“for their discoveries
of principles for
introducing specific gene
modifications in mice by use
of embryonic stem cells”
La storia delle relazioni che legano i geni alla loro espressione fenotipica è scandita dall’attribuzione dei premi Nobel e dal cambiamento degli organismi modello impiegati nelle diverse ricerche.
Tutto comincia nel 1933, quando Thomas H. Morgan (1866-1945) riceve l’ambito riconoscimento per essere riuscito a produrre le prime mappe cromosomiche nei moscerini della frutta Drosophila melanogaster. Questa acquisizione ha reso possibile associare una lunga serie di caratteristiche morfologiche dei moscerini a specifici geni fisicamente localizzati sui cromosomi.
Passa un quarto di secolo e, nel 1958, George W. Beadle (1903-1989) e Edward L. Tatum (1909-1975) ottengono il premio per aver dimostrato che anche i vari passaggi delle reazioni biochimiche a livello cellulare sono regolati da geni. Questa volta il modello è la muffa Neurospora crassa. Il loro lavoro è reso possibile dalla scoperta dell’effetto mutageno dei raggi X, che aveva meritato a H.J. Muller il Nobel nel 1946. D’altra parte già durante il fatidico 1953 James Watson e Francis Crick (premi Nobel 1962) avevano pubblicato su Nature la loro ipotesi di struttura del DNA chiarendo l’alfabeto attraverso il quale i caratteri erano codificati nei geni. La loro scoperta aveva finalmente fatto luce sull’oscuro significato fisico della variabilità casuale che, da oltre un secolo, tormentava i pensieri di generazioni di biologi.
Un ulteriore approfondimento del problema si ha ad opera di François Jacob (1920-), André Lwoff (1902-1994) e Iacques Monod (1910- 1976), premi Nobel nel 1965, che descrivono il funzionamento dell’operone del lattosio – un gruppo di geni che producono gli enzimi necessari al metabolismo del lattosio, controllandosi vicendevolmente, con meccanismi di feed back – nel batterio Escherichia coli. Nonostante tutti questi sviluppi, e molti altri ancora che non possono, per ragioni di spazio, essere elencati, rimaneva ancora da indagare un punto di vista essenziale del problema.
Per conoscere la dipendenza di un certo fenotipo dalla sua base genetica è sempre stato necessario partire dal carattere, o meglio dal confronto tra la sua forma normale e quella mutata, lavorando faticosamente a ritroso per individuarne il sottostrato genetico. La messa a punto delle tecniche di amplificazione del DNA – il premio Nobel 1993 fu attribuito a Kary B. Mullis (1944-) e Michael Smith (1932-2000) per la messa a punto della PCR – requisito tecnico imprescindibile per il suo sequenziamento, pur avendo facilitato enormemente il lavoro, non avevano eliminato il problema.
Un secondo problema, più pratico, nasceva dal fatto che le straordinarie acquisizioni della biologia molecolare si erano rese possibili grazie alla ricerca di modelli viventi sempre più semplici, caratterizzati da genomi composti da pochi geni e cicli vitali il più possibile raccorciati. Ora, sarà anche in parte vero, come molti hanno creduto, che ciò che accade in un batterio, accada anche nell’uomo, ma la complessità deve pur voler dire qualcosa e la necessità di disporre di modelli il più possibile simili all’uomo si faceva sempre più stringente da parte di chi era cerca risposte riguardanti gli aspetti genetici legati alle patologie umane. Dunque il sogno di ogni biologo molecolare e di ogni studioso dello sviluppo, in vista di una ricerca sistematica sull’espressione genica, è sempre stato il poter seguire dalle sue fasi iniziali l’ontogenesi di un organismo in cui fosse possibile sapere a priori che uno specifico gene era mutato o soppresso.
Questo sogno si è avverato, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, grazie al lavoro di Mario Capecchi (1) [Immagine sopra a sinistra], Oliver Smithies (2) [Immagine a destra] e Martin J. Evans (3) [Immagine che segue a sinistra] ai quali quest’anno è stato assegnato il Nobel per la scoperta dei «principi per l’introduzione di specifiche mutazione geniche nei topi attraverso l’uso di cellule staminali embrionali». La scoperta, così come viene riassunta dalla relazione del comitato Nobel, nasce dall’incrocio di due linee di ricerca.
Da una parte Capecchi e Oliver hanno sviluppato l’idea che la ricombinazione dei cromosomi omologhi potesse consentire la modificazione o l’inattivazione di specifici geni nei topi (gene targeting). Purtroppo però i tipi cellulari sperimentati da Capecchi e Oliver non potevano essere utilizzati per la produzione di animali caratterizzati dal gene targeting.
D’altra parte il lavoro di Evans ha permesso di dimostrare che cellule staminali targate potevano essere iniettate in embrioni di un altro ceppo murino contribuendo alla costituzione della linea germinale di quest’ultimo. Dall’incrocio degli animali così ottenuti potevano essere successivamente selezionate linee pure portatrici del gene targeting.
Il prodotto più conosciuto di questa tecnologia sono i cosìddetti topi «knockout» nei quali specifici geni sono stati inattivati e il loro effetto monitorato sia nel quadro dello sviluppo embrionale, della fisiologia degli adulti, dell’invecchiamento e delle malattie. In tal modo si sono ottenuti oltre 500 modelli di topi con patologie umane, quali malattie cardiovascolari e neurodegenerative, diabete e cancro.
Il topo knockout è l’animale simbolo della biologia molecolare moderna. Questa cavia di sintesi nella quale l’alea della mutazione casualmente indotta viene sostituita dall’intervento ingegneristico sul materiale genetico potrà fornire possibilità straordinarie per la comprensione dell’eziologia e, auspicabilmente, della cura di numerose patologie umane.
D’altra parte, al di fuori dei laboratori, l’espressione genica continua a produrre e a mantenere la straordinaria e largamente inesplorata biodiversità che ha popolato e popola la Terra. Una notevole massa di dati, ancora in gran parte da integrare in una visione complessiva, indica che il fenotipo di un organismo deriva dalle interazioni tra diversi geni all’interno del genoma e di questo con il resto della cellula e con l’ambiente – vedi il Nobel 2006 attribuito a Andrew Z. Fire (1959-…) e Craig C. Mello (1960-) per la scoperta dell’interferenza a RNA – in un fenomeno altamente complesso, interattivo, talvolta fluido che, continuamente conduce a risultati imprevisti. Questa, però, è un’altra storia.
Giorgio Bavestrello
(Professore Ordinario di Zoologia, Dipartimento di Scienze del Mare, Università Politecnica delle Marche)
Note
- Mario Capecchi (1937-…, Italia), University of Utah, Salt Lake City (USA), Howard Hughes Medical Institute. (Tim Roberts/PR Newswire, © HHMI)
- Oliver Smithies (1925-…, United Kingdom), University of North Carolina at Chapel Hill (USA). (Scanpix/Dan Sears)
- Martin J. Evans (1941-…) Cardiff University, Cardiff, United Kingdom. (The Press Association Limited)
© Pubblicato sul n° 31 di Emmeciquadro