human papilloma viruses
causing cervical cancer”
Il premio Nobel per la Medicina per il 2008 è stato assegnato al ricercatore tedesco Harald zur Hausen (1) [Immagine che segue a sinistra] , «for his discovery of human papilloma viruses causing cervical cancer», e ai due ricercatori francesi, Francoise Barré-Sinoussi (2) [Immagine che segue a destra], e a Luc Montagnier (3) «for their discovery of human immunodeficiency virus».
L’allarme sanitario fu subito altissimo, la malattia era mortale, il numero degli affetti aumentava rapidamente interessando strati differenti di popolazione; dagli iniziali sottogruppi rappresentati da soggetti di sesso maschile, omosessuali e tossicodipendenti, si passò a soggetti eterosessuali, con apparentemente normali abitudini di vita. Inizialmente senza spiegazione, anche un crescente numero di soggetti affetti da Emofilia si ammalarono di AIDS.
La malattia apparve ben presto non essere circoscritta a specifiche aree geografiche ma ampiamente diffusa anche al di fuori dello Stato di New-York e della California dove era stata in origine descritta.
Il quadro clinico di AIDS apparve fin dall’inizio complesso e peculiare. Ripetute infezioni opportunistiche, specifiche malattie neoplastiche e malattie autoimmuni si sviluppavano in soggetti apparentemente sani e esenti dai rischi noti per le malattie geneticamente trasmissibili. Le infezioni da Micobacterium Tubercolosis e le polmoniti da Pneumcistis Jiroveci furono la principale causa di morte. I tumori associati a AIDS includevano forme molto aggressive del Sarcoma di Kaposi, del Linfoma da virus di Epstein Barr, del tumore della cervice da papilloma Virus e del Linfoma di Hodgkin.
I malati, se non morivano per le patologie opportunistiche o per il tumore, sviluppavano devastanti forme di cachessia dovuta a una forma incurabile di diarrea. In breve tempo apparve chiaro che la malattia si trasmetteva agli adulti per via sessuale (specialmente attraverso la mucosa intestinale), ai feti per via transplacentale da madri infette, e per via ematica agli utilizzatori di emoderivati, quali erano i soggetti con emofilia, e di sangue.
Per gli scienziati le caratteristiche cliniche della malattia, le vie di trasmissione, la peculiarità del sottogruppo dei pazienti affetti da AIDS e la dimostrazione della riduzione nel loro sangue del numero dei linfociti T helper CD4+ indicavano come alla origine della malattia potesse esserci una infezione da retrovirus.
I linfociti T helper CD4 appartengono a una delle tre principali popolazioni linfocitarie: i linfociti B, i linfociti T e i linfociti natural killer. Tutte le tre popolazioni partecipano con funzioni differenti alla risposta immune di difesa verso l’aggressione dell’organismo da parte di agenti estranei. In particolare una sottopopolazione di linfociti T (T helper) partecipa alla risposta immunitaria sia attraverso un’azione di stimolo sui linfociti B sia at¬traverso una autonoma attività citotossica. In laboratorio, i linfociti T helper vengono identificati per la presenza sulla membrana di caratteristiche molecole: CD4 e CD3 |
Perseguendo l’ipotesi dell’origine retrovirale della malattia, nel laboratorio di Virologia Oncologica dell’Istituto “Pasteur” a Parigi, il gruppo di ricercatori coordinato da Francoise Barré-Benussi e Luc Montagnier, per primo isolò e caratterizzò il virus dell’immunodeficienza acquisita dalle cellule linfono-dali di un soggetto affetto da AIDS.
Si trattava di un nuovo tipo di retrovirus umano che non induceva la trasformazione-attivazione dei linfociti T, era in massima parte costituito da una proteina di 25-kDa con proprietà antigeniche differenti da quella precedentemente descritte per il virus HTLV-I; inoltre la cultura di cellule isolate da pazienti con AIDS comportava la liberazione nel medium di particelle virali che potevano essere utilizzate per infettare i linfociti di soggetti sani. Il virus fu denominato Linfoadenopathy Associated Virus (LAV) o Human Immunodeficiency Virus (HIV-I).
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I risultati della ricerca del gruppo francese furono pubblicati sul numero del 20 maggio 1983 della prestigiosa rivista Science, ma gli autori stessi nelle conclusioni del lavoro affermavano che «il ruolo del virus nella ezio¬logia di AIDS deve ancora essere determinato». Solo un anno dopo fu sottoposto al vaglio della comunità scientifica la documentazione relativa alla dimostrazione che l’infezione retrovirale era la causa del AIDS.
I ricercatori del Laboratory of Tumor Cell Biology, National Institute of Health (NIH), coordinati da Robert Gallo, pubblicarono su Science ben quattro lavori nei quali in modo molto convincente dimostrarono il ruolo patogenetico del retrovirus da loro isolato e denominato Human T-limphotrofic Virus type III (HTLV-III).
HTLV-III e HIV-I risultarono essere straordinariamente simili, con differenze inferiori al 2%; questo appariva poco plausibile per virus isolati da differenti soggetti. Proprio la straordinaria somiglianza tra il virus isolato a Parigi e quello isolato nel laboratorio di Gallo fu alla base della disputa legale sulla paternità della scoperta con accuse di frode scientifica nei confronti di Gallo. Ben dieci anni durarono gli scontri legali e le indagini tecniche nei due laboratori, con il risultato di un blocco quasi completo della ricerca. Nel 1991 Robert Gallo dovette ammettere che probabilmente i virus isolati nel suo laboratorio erano gli stessi in precedenza isolati nel laboratorio francese.
Lo scambio di materiale biologico tra laboratori è evento frequente, e i ricercatori del laboratorio di Gallo erano già rinomati per gli studi all’avanguardia in campo virale. Nel 1970 avevano infatti isolato e caratterizzato il primo retrovirus umano, avevano messo punto le tecniche di coltura essenziali per la crescita in vitro del retrovirus, avevano pubblicato fondamentali scoperte sui cromosomi del virus e su come il virus infetta la cellula eludendone i sistemi di protezione.
Il controllo della pandemia
La scoperta del retrovirus HIV e della modalità della sua replicazione hanno indicato che la prima strada da seguire per la terapia dei malati era quella di sviluppare farmaci capaci di bloccare la replicazione retrovirale. Dopo i ripetuti insuccessi nei trials clinici che prevedevano l’utilizzo di un solo farmaco, si mise a punto l’attuale protocollo che prevede il contemporaneo utilizzo di più farmaci per inibire l’enzima utilizzato dal virus per integrarsi nel DNA dell’ospite, bloccare il recettore (CCR5) utilizzato dal virus per penetrare nella cellula da infettare. Questa terapia combinata ha portato a grandi risultati; oggi l’aspettativa di vita dei malati è simile a quella dei soggetti sani, ma a condizione di assumere la terapia per tutta la vita.
Si calcola che allo stato attuale siano circa tre milioni i soggetti in terapia anti-retrovirale, e che la maggior parte di questi viva in stati ad alto standard economico. L’alto costo dei farmaci per questa terapia che non può essere sospesa e la difficoltà di porre una corretta diagnosi, esclude circa il 90% dei soggetti malati che vivono nei paesi sottosviluppati.
Inoltre l’attuale terapia antivirale permette solo di rallentare la progressione della malattia ma non di curare l’infezione da HIV-1, così l’epidemia prosegue nella sua diffusione e si stima che per ogni soggetto posto in terapia due-tre nuove persone vengano infettate.
L’immunoterapia
La storia della medicina moderna ci ha insegnato che il vaccino si è rivelato l’arma più efficace per bloccare e successivamente debellare le peggiori epidemie. Sfortunatamente i risultati delle sperimentazioni con vaccini anti-HIV sono stati deludenti, frustranti per i ricercatori e talvolta molto rischiosi per i pazienti. In alcuni casi nella fase di valutazione della tollerabilità e sicurezza del prodotto, condotta necessariamente su volontari sani, è apparso evidente come i soggetti non solo non venivano protetti ma anzi risultavano più facilmente infettabili e sviluppavano una forma di malattia particolarmente aggressiva.
Molti sono ancora i problemi irrisolti sulla strada dell’immunoterapia per la AIDS. Classicamente una infezione virale comporta una rapida insorgenza di malattia, che in un tempo relativamente breve, se non si verifica la morte del soggetto infettato, scatena sia una robusta risposta immunologica con la produzione di specifici anticorpi che neutralizzando il virus ne prevengono l’ulteriore replicazione, sia la stimolazione dei linfociti T che, individuando le cellule già infettate, le eliminano dall’organismo. Fondamentale ai fini del controllo e la prevenzione delle epidemie è l’instaurarsi della così detta «memoria immunologica», processo per il quale dopo l’infezione il sistema immunologico ricorda le caratteristiche del virus infettante, lo riconosce e lo elimina immediatamente in caso di una nuova infezione.
Le terapie che si basano sui vaccini non fanno altro che riprodurre in modo controllato e sicuro quanto la natura mette spontaneamente in atto. Per il virus HIV-I la situazione si è dimostrata assai differente.
L’infezione naturale si associa a una inadeguata risposta immunologica che in nessun caso si è dimostrata in grado di debellare il virus. Non sono infatti conosciuti casi, scientificamente provati, di soggetti infettati da HIV che siano andati incontro a guarigione spontanea.
Molteplici sono i motivi alla base dei ripetuti fallimenti della immunoterapia: la straordinariamente lenta progressione della malattia, che impiega decenni prima di diventare clinicamente manifesta; l’integrazione del patrimonio genetico di HTLV-I con quello della cellula ospite dove rimane silente per lungo tempo e di fatto invisibile al sistema immunologico; l’altissima diversità genetica dovuta alla straordinaria velocità con la quale si verificano mutazioni nella fase di replicazione del virus.
Nel tempo in cui l’organismo produce e mette in circolo anticorpi speci¬fici e diretti con l’involucro proteico di HTV-I, il bersaglio principale dell’anticorpo, la proteina viene mutata più volte riuscendo così a sfuggire all’attacco anticorpale.
Nuovi anticorpi vengono in continuazione prodotti ma le nuove mutazioni permettono inevitabilmente a HTV-I di sfuggire al controllo del sistema immunologico.
Allo stato attuale delle conoscenze non sembra possibile l’allestimento di un vaccino anti-HIV che agisca secondo le classiche regole di una efficace immunoterapia.
La speranza di sconfiggere la malattia e bloccare la pandemia, sembra risiedere nella futura capacità degli scienziati di definire meglio le caratteristiche della malattia fin dalle fasi iniziali dell’infezione.
Questo processo presuppone un ritorno alla ricerca di base per raggiungere un livello di conoscenza enormemente più alto di quello che fu necessario per la messa a punto dei precedenti vaccini. In altre parole la battaglia potrebbe ancora essere lunga.
Luigi Bergamaschini
(Professore Associato in Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Milano)
Note
- Harald zur Hausen (1936-…), Direttore scientifico emerito del German Research Center di Heidelberg
- Francoise Barré-Sinoussi (1947-…), Direttore del Regulation of Retroviral Infections Unit, Dipartimento di Virologia presso l’Istituto “Pasteur” di Parigi
- Luc Montagnier (1932-…), Presidente della World Foundation for Aids Research and Prevention in Parigi
© Pubblicato sul n° 34 di Emmeciquadro