Nell’anno che segna il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche di Galileo Galilei, l’autore ripropone il lungo cammino che portò dalle lenti di ingrandimento e dai primi occhiali, prodotti per facilitare la lettura ai monaci anziani in epoca medioevale, ai primi rudimentali cannocchiali. Descrive poi come Galileo trasformò il cannocchiale in telescopio, lo strumento che ha forse più contribuito a rivoluzionare la nostra concezione della terra e del cosmo. Infine accenna ai rapidi progressi della tecnica ottica che nel corso del XVII secolo fornirono agli astronomi i mezzi per cominciare a penetrare nel mondo dell’infinitamente grande.
Gli antichi dell’area mediterranea avevano osservato e cercato di comprendere alcuni dei fenomeni ottici fondamentali, legati alla propagazione e alla riflessione e rifrazione della luce (per esempio lo strano aspetto degli oggetti parzialmente immersi in acqua, l’effetto ingrandente di bocce di vetro piene d’acqua, eccetera), e sviluppato nozioni teoriche di ottica geometrica in corposi trattati. Erano anche in grado di realizzare «oggetti» (non li possiamo a rigore chiamare lenti) fatti con il vetro o con qualche cristallo trasparente, in grado di ingrandire le immagini, che venivano probabilmente usati per facilitare lavori di precisione, quali la filigrana o la cesellatura, o forse anche per migliorare la vista (sembra per esempio che Nerone, che era miope, usasse a questo scopo un grosso smeraldo) o per effettuare interventi chirurgici oftalmici, o per accendere il fuoco.
La loro lavorazione avveniva molto probabilmente con le stesse tecniche di molatura e lucidatura di gemme e pietre preziose che si sono tramandate nei secoli. Alcuni musei conservano esemplari di queste «lenti» antiche; per esempio al British Museum di Londra è esposta una lente in cristallo di rocca (quarzo) trovata nel palazzo di Nimrud (Iraq), risalente a circa 2200 anni fa che ha un buon grado di finitura e discrete qualità ottiche, mentre nel Gotland Museum, un museo archeologico svedese situato nella località di Visby, sono conservate diverse lenti asferiche di qualità ottica molto buona, trovate in tombe vichinghe risalenti all’alto medioevo, ma provenienti molto probabilmente dall’Oriente, attraverso le vie commerciali.
Lenti e occhiali
Secondo quanto sostiene lo storico svizzero Rolf Willach, in un bellissimo studio pubblicato nel 2008, una circostanza che contribuì a preparare il terreno per una ripresa e uno sviluppo delle tecniche antiche, fu lo svilupparsi nei monasteri medioevali della produzione di un tipo di reliquiari nei quali le piccole reliquie erano sistemate sotto coperchietti trasparenti di cristallo di rocca, di forma circolare od ovale, lavorati in forme abbastanza simili a lenti piano convesse; questa usanza si di”use ancor più dopo le crociate, che portarono in Europa molte reliquie dalla Terra Santa.
Ai monaci non sfuggi la proprietà di ingrandire gli oggetti posseduta da tali primitive «lenti », che essi cominciarono a usare come lapides ad legendum per aiutare nella lettura i loro confratelli più anziani. Non si trattava ancora di occhiali, ma di qualcosa che bisognava appoggiare sul testo scritto, utile quindi solo per la lettura, ma non ancora per la scrittura.
Si perfezionava nel frattempo la tecnica di lavorazione e produzione di queste lapides, prima dal cristallo naturale e poi dal vetro, e nel contempo si rafforzava la convinzione che i difetti senili della vista non erano tanto una malattia da curare con erbe o pozioni, quanto un difetto che si poteva correggere. Verso la fine del Duecento si arrivò così a produrre i primi «occhiali», cioè delle «lenti» (lens, lenticchia, è il loro nome popolare, in latino erano più spesso denominate specilla o conspicilla) che venivano, non più appoggiate sul libro come una lente di ingrandimento, ma tenute vicino all’occhio, correggendone la capacità di mettere a fuoco che si riduce col passare degli anni.
L’invenzione avvenne in Italia, molto probabilmente in ambiente monastico (alcuni citano espressamente come inventore un certo Salvino degli Armati di Firenze, altri il frate Alessandro Spina del monastero di Santa Caterina a Pisa, che fu probabilmente solo un loro divulgatore); la datazione della scoperta, agli ultimi due decenni del XIII secolo, viene fatta indirettamente, sulla base della prima citazione nota degli occhiali, contenuta in una predica che il monaco domenicano Giordano da Rivalto, tenne a Firenze in Santa Maria Novella, nel 1305, dove dice espressamente: «non è ancora venti anni che si trovò l’arte di fare gli occhiali che fanno vedere bene, ch’è una delle migliori arti e delle più necessarie che ‘l mondo abbia, ed è così poco che si trovò: arte novella che mai non fu… io vidi colui, che prima la trovò, e fece e favellaigli».
Nei tre secoli seguenti, cioè fin verso l’inizio del Seicento, l’artigianato della produzione degli occhiali si sviluppò specialmente nelle città italiane ed europee dove esisteva una tradizione di lavorazione del vetro, quali Venezia, Firenze, Norimberga (Germania) e Middelburg (Olanda), dando origine, in particolare a Venezia a una #orente «industria», che sfornava migliaia di occhiali all’anno, esportati fino in Oriente.
In questo lungo periodo di tempo l’arte della fabbricazione delle lenti rimase saldamente nelle mani degli artigiani occhialai e la loro tecnica di produzione subì una lenta evoluzione. Ma nessuno, salve qualche isolato studioso, fece delle lenti un utilizzo pratico diverso da quelli già noti.
I progressi nella produzione degli occhiali
In effetti, prima del Seicento le lenti erano utilizzate solamente per la produzione degli occhiali, che erano diventati col passare del tempo oggetti di uso abbastanza comune, come dimostra la abbondante iconografia di santi e di altri personaggi dotati di occhiali risalente a quei secoli.
La prima ritrae il cardinale Nicola da Rouen che legge il libro con una specie di monocolo, tenuto in mano con un piccolo manico. [Immagine a sinistra]
A volte questa immagine viene erroneamente commentata dicendo che il cardinale sta leggendo il libro con una lente di ingrandimento. In realtà, come giustamente fa notare il Villach, la lente è tenuta troppo vicina all’occhio per essere una lente di ingrandimento (come si è accennato a quei tempi erano ben note le lapides ad legendum): si tratta in effetti di una forma primitiva di occhiali, costituita da una singola lente correttiva da presbite, che veniva tenuta in mano.
Ma come venivano prodotte queste lenti da occhiali?
Anche qui sono molto preziosi gli studi del Villach, il quale in anni di paziente lavoro ha esaminato a fondo le caratteristiche microscopiche e le proprietà ottiche di moltissime lenti di occhiali antichi conservati in vari musei e collezioni.(1)
Le conclusioni di questo studioso sono che in un primo lungo periodo che va dalla fine del Duecento alla fine del Quattrocento le lenti di vetro erano prodotte per soffiatura e molatura, con una tecnica inventata a Venezia, dove per produrre le lenti da occhiali, o come venivano inizialmente chiamati i roidi da ogli, era prescritto l’uso di un vetro alla soda denominato cristallum, particolarmente trasparente; successivamente si usò invece solamente la molatura, una tecnica sviluppata probabilmente a Norimberga.
Nel primo caso l’artigiano gonfiava il vetro in forma di sfera, di diametro e spessore opportuno, e la incideva mediante degli stampi circolari in rame, in modo che quando era fredda si potessero staccare dei dischetti.
Questi venivano lasciati tal quali dalla parte convessa, mentre l’altra faccia veniva molata per renderla piana. La tecnica rendeva più semplice produrre due lenti uguali, adatte a un paio di occhiali, di quanto non si riuscisse allora fare con la molatura.
Nel secondo caso, invece, si producevano dei dischetti piani di vetro che venivano poi molati e lucidati sui due lati, per produrre lenti convesse o concave (quest’ultime, indicate per la correzione della miopia, entrarono in uso solo dopo il 1450).
Tecnica della Produzione del Vetro Nella produzione del vetro era necessario usare un «fondente» per abbassare la temperatura di fusione della sabbia silicea, che costituisce la materia prima principale, fino ai valori ottenibili nei forni del tempo. A Venezia si usava la soda, o meglio un sale naturale a base di soda, denominato natrun che i veneziani importavano dall’Egitto, che dava un ottimo risultato in termini di trasparenza, assenza di bolle e durata, mentre nel Nord Europa si usava la potassa, ricavata dalla cenere del legno di alcuni alberi, che dava risultati peggiori e non metteva il prodotto al riparo da un processo di progressiva devetrificazione, in presenza di umidità. |
Dunque, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, la tecnica di produzione delle lenti e degli occhiali era saldamente nelle mani di abili artigiani, che svolgevano il loro lavoro come qualsiasi altro titolare di un mestiere di quel tempo, come si vede per esempio in una bella tavola dei mestieri praticati a Bologna [Immagine che segue], nella quale compare anche l’occhialaio. Essi avevano una conoscenza del tutto empirica della loro arte, e non avrebbe probabilmente potuto essere diversamente in un’epoca in cui sugli stessi concetti di luce e di visione le idee erano per lo meno bizzarre.
Il Meccanismo della Visione Nell’antichità si erano sviluppate essenzialmente due scuole di pensiero per spiegare il meccanismo della visione, che però lasciavano irrisolti molti quesiti. L’una, contenuta per esempio nell’Ottica di Euclide, sosteneva che l’occhio emanava una sorta di «bastoncini» che esploravano gli oggetti. L’occhio si sarebbe quindi comportato come il cieco che tasta gli oggetti col suo bastone: ma perché allora al buio non ci si vede? L’altra sosteneva che per la vista doveva succedere qualcosa di simile a quanto accade per l’olfatto e l’udito; doveva cioè esserci qualcosa che partiva dagli oggetti e arrivava all’occhio: dei simulacri o delle scorze superficiali della forma degli oggetti. Ma come potevano penetrare, nel piccolo foro della pupilla, i simulacri o le scorze superficiali di oggetti così grandi come le montagne? A questa seconda concezione si rifaceva il fisico arabo Alhazen, vissuto a Bagdad a cavallo fra X e XI secolo, le cui opere erano ben conosciute anche in Europa, che fece molte osservazioni importanti. Per esempio se si guarda un oggetto molto luminoso come il sole e poi si chiudono gli occhi si continua a vederlo per un po’; quindi la visione non può essere dovuta a qualcosa emesso dall’occhio, ma a qualcosa proveniente dagli oggetti, un lumen, che si propaga in linea retta, e a velocità altissima. Ma le due concezioni permasero in auge senza che una della due avesse netta prevalenza sull’altra, tanto che in una delle più autorevoli opere «enciclopediche» del tempo, immediatamente anteriore a Galileo, (Margarita Philosofica, di Gregor Reisch da Friburgo, edita verso la metà del Cinquecento, e più volte ristampata), si trova una specie di sintesi fra le due: «ecco perché noi, che ci dobbiamo tenere alla scienza più comune, diremo che la visione ha luogo per mezzo della ricezione nell’occhio di specie delle cose visibili, mediante una piramide che ha la base sulla cosa vista e il vertice nell’occhio. In quanto allo spirito visuale, lucido e chiaro, esso discende dal cervello per i nervi fino agli occhi. Modificato dalle specie (o immagini) ritorna indietro, con una sensazione confusa. Al suo ritorno l’anima si sveglia, e vedendo la superficie del suo diafano, che è quella della più grande purezza e assolutamente incolore, tendersi similmente all’oggetto, si rivolge a quest’oggetto e lo vede allora in modo distinto…» |
Il cannocchiale
E fu proprio nell’ambiente degli artigiani occhialai che l’invenzione del cannocchiale scaturì in maniera casuale, fra l’ultimo decennio del Cinquecento e il primo del Seicento. Qualcuno di loro si rese conto che contrapponendo una lente da presbite (convessa) e una da miope (concava) gli oggetti lontani apparivano vicini, ed ebbe l’idea di mettere le due lenti all’estremità di due tubi concentrici, per aggiustare la distanza fra le lenti a cui l’immagine risultava a fuoco.
Benché gli storici concordino sul periodo e sull’ambiente di origine, come nel caso di tante altre invenzioni c’è una certa controversia su chi possa essere il vero inventore e anche su quale sia il luogo dell’invenzione.
La maggior parte dei testi parla dei Paesi Bassi, essenzialmente perché da quei luoghi provengono i documenti più antichi che citano i tre personaggi, ai quali più frequentemente si sente attribuire l’invenzione del cannocchiale: Johannes Sacharias Janssen o Hans Lipperhey, vissuti nella città olandese di Middelburg, oppure Giacomo Metius, originario di Alkmaar (Germania), quest’ultimo citato come inventore del cannocchiale da Cartesio.
Ma il noto scienziato e storico italiano Vasco Ronchi sostiene [Ronchi, 1958 e Ronchi, 1968] che questi avrebbero in realtà imitato un oggetto arrivato dall’Italia verso il 1590, a seguito della migrazione in Olanda di vetrai nostrani, ed a sostegno di questa tesi cita uno scritto olandese del 1634, pubblicata dallo storico Cornelis de Waard (2) nel quale è riportata una affermazione del figlio di Janssen, che suona così: «Giovanni Zaccaria (Janssen) dice che suo padre costruì il primo telescopio in questo paese nell’anno 1604, imitandone uno pervenuto dall’Italia, su cui era scritto: anno 1590».
«[…] Del secreto dell’occhiale l’ho visto, et è una coglionaria, et è presa dal mio libro De refractione; […]È un cannelo di stagno di argento, lungo un palmo, grosso di 3 diti di diametro, che ha nel capo un occhiale convesso: vi è un altro canal del medesimo, di 4 diti lungo, che entra nel primo, et ha un concavo nella cima, saldato, come il primo […]. Ponendovi dentro l’altro canal concavo, è […] se vedranno le cose chiare e dritte: e si entra e cava fuori, come un trombone, sinchè si aggiusti alla vista del riguardante […].»
Del resto un accenno a questo fatto era già contenuto nel trattato Homocentrica pubblicato a Venezia nel 1538 da Girolamo Fracastoro (1478- 1553), medico e astronomo, dove si dice: «[…] per duo specilla ocularia si quis perpiciat, altero alteri superposito majora multo et propinquiora videbit omnia (se si guarda attraverso due lenti da occhiali, una messa sull’altra, si vedranno tutte le cose molto più grandi e vicine).»
Ma le qualità ottiche delle lenti da occhiali costruite in quegli anni, benché sufficienti per il loro utilizzo per la correzione della vista, sarebbero però state troppo mediocri per costruire un «cannocchiale» in grado di produrre immagini sufficientemente nitide.
I meriti di Lipperhey, il più accreditato dei tre possibili inventori, sarebbero stati principalmente quelli, sia di sapere costruire lenti di buona qualità, sia soprattutto di avere intuito qual’era il «trucco» per ottenere immagini nitide anche con una coppia di comuni lenti da occhiali: porre dei diaframmi di fronte alle lenti, in modo da utilizzare solamente la loro parte centrale, che era quella di qualità ottica accettabile(3), ottenendo in tal modo un cannocchiale che produceva immagini sufficientemente nitide e definite, e un numero di ingrandimenti(4) (probabilmente non più di 4-5) sufficienti a suscitare l’interesse dei suoi contemporanei, in particolare le autorità pubbliche e i militari(5).
Comunque, sia che l’idea originaria fosse italiana od olandese, sta di fatto che i primi cannocchiali che comparvero sul mercato, arrivavano dai Paesi Bassi o dalle Fiandre, come lo stesso Galileo afferma nel Sidereus Nuncius, il libro pubblicato nel marzo del 1610 nel quale diede annuncio delle sue scoperte astronomiche al telescopio: «Circa dieci mesi fa [maggio 1609] arrivò alle nostre orecchie la notizia che da un certo Belga era stato congegnato un occhiale, per beneficio del quale gli oggetti visibili anche molto lontani dall’occhio dell’osservatore si vedevano distintamente come vicini».
È possibile che i primi cannocchiali olandesi, in circolazione già verso la fine del 1608, fossero poco più che dei giocattoli, ma sufficienti a suscitare subito, come si è accennato, l’interesse dei militari, ai quali non era sfuggita l’importanza strategica di poter osservare a distanza gli spostamenti del nemico.
Apparentemente essi non ebbero altrettanto immediata eco fra gli scienziati del tempo: aggiunge infatti Galileo nel Sidereus Nuncius che «[…] di questo effetto [l’ingrandimento] decisamente meraviglioso si riferivano alcune esperienze alle quali alcuni prestavano fede, altri la negavano».
E anche Galileo dovette essere inizialmente scettico tanto che chiese conferme a un suo corrispondente, il nobile francese Jacopo Badouère da Parigi, che gli rispose positivamente, «[…] il che finalmente mi indusse a dedicarmi completamente a ricercare le ragioni, nonché a escogitare i mezzi per arrivare a ritrovare un si”atto strumento […]».
L’ottica ai tempi di Galileo
Prima dell’epoca di Galileo gli «scienziati» dell’antichità e del periodo medioevale-rinascimentale, avevano studiato e ragionato a lungo sui fenomeni ottici.
Ma a parte l’ottica geometrica, nella quale si giunse a risultati di rilievo, l’assenza di una concezione realistica della natura della luce e dei meccanismi della visione, fecero sì che, fenomeni ottici come quelli indotti dall’interazione della luce coi mezzi ri!ettenti, quali gli specchi curvi, o con quelli trasparenti, quali le lenti, rimanessero con#nati in un mondo di fenomeni visti con sospetto dalla comunità dei dotti (filosofi e filosofi della natura), che li consideravano appartenenti al mondo delle «illusioni ottiche» e non troppo degni di attenzione da parte di studiosi seri.
Nel Cinquecento ci furono peraltro studiosi come Francesco Maurolico da Messina (1494-1574), frate originario di Costantinopoli, e ben a conoscenza degli studi di Alhazen, che non disdegnarono di occuparsi di tutti gli aspetti dell’ottica, compreso il funzionamento delle lenti e degli occhiali nella correzione della vista. Purtroppo la sua opera principale, scritta nella prima metà del Cinquecento, fu pubblicata postuma solamente nel 1611, con le note del gesuita padre Clavio, membro del Collegio Romano, e non ebbe quindi alcuna in!uenza in un tempo in cui l’ottica sembrava ancora interessare principalmente personaggi un po’ al confine fra la scienza e la magia, quali il Della Porta, autore del corposo trattato intitolato Magia Naturalis, nel quale sono più che altro descritti e messi in rilievo i fenomeni «prodigiosi» provocati da specchi e lenti.
Lo stesso trattato di Keplero, Ad Vitellionem Paralipomena pubblicato nel 1604 nel quale egli analizza la natura e il comportamento della luce e i processi di formazione e di localizzazione delle immagini, accenna solo di sfuggita al funzionamento delle lenti.
Dunque, agli inizi del Seicento la conoscenza ottica a disposizione di Galileo, il quale non era peraltro un particolare specialista di questa disciplina, era ben lontana dal fornire degli elementi «scientifici» per lo sviluppo del telescopio, che emerse pertanto dall’empirismo degli artigiani.
Non a caso, appena saputo delle osservazioni di Galileo, lo stesso Keplero gli chiese (inutilmente) di mandargli uno dei suoi strumenti e già nel settembre del 1610 scrisse quel breve trattato Dioptrice (pubblicato all’inizio del 1611) nel quale fu finalmente scritta una teoria scientifica delle lenti.
Qui Keplero proponeva fra l’altro un nuovo schema di telescopio a due lenti convergenti, che fu realizzato in pratica dal padre gesuita Cristoph Scheiner, e che prese in seguito proprio il nome di «kepleriano». [Immagine sopra a destra: telescopio «kepleriano» realizzato da Cristoph Scheiner]
I telescopi di Galileo
Galileo costruì il suo primo cannocchiale agli inizi di luglio del 1609, mentre era professore di matematica all’Università di Padova.
Ecco come lui stesso descrive questo primo strumento nel Sidereus Nuncius: «E prima di tutto mi preparai un tubo di piombo, alle cui estremità applicai due lenti, ambedue piane da una parte, dall’altra invece una convessa e una concava; accostando poi l’occhio alla concava, scorsi gli oggetti abbastanza grandi e vicini, poiché apparivano tre volte più vicini e nove volte più grandi di quando si guardano con la sola vista naturale».
Si trattava di un tipo di cannocchiale simile a quello olandese, anche se in seguito fu detto appunto «galileiano», che utilizzava come obbiettivo una lente convergente, e come oculare una lente divergente. Il vantaggio principale di questo accoppiamento di lenti è quello di produrre una immagine diritta, mentre il principale inconveniente è quello di avere un campo visivo piuttosto ristretto.
Secondo Vasco Ronchi anche il cannocchiale ricostruito da Galileo, come quelli inventati dagli artigiani olandesi, fu dovuto a dei tentativi e non a dei ragionamenti, in quanto nessun ragionamento ottico al mondo porta prima al cannocchiale a oculare divergente che a quello convergente; e chiunque avesse proceduto per via logica, doveva trovare prima il cannocchiale basato su due lenti convergenti, oggi detto astronomico, o kepleriano, che però fu inventato e divenne d’uso comune solo in seguito, dopo che Keplero ebbe formulata, nel 1611, una teoria ottica delle lenti sufficientemente accurata.
Galileo non formulò invece mai nessuna teoria compiuta sul funzionamento del cannocchiale, anche se risulta dai suoi scritti di qualche anno dopo (Il Saggiatore, 1623) che gli era ben chiaro il principio fondamentale, che: «Il telescopio rappresenta gli oggetti maggiori [più grandi], perché gli porta sotto maggiore angolo che quando son veduti senza lo strumento».
Galileo fece comunque progressi molto rapidi nella tecnica costruttiva, tanto che già dopo pochi giorni dalla costruzione del primissimo strumento fu in grado di presentare un cannocchiale perfezionato ai notabili e al Doge di Venezia, i quali tanto apprezzarono la possibilità di riconoscere, dall’alto del campanile di San Marco, le navi che si avvicinavano al porto di Venezia, molto prima che fossero individuabili a occhio nudo, che gli concessero subito un cospicuo aumento di stipendio.
Galileo, a differenza dei suoi contemporanei scienziati, intuì molto rapidamente il grande potenziale che il telescopio aveva nel campo delle osservazioni astronomiche. Anche in questo caso egli non fu probabilmente il primissimo a puntare un cannocchiale al cielo; infatti per esempio in un diario di Pierre de l’Estoile di fine 1608, si legge che «[…] anche le stelle che ordinariamente non appaiono alla nostra vista e ai nostri occhi per la loro piccolezza e per la debolezza della nostra vista si possono vedere per mezzo di questo strumento»; ma le sue sistematiche osservazioni iniziate nell’estate del 1609, gli permisero di rendersi conto della vera natura della superficie lunare, di scoprire i satelliti di Giove e di osservare la miriade di stelle da cui è formata la Via Lattea, e di e”ettuare altre importanti scoperte sul sole e i pianeti negli anni successivi.
In ciò gli fu sicuramente molto utile l’abilità con cui riusciva a fabbricare i suoi strumenti, già dimostrata in altre occasioni, per esempio nella produzione del suo famoso «compasso militare». Una capacità alla quale non fu sicuramente estranea, in questo caso, la frequentazione con personaggi del settore veneziano del vetro, quale il suo amico Girolamo Magagnati, inventore di procedimenti per la fabbricazione di vetri speciali e di specchi, nonché proprietario di forni da vetro a Murano, ma che egli seppe comunque sviluppare nella giusta direzione, un po’ diversa da quella della produzione di lenti da occhiali, che era necessaria per costruire buoni telescopi.
E su quanto buone fossero le lenti di Galileo molte conferme sono venute dagli studi effettuati con tecniche moderne sui due unici esemplari di cannocchiale a lui appartenuti, che si conservano al Museo della Scienza di Firenze(6) i quali sono peraltro dotati, come quelli di Lipperhey, di opportuni diaframmi che limitano il campo di utilizzo delle lenti alla loro parte centrale, riducendone il diametro utile a poco più di 15 millimetri.
Lo sviluppo della tecnica ottica nel Seicento
L’enorme interesse, i dibattiti e le dispute sui «massimi sistemi» che furono suscitate dalle prime osservazioni astronomiche di Galileo, furono un poderoso stimolo allo sviluppo e al perfezionamento delle tecniche di produzione delle lenti ottiche e dei telescopi.
Il telescopio ebbe in particolare una evoluzione abbastanza rapida dalla forma «galileiana» a quella «kepleriana», che forniva, come si è accennato, alcuni vantaggi nelle osservazioni astronomiche, pur con l’inconveniente di fornire immagini invertite (a questo si pose presto rimedio inventando un particolare dispositivo, detto erettore, che raddrizzava le immagini, rendendo il cannocchiale a lenti convergenti adatto anche alle osservazioni terrestri).
Le tecniche di produzione delle lenti rimasero essenzialmente una «arte» manuale, circondata da un’aura di segretezza e di mistero, nella quale cominciarono peraltro a essere utilizzate delle semplici macchine, dei piccoli torni azionati manualmente, per sveltire un poco un lavoro che richiedeva in ogni caso tempi lunghi e molta pazienza.
Ce ne danno per esempio testimonianza il libro del bolognese Antonio Manzini, L’occhiale all’occhio, pubblicato nel 1666 e alcuni schizzi rimasti dello scienziato olandese Christian Huygens, databili verso il 1660, che descrivono delle «macchinette» per tornire e lucidare le lenti. Questi due personaggi stanno anche a indicare che Olanda e Italia rimasero nel Seicento luoghi privilegiati della produzione ottica.
In Italia quattro personaggi si distinsero particolarmente in questa «arte »: Evangelista Torricelli, Francesco Fontana, Eustachio Divini e Giuseppe Campani.
Torricelli (morto prematuramente nel 1647), allievo prediletto di Galileo negli ultimi tempi della sua vita, è ben noto per i suoi studi sulla pressione atmosferica e per l’invenzione del barometro a mercurio, ma forse un po’ meno per la sua abilità di costruttore di lenti e di telescopi.
Di lui sono rimaste in particolare delle interessantissime lettere [Ronchi, 1968] in cui descrive con cura e vivezza le varie fasi di lavorazione delle lenti, pur mantenendo il segreto su alcuni particolari della finitura.
Francesco Fontana, nato a Napoli nel 1580, costruiva e vendeva, fin dal 1636, lenti di ottima qualità (lo stesso Torricelli le considera come un modello da imitare) e telescopi kepleriani, con i quali compì lui stesso molte osservazioni della Luna e di Marte.
Divini, nato nelle Marche nel 1620, fu attivo a Roma fin dal 1646, dove ebbe il suo laboratorio fino alla morte, avvenuta nel 1695. Costruì lenti per telescopi di grande lunghezza focale (usate per ridurre le aberrazioni sferiche e cromatiche che affiggevano questi strumenti) e lenti per microscopi, inventando dei particolari doppietti ottici che miglioravano le qualità di questi strumenti.
L’Aberrazione Cromatica L’aberrazione cromatica è dovuta al fatto che la luce è composta da varie lunghezze d’onda (i colori) che vengono rifratte in maniera leggermente diversa dal vetro della lente, e convergono quindi non esattamente nelle stesso punto (il fuoco) ma in punti diversi; si formano così, intorno agli oggetti, degli aloni iridescenti. L’aberrazione sferica è invece dovuta alla non perfetta convergenza dei raggi provenienti dalla estrema periferia della lente e da quelli delle zone più centrali. |
Campani, originario di Spoleto e di poco più giovane di Divini, col quale rivaleggiò a volte anche in maniera piuttosto aspra, cominciò a operare a Roma verso il 1662, prima come costruttore di orologi, ma divenendo in breve anche uno dei più rinomati costruttori di strumenti ottici della seconda metà del secolo. Purtroppo non ebbe allievi ed eredi, cosicché i suoi segreti di lavorazione in gran parte andarono persi alla sua morte, avvenuta nel 1715. Ma il suo laboratorio era così rinomato che il papa Benedetto XIV lo volle acquistare in blocco da sua figlia, per donarlo all’Istituto delle Scienza di Bologna, città dove è tuttora in parte conservato.
Accanto a questi personaggi che svolsero un grande lavoro nel campo dei telescopi dotati di lenti, cioè a rifrazione, non possiamo fare a meno di accennare anche al padre gesuita Nicolò Zucchi, che già nel 1616 concepì e costruì il primo telescopio a ri!essione, nel quale cioè non si sfruttano le proprietà ottiche delle lenti, ma quelle degli specchi concavi.
L’idea di Zucchi fu concepita principalmente per superare il grosso problema della aberrazione cromatica delle lenti, anche se egli fu in grado di costruire solamente uno specchio sferico, che non era esente da un altro problema comune anche alle lenti, quello dell’aberrazione sferica.
Questo problema fu superato da Gregory e Newton che fra il 1663 e 1672 concepirono (Newton anche realizzò) i primi telescopi a riflessione dotati di specchi parabolici.
La stato della tecnica del loro tempo rendeva peraltro assai più difficile realizzare gli specchi metallici di cui furono dotati questi strumenti, che non le lenti, e le prestazione dei primi telescopi riflettori non erano eccelse, e tendevano rapidamente a degradare all’ossidarsi della superficie dello specchio.
Nonostante questi iniziali inconvenienti il telescopio riflettore era destinato a divenire lo strumento principe dell’astronomia più moderna, in particolare quella del XX secolo. Ma di questo altro affascinante capitolo parleremo magari un’altra volta.
Gianluca Lapini
(Ingegnere Aeronautico e Ricercatore CESI)
Note
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Alcuni di questi occhiali sono stati ritrovati in circostanze fortuite É il caso per esempio degli occhiali rinvenuti durante il restauro del coro ligneo del monastero di Wienhausen in Germania, finiti accidentalmente, o forse anche lasciati volutamente come ex-voto, sotto l’assito del pavimento, e lì rimasti per secoli.
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Per questi scritti e per una accurata ricostruzione dei fatti e dei documenti noti sulla invenzione in terra d’Olanda del cannocchiale, si veda il fondamentale paper di Albert Van Helden, citato fra i riferimenti bibliografici.
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A questo proposito Willach riporta una nutrita serie di test ottici sulle lenti antiche da lui esaminate, in particolare il cosiddetto test di Ronchi, che dimostrano che solo in alcuni casi esse possedevano delle qualità ottiche accettabili, e che in tali casi si ottengono delle immagini di discreta nitidezza diaframmando le lenti.
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Se immaginiamo che un occhialaio avesse messo insieme delle lenti di cui comunemente disponeva, per esempio una lente da presbite (convessa) da 1 diottria e una da miope (concava) da 4-5 diottrie, avrebbe in effetti ottenuto un cannocchiale da 4-5 ingrandimenti.
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In questo senso è significativo il fatto che a Lipperhey non fu concesso il brevetto, ma furono subito ordinati, dalle autorità olandesi, alcuni esemplari del suo cannocchiale, pagandoli una cifra cospicua.
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Il lettore interessato veda per esempio nel testo a cura di Dario Dondi, il paragrafo dedicato all’analisi delle qualità ottiche degli strumenti di Galileo.
Indicazioni Bibliografiche
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R. Willach, The Long Route to the Invention of the Telescope, Transaction of the American Philosophical Society, Vol 98, part 5, 2008 (Ristampa 2008, a cura di Diane Publishing).
© Pubblicato sul n° 36 di Emmeciquadro