L’autore mostra il percorso avvincente, anche se non privo di contraddizioni, compiuto da Galileo per affrancarsi dalla teoria aristotelica del moto. I tre teoremi che enuncia, quello della caduta libera, dei piani inclinati e delle corde, gli permettono di affrontare in modo nuovo lo studio del moto, anche se i teoremi, almeno inizialmente, sono più intuiti che dimostrati. Una caratteristica di questo percorso, per certi versi paradossale, è l’utilizzo da parte di Galileo di un metodo della Scolastica: prima mostrar falsi i vecchi concetti (reprobo) e poi mostrar validi i nuovi (probo). Poiché col senso comune siamo tutti aristotelici, questo metodo può avere delle suggestioni in una didattica che aiuti gli studenti a superare «preconoscenze» errate sul moto dei corpi.



Nel dicembre del 1609 Galileo puntò per la prima volta il suo nuovo «cannocchiale» verso il cielo e ciò che vide gli confermò la validità del sistema copernicano, che da quel momento difese e propagandò strenuamente con molta abilità e, forse, con un po’ troppa arroganza.
Ma da quando egli era copernicano? Le prime indicazioni certe risalgono al 1597. In particolare (1) nell’agosto di quell’anno in una lettera a Keplero, per ringraziarlo del suo nuovo libro che aveva appena ricevuto, dichiara di aver abbracciato la teoria copernicana ormai da vari anni (in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim) e di aver raccolte molte prove in suo favore (naturalium effectuum causae sint a me adinventae).
Tali prove, nonostante fossero state sollecitate dallo stesso Keplero, non furono mai presentate. È tuttavia possibile che le prove fossero indirette e venissero, come vedremo, dai suoi studi di dinamica.



I primi studi sul moto

Galileo si pone in una posizione antiaristotelica fin dai suoi primi studi di meccanica iniziati a Pisa nel periodo in cui era professore di matematica presso lo Studio pisano (1589-1592) e i cui risultati sono riportati in un trat¬tato inedito, il De motu (2), elaborato in quel periodo e che forse costituiva una guida per le sue lezioni. Per quanto riguarda il moto naturale dei corpi egli afferma in particolare:

Aristotele sostiene che mobili del medesimo genere osservino fra di loro, quanto a velocità del moto, quella proporzione che hanno proprio le grandezze dei mobili, e assai chiaramente dice ciò, 4 Caeli t. 16, dicendo che un grande [pezzo di] oro si muove più celermente di uno piccolo.
Quanto questa opinione sia, in verità, ridicola è più chiaro della luce: infatti chi mai crederebbe se, per esempio, […] da una torre alta fossero lasciati cadere nel medesimo istante due sassi, di cui uno abbia mole doppia dell’altro, quando il minore si trova a metà della torre il maggiore abbia già raggiunto la terra? [il trattato è in latino; i corsivi sono dell’autore]

E prosegue affermando:



Diciamo dunque che mobili della medesima specie (vengono detti della medesima specie quelli che sono formati dalla medesima materia, come piombo, oppure legno, etc.) quantunque differiscano nella mole, si muovono tuttavia con la medesima celerità, ed un sasso più grande non discende più celermente di uno più piccolo.
Coloro che si stupiscono di questa conclusione, si stupiranno altresì che tanto una trave grandissima quanto un piccolo legno possano galleggiare.

A conferma di ciò presenta tra l’altro questo «esperimento mentale»:

Se supponiamo, infatti, che a e b siano mobili uguali e siano vicinissimi fra loro, allora, siamo tutti d’accordo, si muoveranno con uguale celerità: pertanto, se immaginiamo che essi durante il movimento si uniscano, perché, domando, come voleva Aristotele, raddoppieranno la celerità del moto o la aumenteranno?

Secondo il Viviani che gli fu vicino negli ultimi anni di vita nell’esilio di Arcetri, Galileo verificò tale risultato con il famoso esperimento dalla torre di Pisa, sulla cui effettiva realizzazione gli storici hanno oggi qualche dubbio.
«In quel tempo, parendogli d’apprendere ch’all’investigazione degli effetti naturali necessariamente si richiedesse una vera cognizione della natura del moto, stante quel filosofico e vulgato assioma ignorato motu ignoratur natura, tutto si diede alla contemplazione di quello: et allora, con grande sconcerto di tutti i filosofi, furono da esso vinte di falsità, per mezzo di esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell’istesso Aristotele intorno alla materia del moto […], come tra l’altre, che la velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, anzi si muovono con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall’al¬tezza del Campanile di Pisa, con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca.»(3)

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Gianni Bonera
(Dipartimento di Fisica “A. Volta” dell’Università di Pavia)

  1. Alcuni mesi prima, nel mese di maggio, in una lettera a Jacopo Mazzoni, docente di filosofia e suo collega quando insegnava a Pisa, egli cercava di difendere Copernico da alcune obiezioni da questi formulate.
  2. Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale a cura di A. Favero, Barbera, Firenze 1890-1909 (in seguito EN) Vol. I, p. 250-406. Citato spesso come De motu antiquiora, dal titolo originale riportato sulla copertina del Codice che conserva il manoscritto autografo. Si tratta in realtà di una pluralità di versioni della stessa teoria del moto.
  3. V. Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, EN Vol. XIX, p. 606.

© Pubblicato sul n° 34 di Emmeciquadro


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