Quando pensiamo a un fisico teorico non c’è nulla di più naturale che raffigurarcelo davanti a una lavagna piena di equazioni. E in effetti da sempre la matematica è stata strettamente associata alla fisica, campo nel quale ha permesso di conseguire risultati straordinari. Assai meno naturale è invece pensarla associata alla biologia, dove pure viene usata assai più spesso di quanto comunemente si crede, ma non sempre con esiti altrettanto brillanti. Oltre che da una difficoltà intrinseca dovuta al suo oggetto, indubbiamente assai più complesso di quello della fisica, forse ciò dipende anche da un approccio inadeguato, come ci spiega in questa intervista Dominique Lambert.



Intervista rilasciata il 6 marzo 2009 a Roma nell’ambito del Congresso Internazionale “Biological Evolution: Facts and Theories”, organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana.

Anzitutto può dirci qual è la sua idea a proposito dell’uso della matematica in biologia, che è stato anche l’argomento della sua relazione?



Si può riassumere come segue. La matematica è molto efficiente in fisica: per esempio Eugene Wigner parlava della «irragionevole efficacia» della matematica nella fisica, e il problema è se la matematica è così «irragionevolmente» efficiente anche in biologia. E la risposta può essere «sì ma non nello stesso modo in cui lo è in fisica», perché i sistemi biologici sono molto complessi, e quindi abbiamo bisogno di un approccio multi-scala e multi-livello, che introduca la complessità all’interno del modello stesso e un approccio che sia di fatto vicino all’approccio della fisica statistica e a quello della meccanica statistica valida al livello mesoscopico piuttosto che a quello delle particelle elementari della fisica.



Lei ha anche sottolineato il fatto che in certi casi la matematica può essere realmente efficace in biologia, mentre in altri può fornire delle prospettive, ma non un vero e proprio modello. Può fare qualche esempio?

Ciò che voglio dire è che i modelli matematici possono essere efficaci a vari livelli. Possono esserlo nel senso che permettono di fare previsioni numeriche precise, ma possono essere efficaci anche in un altro modo, nel senso che forniscono appunto nuove prospettive, nuove idee. Per esempio in fisica la teoria delle stringhe è una candidata a unificare la gravitazione e la meccanica quantistica, però non è ancora stata provata sperimentalmente. Ciononostante, questa teoria è interessante e fruttuosa per la fisica e la matematica perché ha generato moltissime nuove idee in entrambi i campi.
In biologia un esempio analogo è quello dei «paesaggi di fitness», un’idea introdotta nel 1932 da Sewall Wright(1)(1889-1988) [Immagine a sinistra] che considera l’evoluzione come qualcosa di simile allo scalare le montagne, dove i picchi, le vette delle montagne, rappresentano il massimo livello di adattamento locale. Questa è una bella metafora che può essere utile in certe circostanze come strumento per predire qualcosa, ma soprattutto ha generato alcune nuove idee, per esempio quella del paesaggio dell’energia nel ripiegamento delle proteine, e ha fornito alcune nuove prospettive non solo in biologia evolutiva, ma anche in molti altri campi. Perciò possiamo dire che se nel processo di modellizzazione si riduce un sistema a qualche semplice analogia, per esempio meccanica o elettrica, con questa semplificazione si può ottenere qualche previsione precisa, ma in biologia è necessario mettere insieme molti modelli diversi, perché il sistema è multi-livello, molto complesso, interagente con il proprio ambiente e perciò qualsiasi semplificazione eccessiva non è molto buona per la biologia. Ma questo non significa che la matematica non possa essere utile in biologia: la matematica è utile, ma abbiamo bisogno di cambiare il modo di approccio.
Un altro esempio è quello del matematico italiano Vito Volterra (1860-1940) [Immagine a destra], all’inizio del XX secolo. Volterra lavorava sulle oscillazioni delle popolazioni di pesci nel mare e scrisse alcune meravigliose equazioni dette «modello di Lotka-Volterra». Siccome era uno specialista di equazioni integrali e differenziali e così via, si mise a riflettere a proposito di un qualche tipo di principio variazionale generale, come il principio della minima azione, ma che potesse descrivere la vita come un tutto. Naturalmente questa era una sorta di idea generale, e infatti questa generalizzazione non si è rivelata molto utile, mentre il suo modello è molto efficiente: e per questo dobbiamo distinguere tra le modellizzazioni locali e alcune idee molto globali, che possono dare delle ispirazioni, ma non sono molto rilevanti per il lavoro effettivo in biologia.

Può ripetere quello che ha detto ieri circa l’importanza di trovare invarianti in biologia, che mi sembra una questione interessante anche da un punto di vista filosofico?

Potrei dire che la soluzione del problema «perché la matematica è così efficace?», ovvero «qual è l’origine dell’irragionevole efficacia della matematica?» sta forse nel fatto che la matematica offre un modo di descrivere formalmente molte relazioni fra i concetti.
Niels Bohr (1885-1962) [Immagine a sinistra] per esempio aveva posto la questione in questi termini. Ma forse c’è un’altra ragione. Se vogliamo descrivere la realtà, bene, io vedo che questo tavolo per esempio è una realtà. Perché? Perché posso interagire con esso. Io uso il tavolo, ma se giro tutto intorno al tavolo non vedo sempre la stessa cosa perché ogni punto di vista è diverso dall’altro. Però tutti questi diversi punti di vista rivelano di fatto un qualche tipo di invarianti. Quindi noi non possiamo descrivere la realtà senza presentare qualche tipo di invarianti. E questo è il punto. Certe teorie matematiche hanno infatti la proprietà di generare molti invarianti. Per esempio, se pensiamo alla teoria dei gruppi, noi possiamo prendere un triangolo e sottoporlo a qualche rotazione, e il triangolo è invariante rispetto alla rotazione. Oppure il cerchio. Anche il cerchio è invariante rispetto alla rotazione. Qual è l’invariante in questo caso? Il raggio. Questa è l’essenza del teorema di Nute (un assistente di Hilbert): quando abbiamo simmetrie continue, come per esempio quelle cartesiane, allora afferriamo degli invarianti. Molte teorie in matematica hanno questa proprietà di essere caratterizzate da trasformazioni e da invarianti che seguono da queste trasformazioni. Per esempio, la topologia è quella branca della matematica che descrive alcuni invarianti rispetto alle trasformazioni continue. Una condizione necessaria per descrivere la realtà è di porre alcuni invarianti. Molte teorie matematiche sono ricche di invarianti e perciò potenzialmente applicabili alla realtà. E di fatto oggi quasi tutte le teorie matematiche ricche di invarianti hanno trovato applicazione in fisica o in altre branche della scienza. Quindi questa è forse una delle ragioni della sua «irragionevole efficacia».

Potrebbe fare un esempio di una teoria matematica che non genera molti invarianti?

Sì, consideriamo per esempio la teoria della funzione di una variabile complessa.
È meravigliosa. Molti invarianti. Perché? Perché questa funzione genera alcune classi di trasformazioni chiamate «trasformazioni conformali», come quelle usate da D’Arcy Thompson (1860-1948) [Immagine a destra]. Ora, il gruppo conformale è un gruppo dimensionalmente infinito, con un numero infinito di generatori, se volete dirla così, e quindi con moltissimi invarianti associati ad esso. E questo spiega la ricchissima struttura della teoria. Ora, immaginiamo di sostituire, all’interno della variabile complessa, l’usuale unità immaginaria  con e tale che e2 non sia più uguale a –1, ma a +1. La teoria cambia completamente. Per esempio, nell’ordinaria teoria a variabile complessa si possono fare alcune meravigliose iterazioni che generano frattali, strutture estremamente complesse chiamate insiemi di Julia. Se facciamo lo stesso con questa «nuova» variabile complessa e, tale che e2 = +1, che i matematici chiamano numero complesso iperbolico, questo cosa ci dà? Niente di molto complicato: ci dà un quadrato!

Sorprendente: è un esempio molto simile a quello che ho fatto nel mio libro Filosofia del caos(2)

Interessante! Ora, possiamo provare che mentre sotto la struttura della usuale teoria della variabile complessa abbiamo il gruppo conformale, sotto questa struttura non c’è un gruppo che sia molto ricco. Per esempio, se prendiamo una generalizzazione dei numeri complessi possiamo immaginare una struttura algebrica che non è semplicemente x + i, ma ha dimensione 16 anziché 2. Noi possiamo costruire un qualche genere di computazione con questo tipo di algebra, ma non ci sono gruppi ricchi come quello conformale associati a essa. E questo spiega perché non possiamo usarla per descrivere invarianti e quindi perché non è utile per la fisica.

L’altro lato del problema è quello di trovare degli invarianti in biologia a cui applicare la matematica

Sì, possiamo forse pensare a invarianti come quelli della meccanica statistica, per esempio. Nella meccanica statistica abbiamo alcuni invarianti, ma non relativi a un solo preciso modello, ma a un’ampia classe di modelli aventi lo stesso comportamento. I fisici statistici chiamano le classi di questo tipo «classi di universalità»: molti differenti modelli, ma tutti aventi lo stesso comportamento, per esempio vicino al punto critico, cioè a una transizione di fase, il che comporta l’esistenza per queste classi di universalità di invarianti detti «esponenti critici». Io penso che dobbiamo entrare in questo nuovo modo di fare matematica nelle scienze naturali, un modo di introdurre una modellizzazione multi-scala.

Cosa pensa in particolare del modello matematico proposto da Stuart Kauffman?

È molto bello, perché in effetti contiene molte intuizioni interessanti, produce nuove idee.
Quando Stuart Kauffman (1939-…) [Immagine a sinistra] propose il suo modello(3), nessuno per esempio pensava a un modo di spiegare perché abbiamo un certo numero di tipi di cellule nel nostro corpo, e lui introdusse questa bella correlazione tra tipi di cellule e attrattori, formati da reti di geni e modellizzati per mezzo di automi booleani. Naturalmente il suo modello, come ciascun modello, ha dei limiti, ma in questo caso c’è un certo tipo di efficienza che è collegata al potere di generare alcune nuove idee, alcuni nuovi modi di guardare ai sistemi biologici. Tra l’altro in questo sistema possiamo rintracciare, per l’appunto, alcuni invarianti, perché è un tipo di sistema critico che può essere descritto con i metodi della meccanica statistica.

Ma oltre a fornire nuove idee può fare anche qualche previsione?

Sì. Per esempio, all’inizio è riuscito a predire il numero dei tipi cellulari come funzione del numero dei geni. È stato meraviglioso. Naturalmente il numero dei geni ora è cambiato, abbiamo raffinato la nostra concezione di reti genetiche, i geni non sono, rigorosamente parlando, macchine booleane, eccetera. Ma, vedete, dobbiamo distinguere (e nella mia conferenza l’ho fatto) molti significati di «efficienza», perché è giusto dire «bene, la matematica è efficiente», ma si può essere efficienti a molti livelli.

Ha qualche suggerimento da dare ai docenti di scienze naturali?

Qual è secondo lei la cosa più importante nell’insegnamento per interessare gli studenti? Racconterò la mia esperienza durante le scuole secondarie. Io ero stato impressionato da un professore che faceva delle conferenze non convenzionali in cui mostrava alcune cose meravigliose (per esempio, fare dei bei esperimenti che davano informazioni circa fenomeni affascinanti) e spiegava come descriverle attraverso semplicissimi modelli matematici. Mi ricordo la storia delle conchiglie dei molluschi come applicazione della spirale logaritmica, o quella della forma delle ali di un aeroplano descritte da alcune funzioni. Penso che possiamo motivare gli studenti dicendo: «Guardate questa situazione molto complicata, che potete incontrare per strada o guardando il cielo: guardatela e descrivetela usando alcuni semplici strumenti». In questo modo forse si può mostrare già a questo livello la «irragionevole efficacia» di semplici computazioni.

Penso che quello che ha detto sia molto interessante in relazione a un problema che non è nuovo nella scienza, ma è ugualmente molto importante: quello del riduzionismo. Molti scienziati (e anche non scienziati) dicono: «Tu non sei nient’altro che i tuoi geni», o «nient’altro che ciò che sta dentro al tuo cervello», e così via. Lei invece dice: «La matematica va bene per avere dei modelli, ma non è la spiegazione ultima». Può precisare il suo pensiero?

Penso che questo sia molto importante per gli insegnanti delle scuole superiori. Dobbiamo imparare la scienza, certo, ma questi professori dovrebbero anche imparare qualcosa circa l’epistemologia, circa la filosofi a e la storia delle discipline, per esempio circa i limiti e la natura dei linguaggi. Per esempio, la poesia è bella, ma la poesia non è fisica; la fisica è bella, ma la fi sica non dà nessuna risposta assoluta alla domanda di senso della vita; e così via. Quindi questo approccio della natura e dell’articolazione tra i linguaggi per vedere qualcosa dell’estensione, ma anche dei limiti dei linguaggi stessi è molto interessante, direi perfino altrettanto interessante che l’apprendimento della scienza pura.

A cura di Paolo Musso (Filosofia della Scienza – Università dell’Insubria – Varese) e Amerigo Barzaghi (Studioso di Filosofia della Biologia)

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  1. Sewall Wright, The roles of mutation, inbreeding, crossbree­ding, and selection in evolution, in Proceedings of the Sixth In­ternational Congress on Geneti­cs, 1932, pp. 355-366.
  2. Paolo Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, 1997. L’esempio riguarda l’insieme di Mandelbrot, il più complesso dei frattali conosciuti, che col passaggio dalla variabile com­plessa a quella reale si riduce a un segmento che va da -2 a 0.
  3. L’intervista a Stuart Kauffman è pubblicata sul n° 42 di Emmeciquadro.

© Pubblicato sul n° 37 di Emmeciquadro