono venir precisati mediante frasi, che ne danno la definizione esplicita, definizione che alcuni autori, come Henri Poincaré, hanno chiamata «predicativa» e altri chiamano «dichiarativa». In particolare i concetti fondamentali della matematica, sui quali si costruisce l’edificio di una teoria, per esempio l’aritmetica o la geometria, debbono necessariamente essere precisati con sistemi di proposizioni primitive che alcuni autori chiamano «assiomi», pur senza dare al termine il significato abituale che la filosofia gli attribuisce.
Se non si facesse in questo modo, si dovrebbe instaurare un procedimento circolare di definizioni e di precisazioni, privo di validità.(2)
Questa particolare procedura viene chiamata «definizione implicita » o anche «definizione d’uso» o «definizione per assiomi». Essa stabilisce quindi le regole iniziali, con le quali i concetti debbono essere impiegati e trattati nelle deduzioni successive. Pertanto la procedura particolare che si adotta nel caso dei concetti primitivi e fondamentali della matematica tende proprio a garantire la possibilità delle deduzioni rigorose, tipiche della scienza.
Così, per esempio, se si enunciano i seguenti assiomi:(3)
Dati due punti distinti A e B, esiste una retta g che passa per ognuno di essi;
Dati due punti distinti A e B non vi è più di una retta che passa per ognuno di essi;
si può poi dimostrare rigorosamente il seguente teorema:
Teorema Due rette distinte di un piano hanno al massimo un punto in comune.
Infatti, se i punti comuni a due rette distinte fossero due o in numero maggiore di due, si avrebbe una situazione che contraddice i due assiomi enunciati.
A questo punto occorre osservare che i concetti di partenza di una teoria matematica possono essere scelti con una certa libertà. Tuttavia, nel caso della geometria, quasi sempre la scelta è guidata dalla esperienza, tratta dal mondo fisico: è l’esperienza che suggerisce (senza tuttavia imporla) la scelta dei concetti primitivi, e delle loro proprietà fondamentali, enunciate dagli assiomi.
Quando sia stato scelto un insieme di concetti primitivi, e di assiomi che ne forniscono la definizione implicita, ogni altro concetto deve essere definito in modo preciso e rigoroso. La definizione di un concetto ci permette, per così dire, di possederlo, nel senso che, sulla base della definizione, si possono dimostrare tutte le proprietà dell’ente designato dal concetto, preso da solo o in relazione con gli altri.
Così per esempio, quando sia stato definito il «rombo» come «quadrangolo piano convesso (cioè non intrecciato), avente i quattro lati uguali tra loro», possiamo dimostrare: che due lati opposti sono paralleli tra loro; che due angoli opposti sono uguali tra loro e due angoli contigui sono supplementari; che le due diagonali sono perpendicolari tra loro e si dimezzano scambievolmente.
Inoltre sapremo con certezza che le proprietà sopra ricordate saranno valide anche per ogni figura che sia un caso particolare di rombo: per esempio per un quadrato, il quale dunque godrà di tutte le proprietà in parola, e in più di qualche altra che gli è propria, e che discende dalla sua particolare definizione.
Ciò che abbiamo detto finora, sulla natura dei concetti della geometria e sulle nostre operazioni mentali che li costruiscono, è confortato dalla opinione di un autorevole matematico italiano, Gino Fano, che si è occupato di questi argomenti.
[Immagine a sinistra: Gino Fano (1871-1952)]
Scrive Fano(4): «Secondo le vedute odierne, la geometria riposa sopra un sistema di nozioni primitive, non definite, e di proposizioni primitive, enunciate senza dimostrazione (assiomi e postulati insieme), e che, in quanto enunciano proprietà ammesse a priori degli enti assunti come primitivi, possono considerarsi come “definizioni implicite” di tali enti. Queste nozioni e proposizioni primitive sono tratte generalmente dall’intuizione e dall’esperienza, ma con un successivo processo di elaborazione mentale, di “astrazione”, perché un punto, una linea, una superficie come li intende la geometria sono concetti astratti, che corrispondono solo per approssimazione a oggetti esistenti in natura; di “semplificazione”, per assumere dati precisi, più semplici, maneggevoli, atti alla trattazione matematico-deduttiva».
I disegni e le immagini in geometria
Abbiamo detto che la definizione di un concetto permette di dedurre con certezza tutte le proprietà dell’ente considerato: aggiungo ora che soltanto la definizione ha questa caratteristica, la quale invece manca alla immagine da cui il concetto è tratto. Può avvenire infatti che un concetto abbia una definizione perfettamente chiara, ma non giunga a richiamare alla nostra fantasia un’immagine chiara, senza confusioni e senza equivoci. Un esempio classico è fornito dal concetto di «kiliagono regolare», cioè un poligono piano regolare di 1000 lati. Questa definizione permette di dedurre rigorosamente ogni proprietà della figura,(5) ma è difficile costruirsi un’immagine chiara del poligono regolare di 1000 lati, e distinguerla per esempio da quella del poligono, pure regolare, di 1001 o di 999 lati.
Forse in queste difficoltà, che la nostra fantasia incontra nel distinguere chiaramente tra loro il poligono con molti lati e la circonferenza, ha le sue radici una frase infelice, che si legge talvolta in qualche manuale, secondo la quale «un poligono di molti lati si confonde con la circonferenza » oppure, peggio, «la circonferenza è un poligono con infiniti lati». Ho detto «frase infelice» perché i due concetti, di circonferenza e di poligono regolare (quale che sia il numero dei suoi lati), sono nettamente distinti fra loro, e lo scopo dello studio della geometria è proprio quello di costruire concetti chiari e distinti tra loro, e non di operare su immagini, che possono essere confuse e fuorvianti.
Tuttavia, nella pratica abituale, quando si tratta di enti della geometria elementare, si usano ordinariamente dei disegni, che ci richiamano le immagini da cui i concetti sono stati formati. A questo proposito ricordiamo ancora una volta che non le immagini, e meno ancora i disegni, sono in grado di fondare una deduzione valida, ma soltanto i concetti rigorosamente definiti.
[Immagine a destra: Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, Platone e Aristotele]
Ci domandiamo allora quale sia il significato e l’apporto dei disegni e in generale dei modelli che si impiegano abitualmente in geometria, questione che si era già affacciata a Platone (427-347 a.C.) il quale scrive: «I geometri si servono delle figure visibili e ragionano su di esse, ma non ad esse pensando, bensì a ciò di cui esse sono le immagini, ragionando sul quadrato in sé, sulla diagonale in sé, e non su quelle che disegnano. Lo stesso si dica per tutte le figure che essi modellano o disegnano, di cui si servono come immagini (a guisa di ombre o di immagini riflesse sulle acque) cercando di vedere certe verità che non si possono vedere se non col pensiero ».
A distanza di secoli gli fa eco Benedetto Spinoza (1632-1677), il quale scrive: «[…] la semplice immaginazione non implica per sua natura alcuna certezza, quale è connessa invece ad ogni idea chiara e distinta. […] per poter esser certi delle cose che immaginiamo, si deve necessariamente aggiungere qualche altra cosa, cioè il ragionamento».(6)
Mi pare che in questi passi sia espresso molto chiaramente il significato dei disegni che si tracciano in geometria; il che del resto è confermato da una frase di David Hilbert secondo la quale «le figure sono formule disegnate».
[Immagine a sinistra: David Hilbert (1862-1943)]
E poiché le formule traducono certe relazioni tra numeri o tra concetti, pare chiaro che il grande matematico tedesco volesse esprimere in forma per così dire pittoresca il significato dei disegni che noi tracciamo spesso per fare geometria.
D’altra parte è chiaro che i disegni vengono, quasi istintivamente, fatti «in scala», con posizioni e dimensioni che fanno comodo a chi ragiona sulle cose rappresentate. Quindi, nell’utilizzare i disegni, si scelgono, per la rappresentazione, automaticamente e implicitamente, certe proprietà degli oggetti; e precisamente quelle proprietà che sono invarianti rispetto alle trasformazioni per similitudine.
In particolare si potrebbe dire che il disegno ci aiuta a richiamare gli enunciati degli assiomi, e ci guida nella deduzione; questa avviene spesso senza fare esplicito riferimento agli assiomi, che vengono rispettati in modo, per così dire, quasi automatico, con l’aiuto del disegno.
Vale dunque l’osservazione già fatta quando si è detto che le immagini formate dalla nostra fantasia nel caso della geometria non sono ingiustificate, o cervellotiche, incoerenti o addirittura contraddittorie; e ciò perché queste immagini, e i concetti cui si riferiscono, sono tratte da esperienze elementari del mondo materiale.
La geometria e lo spazio
Finora abbiamo parlato di oggetti materiali, delle loro immagini costruite dalla fantasia e dei concetti che vi si riferiscono, ma non abbiamo parlato di «spazio», inteso come oggetto delle considerazioni della geometria, mentre capita di ascoltare e di leggere che la geometria è «la scienza che studia lo spazio», o che questo è l’oggetto della geometria.
Il nostro atteggiamento discende dalla osservazione che il termine «spazio», nella nostra lingua, è usato in molti significati: per esempio, in un noto dizionario,(7) alla voce «spazio» si può leggere, tra l’altro: «L’estensione non determinata e non circoscritta che ha una indeterminata capacità di contenere i corpi; l’immensità nella quale si muovono i corpi celesti; estensione; il luogo; parte di superficie lasciata sgombra; intervallo; ciascuno di quei piccoli pezzi, più bassi delle lettere, che servono a separare le parole le une dalle altre; estensione di tempo».
E poco sotto lo stesso dizionario elenca vari sinonimi, tra i quali: «ambito, area, aria, buco, campo, capacità, circuito, distanza, distesa, estensione, intermezzo, interstizio, intervallo, largo, largura, margine, piazza, posto, spiazzo, striscia, superficie, tratto, zona.»
Si direbbe che sia ben difficile definire in modo preciso e rigoroso un unico concetto di spazio, e che a tale concetto si possano applicare le considerazioni che già Sant’Agostino ha espresso a proposito del concetto di «tempo». Agostino, infatti, in un passo spesso citato delle sue Confessioni, dichiara di sapere che cosa è il tempo, ma di non essere in grado di definirlo in modo formale ed esplicito.(8)
La molteplicità di significati che vengono attribuiti, a seconda dei contesti, al termine «spazio», suscita la mia perplessità nei riguardi di pensatori e di trattatisti i quali si esprimono in modo da far pensare che esista un ente reale, fisicamente esistente, che viene chiamato «spazio», il quale è l’oggetto di una dottrina, che viene chiamata «geometria».
Vorrei richiamare quanto è stato scritto su questo argomento, in forma ironica e polemica, da Giuseppe Peano: «In quasi tutti i trattati italiani moderni si introduce per primo il concetto di “spazio” dicendo che esso non si definisce, ma gli si attribuiscono le proprietà di essere omogeneo, illimitato, infinito, divisibile, immobile eccetera, proprietà queste parimenti non definite. Ritenendo pertanto il concetto di “spazio” come fondamentale per la geometria, ne viene che non si potrebbe scrivere un trattato di questa scienza in una lingua che per avventura manchi di tali parole. Quindi non si potrebbe scrivere un trattato di Geometria nella lingua di Euclide e di Archimede, ove appunto manca la parola corrispondente al termine “spazio”, nel senso in cui lo si usa nei moderni trattati».(9)
[Immagine a destra: Giuseppe Peano (1858-1932)]
Non mi pare irragionevole pensare che gli autori dei trattati, sui quali Peano fa dell’ironia, si siano ispirati a ciò che scrive Isaac Newton il quale si esprime così: «Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile […]. Come è immutabile l’ordine delle parti del tempo, così lo è anche l’ordine delle parti dello spazio. Le si faccia uscire dai propri luoghi e sarà come se uscissero (se così posso dire) da se stesse. Infatti, i tempi e gli spazi sono come i luoghi di se stessi e di tutte le cose. Tutte le cose sono collocate nel tempo quanto all’ordine della successione, nello spazio quanto all’ordine della posizione. È nella loro essenza essere luoghi: ma è assurdo che i luoghi primari siano mossi. Questi sono dunque i luoghi assoluti, e i moti assoluti sono le sole traslazioni da questi luoghi.»(10)
Mi pare abbastanza facile osservare quanto grande sia il posto preso dalla immaginazione in questi enunciati. È l’immaginazione che conduce a raffigurarci un enorme buco scuro, che non ha confini, nel quale ci possiamo muovere a volontà, ma è anche facile osservare che, partendo da questi enunciati, non è possibile costruire alcuna teoria coerente, riguardante le nostre esperienze.
Infatti lo stesso Newton aggiunge, dopo le parole da noi riportate: «Vero è che, in quanto queste parti di spazio non possono essere viste e distinte fra loro mediante i nostri sensi, usiamo in loro vece le misure sensibili. Definiamo, infatti, tutti i luoghi dalle distanze e dalle posizioni delle cose rispetto a qualche corpo, che assumiamo come immobile. […] Così invece dei luoghi e dei moti assoluti usiamo i relativi; né ciò riesce scomodo nelle cose umane; ma nella filosofia occorre astrarre dai sensi. Potrebbe anche darsi che non vi sia alcun corpo in quiete al quale possano venire riferiti sia i luoghi sia i moti.»(10) In altri termini, nelle parole di Newton c’è l’ammissione del fatto che questo «spazio assoluto» non può essere oggetto di osservazione da parte nostra, e che, per descrivere gli oggetti del mondo fisico dei quali abbiamo esperienza, occorre designare in modo esplicito un riferimento.
Per queste ragioni io penso che nella didattica della geometria si possa fare a meno di menzionare lo spazio, nel senso che a questo termine dava Newton quando parlava di spazio assoluto; e si possa svolgere una didattica efficace parlando di oggetti e di fenomeni fisici, così come abbiamo fatto finora. Ciò non vuole ovviamente significare che il termine «spazio» non possa essere usato in qualcuno di quei significati che abbiamo citato poco fa: si vuole soltanto evitare di utilizzarlo come se designasse un ente provvisto di certe proprietà ben determinate e sperimentabili.
Per quanto riguarda poi il significato della conoscenza del mondo fisico che ci è fornita dalla geometria, riportiamo qui, per concludere, altre parole di Fano(11): «I concetti geometrici, benché acquisiti a mezzo di elementi sensibili, sono puramente astratti. Non esiste nel mondo fisico nulla che corrisponda ai concetti astratti di retta, e di triangolo; non si possono quindi “misurare” gli angoli di un triangolo (astratto), né affermare che nello spazio fisico sia verificata una determinata geometria (astratta). Le proprietà di posizione e di grandezza dei corpi possono essere rappresentate da una teoria astratta soltanto in modo più o meno approssimato. La geometria euclidea ci dà questa rappresentazione con un’approssimazione ampiamente sufficiente per tutte le esigenze della pratica».
Carlo Felice Manara
(Professore Emerito di Geometria presso l’Università degli Studi di Milano)
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- Nel secolo XVII si chiamava «filosofia», o anche «filosofia naturale» la dottrina che noi oggi indichiamo con l’espressione «scienza della Natura», o con espressioni equivalenti.
- Ciò era già stato osservato da Aristotele, ed è stato ripreso per esempio da Blaise Pascal nella sua opera intitolata: De l’esprit géométrique et de l’art de persuader (Sullo spirito matematico e sull’arte di persuadere).
- Cfr. David Hilbert, Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria).
- G. Fano, Geometria non euclidea (introduzione geometrica alla teoria della relatività), Zanichelli, Bologna 1935, p.4.
- A titolo di esempio, si pensi a un poligono regolare di 1000 lati inscritto in una circonferenza grande come una sezione della nostra superficie terrestre, fatta con un piano passante per i poli. Ammettiamo che la lunghezza di questa circonferenza sia di 40000 km (secondo la definizione del metro, data originariamente dagli astronomi francesi del secolo XVIII). In questo caso un lato del poligono in parola è sotteso da un arco di circonferenza lungo 40 km; è possibile calcolare la lunghezza del lato considerato, si trova che tale lato è più corto dell’arco che lo sottende, e la differenza non supera 6,58 cm. È chiaro che, nella pratica comune (dei trasporti, della tecnica ingegneristica) tale differenza viene giudicata molto piccola, e quindi viene trascurata. Ma possono esistere questioni scientifiche nelle quali ciò non si può fare: infatti il giudizio sul fatto che un dato numero, che esprime una misura, sia piccolo oppure no non ha significato assoluto, ma assume senso di volta in volta soltanto in relazione a determinate questioni particolari.
- Platone, La repubblica (510, d,e). B. Spinoza, Trattato teologico politico, Cap. II.
- Palazzi, Novissimo dizionario della lingua italiana, Meschina, Milano 1954.
- Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio, Aurelii Augustini, Confessionum libri XIII, Lib XI, Cap. XIV, 2.
- G. Peano, Sui fondamenti della geometria, in Rivista di matematica, IV, 1894, p.51-90.
- I. Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica
- G. Fano, Op. cit., p. 81.
© Pubblicato sul n° 31 di Emmeciquadro