Tra gli scienziati che al Cern di Ginevra stanno ultimando i febbrili preparativi per portare a regime il Grande Collisore Adronico (LHC), la parola bellezza non è sconosciuta e neppure tanto rara; come non lo era ai fondatori del Cern, tra i quali Edoardo Amaldi, la cui personalità è ricordata in queste pagine.
Il riferimento è alla bellezza della natura che, anche a livello dell’ultrapiccolo, si rivela ricca di sorprese e pronta a surclassare la più audace immaginazione. Una natura che i fisici scompongono nei suoi costituenti elementari, un po’ particelle un po’ onde, e che non si arresta neppure di fronte al vuoto più spinto riempiendolo di eventi della durata di qualche milionesimo di miliardesimo di secondo, coinvolgendo energie nella scala dei teraelettronvolt.
Ciò che anima questi scienziati è la speranza di riuscire, tra l’altro, a catturare la fantomatica particella di Higgs, prevista dalla teoria ma non ancora giunta al necessario traguardo dell’evidenza sperimentale. Il nuovo acceleratore è carico di promesse per tutta la comunità dei fisici, che da anni attendono la possibilità di far collidere le particelle pesanti con l’energia sufficiente per snidare quella che il premio Nobel Leo Lederman ha battezzato «la particella di Dio». Con la certezza che questo goal renderà la natura un po’ più «vicina» a noi sia nello spazio che nel tempo: nello spazio perché ci aiuterà a dominare dimensioni sempre più piccole; nel tempo perché ci porterà indietro nella storia cosmica, a ridosso del Big Bang.
C’è comunque anche una bellezza dell’apparato strumentale – descritto in questo numero da uno dei protagonisti dell’impresa – che è l’arredamento principale dei tunnel del Cern: un insieme di hardware e di software che l’ingegno umano ha saputo realizzare per decifrare nei dettagli la struttura intima della materia. Il clima che si respira nei laboratori di Ginevra e tra i fisici che in molti altri laboratori sparsi per il mondo nei prossimi anni lavoreranno sui risultati di LHC, è un clima di euforia, di trepidazione, di intenso lavoro.
E non è difficile incontrare chi esprime la convinzione che, al termine delle prossime ricerche, la natura offrirà l’ennesimo saggio della sua bellezza, mentre il quadro teorico che la descrive apparirà un po’ più adeguato a spiegare i fenomeni; non senza l’emergere di ulteriori domande e quindi l’apertura di nuove piste di indagine.
La strada della conoscibilità si intreccia così con quella della bellezza, in un’avventura che la scienza promette a chi la vive con passione; ma che forse è un po’ meno evidente nella vita delle nostre scuole, dove i due termini sono spesso lontani e il pendolo oscilla tra una bellezza ridotta a estetismo emotivo e una conoscenza sempre più minimalista, per non dire mnemonica.
Seguire da vicino la nuova avventura della fisica delle particelle – come iniziamo a fare in questo numero – è un contributo al dibattito sulla «natura della natura», avviato nel fascicolo precedente, con tutto il suo carico di ambiguità e di affrettati riduzionismi. Anche quella dei femtometri e dei picosecondi è «natura» e la strana sensazione che ci prende dando questo nome alla materia in quelle condizioni estreme è una conferma che il concetto di natura è ben lungi dall’essere chiarito e univoco.
La profondità scandagliata dai fisici del Cern è una riprova dell’ampiezza del problema e al tempo stesso un richiamo all’insondabi¬lità ultima del reale, che non perde il suo carattere di «mistero» anche quando le conquiste della scienza lo rendono più conoscibile.



Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 33 di Emmeciquadro


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