Può sembrare superfluo insistere sul nesso tra conoscenza scientifica ed esperienza: è risaputo che quella forma di conoscenza che definiamo scientifica si è affermata nella storia attraverso una crescente capacità di interagire con la realtà naturale e di valorizzare tutti gli input che la natura stessa offre alla nostra ragione. E non è necessario ricordare i successi conseguiti soprattutto da quando è diventato atteggiamento costante, quindi metodo, il ricorso all’esperienza, o più propriamente all’esperimento, come tribunale delle idee e come elemento di controllo dell’adeguatezza dei nostri ragionamenti all’effettivo andamento dei fenomeni.
Il processo di costruzione del sapere scientifico non è quindi chiuso e non è determinato esclusivamente dai nostri pensieri e dalla nostra capacità di immaginare modelli di comportamento della natura. Tutto ciò è ben noto ed è anche fonte ispiratrice di metodologie didattiche che mettono in primo piano l’attività sperimentale, il contatto diretto con gli oggetti, la loro manipolazione, la loro «lettura» in termini quantitativi, la loro trasformazione in dati, tabelle, diagrammi. Spesso però l’equilibrio tra attività «pratica» e riflessione teorica non è ben calibrato e si verifica uno sbilanciamento unilaterale a favore della prima. Col risultato di supportare l’immagine di una scienza dove le novità spuntano automaticamente dai fatti; dove basta avere un laboratorio e fare qualche operazione più o meno complicata per vedere sgorgare correlazioni, leggi, teorie.
Un’immagine che non corrisponde per nulla alla quotidiana pratica dei ricercatori; e in questo numero della rivista sono numerosi gli spunti che possono contribuire a delinare un quadro realistico dell’attività di ricerca, soprattutto in campi dove la natura rivela il suo volto più enigmatico e dove la complessità sfida ogni capacità di analisi e di sperimentazione: come il campo biologico e quello ambientale.
C’è poi spesso un secondo esito indesiderato di quello squilibrio tra dimensione pratica e teorica: è che la pratica diventa sterile, poco produttiva e autoreferenziale; fino a sconfinare nel livello puramente ludico o ad assumere una funzione di piacevole intermezzo tra momenti scolastici che continuano pesantemente a grondare di teoria.
L’azione educativa sarà quindi rivolta a sostenere entrambi i versanti del delicato rapporto uomo-realtà: mostrandone la complementarietà e alimentando il continuo interscambio tra dati, idee, intuizioni, verifiche. Anche perché, paradossalmente, porre l’accento sull’esperienza non porta a concentrarsi sull’oggetto dell’indagine bensì sul soggetto.
È sempre un io che fa esperienza e ci vuole un io che confronti i dati, che li sappia leggere, trasformare, interpretare; e per farlo metterà in campo non solo le sue abilità tecniche e strumentali ma tutto il suo immaginario, le sue conoscenze, la sua stessa visione del mondo. Ma ancor più: è autentica esperienza se c’è un io che riflette su ciò che ha vissuto durante il momento «sperimentale», che prende coscienza di ciò che ha fatto in laboratorio, di ciò che ha manipolato sia coi materiali «poveri» sia con i più sofisticati sussidi didattici. Si deve considerare poi che quegli input, quelle informazioni proposte dalla natura al nostro sguardo indagatore sono dei messaggi complessi, densi di una molteplicità di contenuti, di una pluralità di valenze: sono, in breve, dei segni. Quindi è vera esperienza se quei segni sono recepiti come tali, cioè portatori di significati; che includono il dato scientifico ma lo superano, vanno oltre.
Una vera consapevolezza del percorso conoscitivo compiuto richiede perciò questo sfondamento, questa attenzione a non ridurre la ricchezza del rapporto con la natura e a non farsi sfuggire le potenzialità umanizzanti dell’attività scientifica. Non è difficile immaginare come tutto ciò si traduca in una rinnovata concezione e prassi di apprendimento e di insegnamento scientifico.

Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 31 di Emmeciquadro