Nell’anno dedicato alla biodiversità, mentre ancora pochi ne parlano, e al massimo in chiave ecologista, c’è chi continua a fare esperienza della varietà e diversità delle specie viventi perché costituiscono il cuore del suo lavoro. Da questo nasce una riflessione sui vari aspetti della biodiversità, anche in chiave storica. Un viaggio affascinante per l’autore – costretto a ripensare e a sistematizzare ciò che i suoi occhi di scienziato hanno registrato per comunicarlo in termini comprensibili e appassionati – e per i lettori che, immedesimandosi negli ambienti così vivamente descritti, imparano a conoscere le varie sfaccettature con cui si presenta la realtà e sono spinti ad impegnarsi, per quanto è nelle loro possibilità, a mantenerle tali nel tempo.



 

Le foto che corredano questo articolo sono di Marzia Bo e Daniela Pica.

 

 

 

Per una di quelle piccole coincidenze che imprevedibilmente accadono nella nostra vita questo articolo dedicato alla biodiversità mi è stato chiesto due giorni prima della mia partenza per un periodo di lavoro nel Parco Marino di Bunaken. Il parco include un piccolo arcipelago situato all’estremo nord di Celebes (Indonesia) [vedi immagine qui sotto], la mitica isola delle spezie, per questa sua naturale ricchezza lungamente contesa da portoghesi e olandesi.



La penisola settentrionale dell’isola, che separa il mare di Celebes a Ovest da quello delle Molucche a Est, rappresenta un’area generalmente considerata il centro mondiale della biodiversità marina [Sheppard & Wells 1988].

 

Siladen, 19 gennaio 2010

 

E così, eccomi a scrivere di biodiversità su questo estremo lembo di terra, un cerchio di corallo di un chilometro di diametro, abitato da alcune famiglie di pescatori, da più di dieci anni diventato il mio prediletto campo di studio [Immagine a sinistra: La spiaggia corallina dell’isola di Siladen contornata dalla foresta di Ficus].
Sono seduto sulla bianca spiaggia di Siladen, contornata da ficus giganteschi mentre, davanti a me si estende il mare di Celebes in cui posso facilmente riconoscere le altre isole dell’arcipelago: Bunaken, piatta e ricoperta di palme da cocco, Manado Tua con il suo cono vulcanico al quale rimane stabilmente agganciato un cumulo di vapori e, in seconda fila, Montehage con il suo sterminato mangrovieto in cui, si dice, si possano ancora trovare gli ultimi coccodrilli marini della zona e la piccola e montuosa Nain.
Mentre, sul far della sera me ne sto, con il mio portatile sulle ginocchia, a contemplare una coppia di aquile pescatrici che si libra sul mare ripenso alle due immersioni della mattinata che mi hanno portato alla base della scogliera di corallo che sostiene le isole, a sua volta appoggiata sulla roccia basaltica di origine vulcanica oggi sprofondata a 60-70 m sotto la superficie delle acque. Benché abbia fatto ormai numerose volte questa esperienza resto sempre colpito, in modo decisamente fisico, più che dall’idea, dall’esperienza della biodiversità. I cinquanta metri di parete dell’isola sono completamente ricoperti da un tappeto di organismi che crescono l’uno sopra l’altro in una inestricabile stratificazione [Immagine a destra:Madrepore convolute sulla scogliera di Siladen].
A una minore distanza il tappeto informe si risolve in una straordinaria serie di strutture dalle geometrie talvolta indefinibili, in miliardi di piccole bocche, di tentacoli in attesa nella corrente, di ciglia, flagelli e ogni sorta di appendice. Ognuno, prima di parlarne, dovrebbe, secondo me, fare un’esperienza simile rendendosi conto che la biodiversità è, innanzitutto, una sensazione in grado di produrre vertigine nell’osservatore.
Personalmente non sarei in grado di sviluppare un’analisi scientifica del problema saltando questo primo complessivo approccio alla realtà della varietà della vita.



 

Siladen, 20 gennaio 2010

La distribuzione della biodiversità

 

Quando si lavora sott’acqua avendo in testa un progetto scientifico che prevede, per esempio, la ricerca di una particolare specie, si ha poco tempo per pensare ad altro. Nella mente del ricercatore si forma quella che gli etologi chiamano una searching image dell’oggetto delle sue attenzioni e, come sanno bene i cercatori di funghi, gli animali predatori e i biologi marini, tutto il resto viene percepito come sfondo.
Durante il periodo di decompressione che in queste zone caratterizzate da acque molto profonde è spesso abbastanza lungo, si ha però tempo di guardarsi attorno con la mente sgombra, libera da compiti particolari. Alla profondità di circa cinque metri, dove ci si ferma per qualche tempo per liberarsi lentamente dai gas disciolti nel sangue per eccesso della pressione, la biocenosi è costituita dai coralli costruttori che vivono in simbiosi con microalghe e che proprio per questo hanno un colore verde-bruno.
Questi organismi proprio a questa profondità, dove la luce solare è molto intensa, hanno il loro massimo rigoglio. Ci vuole occhio allenato e una certa concentrazione per distinguere le varie forme massive, incrostanti, arborescenti, che si accavallano in una struttura complessa che è il bordo della barriera corallina. In mezzo a questo mondo tridimensionale si muove un’incredibile quantità di pesci di ogni forma e dimensione.
I pesci della scogliera sono uno spettacolo, le forme sono diversissime, le strategie alimentari altrettanto. La cosa che colpisce ancora di più sono le variazioni sul tema di alcune strutture base; detto con altre parole, le diverse specie affini. Per esempio tutti conoscono i pesci pagliaccio, portati alla ribalta dal cartone Disney ma, osservando bene, si possono vedere, sulla stessa silhouette, pattern di righe o di macchie o colori diversi [Immagine a sinistra: Pesci Pagliaccio nell’attinia in cui vivono e nidificano].
A Bunaken è facile riconoscere sette specie di questi pesci che coesistono utilizzando diverse specie di attinie. Un esempio della eccezionalità dell’ittiofauna della zona di Bunaken è stata la scoperta, una decina di anni fa, della seconda specie di celacanto, Latimeria menadoensis.
La vicenda è significativa e merita di essere brevemente raccontata. C’è un preambolo che risale al 1938 quando a M. Courtenay-Latimer, curatrice di un piccolo museo a East London in Sudafrica, fu portato dai locali pescatori di squali uno strano pesce che l’ittiologo J.L. Brierley Smith identificò come una specie di celacanto. La cosa suscitò un enorme scalpore dato che questo gruppo di pesci, molto ben conosciuto allo stato fossile dal Devoniano, era considerato estinto durante il Cretaceo. Il pesce fu chiamato Latimeria chalumnae, in onore della scopritrice e del fiume, al traverso del quale, l’esemplare era stato pescato.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale altri esemplari furono pescati lungo la costa orientale africana in un areale continuo comprendente Madagascar, Comore, Sud Africa, Mozambico, Tanzania e Kenia. Per cinquant’anni L. calumnae è stata descritta, analizzata e sezionata e, come tutte le grandi scoperte, anche quella di questo fossile vivente è stata, alla lunga, metabolizzata dalla comunità scientifica.

Sennonché, nel 1997, una scoperta assolutamente imprevista attendeva un giovane biologo marino americano, Mark Erdmann, impegnato in programmi di gestione del costituendo Parco Marino di Bunaken. Un giorno, mentre stava passeggiando assieme alla moglie nel mercato del pesce di Manado, il principale centro della zona, vide su una bancarella un grande esemplare dall’aspetto insolito. Una rapida indagine mostrò che anche questa volta era coinvolta una famiglia di pescatori di squali che, tradizionalmente, praticava questa attività, con i palamiti da fondo, in una zona di fronte all’isola di Manado Tua. Lo studio morfologico dell’esemplare, condotto assieme all’analisi genetica, permise in breve tempo di identificare il pesce come una seconda specie di Latimeria, nominata, in onore di Manado, la principale città della zona, L. menadoensis (Erdmann et al., 1998) [Immagine a destra: Latimeria menadoensis catturata da un palamito nel parco marino di Bunaken].
Il ritrovamento di un’ulteriore specie di celacanto, a migliaia di chilometri dall’areale della prima, ha posto tutta una serie di problemi irrisolti sulla distribuzione di questi straordinari fossili viventi. D’altro canto un’intensa campagna di ricerca, svolta da un gruppo misto giapponese-indonesiano, ha svelato una notevole serie di dettagli sull’ambiente in cui i celacanti vivono. Si tratta di grotte situate a 150-200 metri di profondità nelle quali i pesci sono stati ampiamente filmati da veicoli subacquei guidati a distanza. Il loro nuoto è stato documentato e studiato così come le aggregazioni di individui appartenenti a diverse categorie di età. La scoperta di questa straordinaria specie, divenuta l’emblema del parco marino di Bunaken, rappresenta la cifra degli incredibili livelli di biodiversità riscontrabili in questa zona.
Il fatto che, a livello mondiale, la biodiversità non sia uniformemente distribuita è ormai accertato. Anzi, uno studio pionieristico (Roberts et al., 2002) ha dimostrato che prendendo in considerazione l’areale di distribuzione di oltre 3000 specie di pesci, coralli, molluschi e crostacei si osserva che un’alta percentuale di essi vive in una zona molto ristretta. Inoltre, questi ristretti range di distribuzione sono raggruppati in zone circoscritte chiamate hot spot. Fa meditare il fatto che i dieci più importanti hot spot includano circa la metà delle specie considerate.
Il principale punto caldo della biodiversità marina mondiale è il cosiddetto triangolo dei coralli che ha come vertici le Filippine, l’arcipelago Indonesiano e la Nuova Guinea: il Parco Marino di Bunaken si trova esattamente nel centro geometrico di quest’area.
Cosa ha determinato questa inattesa, puntiforme, distribuzione della biodiversità? Certo, le condizioni ambientali e la storia geologica hanno, come vedremo, avuto un ruolo determinante ma io penso che la stretta coesistenza di diverse specie sia in grado di produrre, tramite i più vari fenomeni di interazione, nuove possibilità per l’evoluzione in una continua auto-catalisi che porta alla formazione di sempre più elevati livelli di biodiversità [Bavestrello, 2007].

 

Banka, 21 gennaio 2010

La linea di Wallace

 

Quest’oggi visita a Banka, l’isola situata all’estremo nord di Celebes, per una visita che mi riempie di soddisfazione e di legittimo orgoglio. Su quest’isola infatti, un gruppo di miei alunni, assieme ad alcuni soci indonesiani, hanno deciso di impiantare un allevamento di coralli destinati al mercato dell’acquariologia. È nata così la società Coral Eyes che, oltre alla coral farm, ha come scopo quello di rendere disponibile un laboratorio, un supporto logistico e un centro di accoglienza internazionale per i biologi marini che intendono condurre i loro studi in questo straordinario centro di biodiversità [Immagine a sinistra: Colonie di coralli riprodotti artificialmente in un allevamento sperimentale].
Sulla bellissima isola di Banka i nostri ragazzi hanno acquistato un appezzamento di terra in riva al mare e da alcuni mesi hanno iniziato i lavori cominciando a costruire un pontile per facilitare l’attracco alle barche e l’edificio principale dell’azienda oltre a quelli di servizio. Nella baia antistante saranno al più presto installati gli impianti per l’allevamento dei coralli su un fondale sabbioso riparato dalle onde dell’oceano Pacifico e ampiamente popolato da grandi colonie di soft corals che rappresenteranno gli esemplari originari per dare inizio alla riproduzione per talee.
Dopo una raccolta iniziale in natura, i cloni prodotti dovrebbero supportare, oltre alla quota destinata alla commercializzazione, anche quella di auto-mantenimento della produzione. Un’aliquota di colonie prodotte sarà comunque destinata a esperimenti di ri-forestazione di zone danneggiate della scogliera corallina. Dal mio punto di vista di insegnante rimane la soddisfazione per aver creato le basi culturali e le occasioni per una innovativa possibilità di impiego dei nostri studenti e di collaborazione stabile con colleghi indonesiani. Ma oltre alla coral farm l’isola di Banka mi riserva un’inattesa sorpresa: una famiglia di pescatori ha catturato, e mantiene in cattività, una coppia di un animale che da molti anni desideravo vedere. Si tratta del cuscus (Ailurops ursinus) un marsupiale arboricolo endemico della zona di Celebes che si sposta con movimenti lentissimi nutrendosi di frutta [Immagine a destra: Esemplari di Cuscus allevati in cattività sull’isola di Banka].
Questo strano animale mi ricorda che ci troviamo sul lato orientale della celebre linea di Wallace, dedicata a quell’Alfred Russel che, non pago di aver causato qualche preoccupazione a Darwin quando, in una storica lettera, gli spiegava i punti essenziali della teoria al quale Charles stava lavorando da decenni, ha anche posto le basi della moderna biogeografia.
Durante la sua lunga permanenza nell’arcipelago Indonesiano Wallace [Immagine a sinistra: Alfred R. Wallece (1823-1913), pioniere dell’esplorazione biologica dell’Arcipelago Indonesiano] si rese conto che una linea invisibile divideva due faune assolutamente diverse. Per esempio i marsupiali sono comuni e diversificati in Australia e Nuova Zelanda, si trovano in Nuova Guinea, Molucche e Celebes ma sono completamente assenti dalla restante parte delle isole indonesiane così come dall’intero continente asiatico.
Una distribuzione esattamente opposta presentano i grandi felini come la tigre o il leopardo presenti in tutta l’asia dall’india alla Siberia, comuni, almeno in tempi recenti a Sumatra, Giava e Borneo, totalmente assenti, anche allo stato fossile a Celebes, Nuova Guinea e Australia. La differenza tra la fauna australiana e quella asiatica, divise dalla linea di Wallace, dipende da un complesso movimento di placche di diversa origine che hanno, dopo un lungo movimento, formato l’arcipelago indonesiano.
Questa vicenda ci induce a riflettere su come la biodiversità non sia un’immagine statica ma un fenomeno in continuo divenire sul quale le vicende dell’ambiente hanno giocato un ruolo determinante. Quello che oggi possiamo ammirare e studiare è un momento di una lunga, continua serie di contingenze irripetibili nelle quali l’evoluzione biologica e l’evoluzione della Terra si sono condizionate vicendevolmente.

Isole Sanghie, 22 – 23 gennaio, 2010

La storia della biodiversità

 

L’Indonesia, si sa, è terra di vulcani. Il terremoto sottomarino che ha devastato la zona di Banda Ache il 26 dicembre 2004 o quello che più recentemente ha prodotto rovina e distruzione a Padang, ce lo ricordano drammaticamente. Questa terra di meraviglie è infatti attraversata dalla cosiddetta cintura di fuoco che separa, in un complicato sistema di placche in continuo movimento l’oceano Indiano dal Pacifico.
Quello che oggi mi porta nelle isole Sanghie che, come un lungo tratteggio nell’oceano, collegano Celebes con le Filippine, è un vulcano decisamente particolare. Il suo cratere, infatti, si apre sott’acqua, a circa 15 m di profondità dove si assiste a una continua attività termale che si manifesta con fuoriuscite di acqua calda e di gas [Immagine a destra: Emissioni gassose sul vulcano sottomarino Mahengetang].
Arrivare sul posto non è facile. Si deve partire dall’aeroporto di Manado e, dopo un volo di circa un’ora, si atterra sull’isola principale dell’arcipelago. L’isola, estremamente montagnosa e ricoperta di foreste di ficus e alberi del pane, oltre che delle immancabili palme da cocco, deve essere attraversata in auto, utilizzando una stretta strada asfaltata che incrocia le rare capanne dei contadini. Arrivati al porto si parte in barca e, dopo circa due ore di navigazione si arriva a Mahengetang, l’isola più vicina al vulcano. Qui c’è un piccolo villaggio di pescatori che vivono producendo la copra e pescando e seccando le aguglie. La nostra visita non passa inosservata dato che siamo accompagnati dal bupati, il reggente governativo massima autorità istituzionale dell’arcipelago, il cui rango è sottolineato da un militare in mimetica che lo segue continuamente proteggendolo dal sole con un grande ombrello multicolore. Il capo-villaggio ci sistema nella sua casa, di gran lunga la più lussuosa del piccolo borgo, dove una schiera di donne comincia a portare una grande varietà di cibo che deve per forza essere almeno assaggiato. Questa dovere di cortesia non è proprio indolore perché assieme a ottimo pesce i pranzi di gala prevedono immancabilmente la carne di cane cotta in umido con una montagna di peperoncino [Immagine a sinistra: Essicazione delle aguglie sull’isola di Mahengetang].
Finalmente riusciamo a liberarci dal comitato di benvenuto e a organizzarci per l’immersione con l’aiuto dei pescatori locali. La corrente di marea è fortissima ma riusciamo in qualche modo a scendere. Il primo impatto con il fondale è abbastanza impressionante: tra i sassi fuoriescono continuamente refoli di bolle che gorgogliano in superficie, la temperatura è elevata, circa 34 °C, mentre tutto è ricoperto da un feltro rossiccio, probabilmente determinato da una ricca popolazione di batteri chemiosintetici, principale componente biotica di questo semplice ecosistema. Gli eucarioti, in particolare quelli pluricellulari sono molto rari, piccole alghe e qualche macchia di spugne incrostanti e alcune colonie di idrozoi. Notiamo subito che gli organismi biodepositori di carbonato di calcio, come le madrepore, sono molto rari ed estremamente piccoli.
Scendendo più in profondità le emissioni terminano e la barriera corallina prende il sopravvento con tutta la sua complessità. Al riparo della parete del vulcano la corrente è particolarmente tranquilla e i coralli neri diventano alti tre metri, richiamando alla mente le foreste sommerse che Jules Verne ha soltanto immaginato. Il vulcano sottomarino di Mahengetang ci fa pensare ai primordi dell’avventura della vita sulla Terra quando, per gli organismi allora presenti, la fonte di energia non era rappresentata dal Sole ma da sorgenti chimiche o termiche che scaturivano dall’interno della Terra primordiale.
Ovviamente non sappiamo nulla di come e dove questa avventura sia iniziata mentre la scarsissima documentazione fossile ci fornisce un’idea, seppure alquanto vaga e discussa del quando. Quello che è certo è che, da allora, la vita non è rimasta inerte rispetto al suo ambiente fisico, ma biosfera e litosfera hanno continuato a interagire determinando assieme le condizioni attuali del pianeta. La visita al vulcano ci permette di passare, nello spazio di pochi metri, dal feltro batterico alla più complessa barriera corallina: in questo spazio abbiamo idealmente ripercorso tre miliardi di anni di storia della vita durante i quali la biodiversità e la complessità strutturale hanno continuato a condizionarsi reciprocamente. Oltre che per lo studio del passato, l’osservazione del vulcano sottomarino potrebbe anche rappresentare un utile strumento di previsione del futuro. Le sue emanazioni riducono il pH, normalmente leggermente alcalino, dell’acqua di mare tanto da determinare microcondizioni ambientali assai peculiari nella quali, per esempio, la deposizione dei carbonati è resa molto difficoltosa [Immagine a destra: più in profondità la barriera corallina che prende il sopravvento].
Qualcosa di simile potrebbe accadere se l’incremento di anidride carbonica atmosferica forse in grado di determinare un’acidificazione oceanica a livello planetario. La maggior parte delle stime valuta infatti che nel 2100 la pressione parziale dell’anidride carbonica atmosferica sarà quasi certamente raddoppiata rispetto ai livelli pre-industriali e sarà comunque considerevolmente più elevata rispetto agli ultimi milioni di anni. Questi elevati livelli di CO2 causeranno un incremento del 30% della concentrazione di H+ nelle acque superficiali degli oceani con un previsto abbassamento di pH di almeno 0.5 unità.
La nostra comprensione degli effetti dell’acidificazione sugli ecosistemi marini è attualmente molto limitata e tutte le ricerche sono state condotte in laboratorio e solo per brevi periodi di tempo. I fenomeni vulcanici sottomarini sono una straordinaria possibilità di studiare gli incrementi di acidità delle acque in ambiente naturale. Il passaggio da pochi e miniaturizzati organismi calcificati nella zona delle emissioni termali alla più rigogliosa scogliera corallina a poche decine di metri di distanza potrebbe rappresentare un modello straordinario per la previsione di possibili scenari legati ad ipotetici cambiamenti a livello globale (Hall-Spencer et al., 2008).

Siladen, 24 gennaio 2010

Applicazioni pratiche

 

Nel fitto programma di lavoro che abbiamo previsto per questa spedizione, oggi siamo alla ricerca di una particolare spugna, Plakortis simplex, che prospera negli anfratti della scogliera corallina. L’interesse di questo organismo sta in una particolare molecola, la plakortina, presente come metabolita secondario in grande abbondanza nei suoi tessuti [Cafieri et al., 1999].
Assieme al mio gruppo di zoologi marini siamo accompagnati da alcuni chimici organici dell’Università di Napoli, specializzati nella ricerca di sostanze naturali di interesse farmacologico. La plakortina ha un potente effetto anti-malarico e promette lo sviluppo di una nuova classe di farmaci molto più attivi e molto meno tossici di quelli tradizionalmente usati contro il plasmodio, storico flagello dell’umanità.
La ricerca di sostanze naturali dotate di attività farmacologiche è, attualmente, una delle più promettenti applicazioni pratiche della biodiversità. Gli oceani sono la sorgente di numerosi composti naturali prodotti e accumulati sia da microrganismi che da invertebrati come spugne, cnidari, briozoi, molluschi, tunicati eccetera.
Si suppone che questi prodotti naturali o metaboliti secondari siano il risultato di pressioni evolutive come la predazione o la competizione per lo spazio o per le risorse trofiche. Queste forze hanno plasmato composti strutturalmente diversificati e stereochimicamente complessi con specifiche e pronunciate attività biologiche molti dei quali appartenenti a nuovi gruppi chimici mai osservati in ambiente terrestre.
La prima scoperta di un metabolita biologicamente attivo da una sorgente marina fu un inusuale nucleotide ottenuto da una spugna caraibica negli anni Cinquanta del XX secolo che fu la base per lo sviluppo di potenti farmaci antivirali attualmente in commercio come l’Acyclovir. Da allora numerosi gruppi di ricerca hanno attivamente operato nello studio di composti marini biologicamente attivi scoprendo 13.500 differenti prodotti naturali molti dei quali mostrano una pronunciata attività farmacologia. Sempre nel campo degli anti-virali si deve a un’altra spugna caraibica, Cryptotethia cripta, lo sviluppo di molecole come la spongotimidina e la spongouridina in grado di inibire la replicazione del virus HIV-1 che sono serviti per lo sviluppo dell’AZT che è attualmente impiegato con successo nel trattamento di pazienti affetti da AIDS.
La biodiversità a livello molecolare è il risultato della biodiversità a livello di specie: sembra ormai accertato che esista una relazione diretta tra il numero di specie che vivono in un determinato ambiente e l’abbondanza del repertorio di molecole bioattive presente nella specie. È evidente che questo repertorio molecolare è direttamente coinvolto nei rapporti tra diverse specie. Mentre gli organismi superiori come vertebrati e artropodi interagiscono tra loro con una serie di armi meccaniche – arti, tentacoli, denti, chele – i bassi metazoi bentonici, sprovvisti di appendici, lottano per il substrato o si difendono dagli attacchi dei predatori, dei parassiti e dei patogeni con un complesso armamentario di molecole antibatteriche, antivirali, antimitotiche, antifouling, antifeeding eccetera.
Un’ultima sorpresa: in moltissimi casi le sostanze naturali non sono prodotte esclusivamente dagli organismi in cui sono ritrovate, ma sono il risultato di una cooperazione, in gran parte incompresa, tra gli animali e le popolazioni di batteri che vivono all’interno di essi. Assai spesso la molecola bioattiva è formata da una parte prodotta, per esempio, dalle spugne e una parte aggiunta dai batteri simbionti.
Il perfetto sincronismo metabolico attraverso il quale si integrano diverse vie biosintetiche nella realizzazione di un unico prodotto definitivo è ancora ampliamente da elucidare.
Le molecole bioattive, principale speranza di incremento della nostra farmacopea, sono dunque il risultato di una complessa rete di interazioni di vario segno che legano tra loro organismi appartenenti a diversi regni permettendo la convivenza tra le specie e determinando di conseguenza sempre crescenti livelli di biodiversità.

 

Jakarta, 27 gennaio 2010

Conclusione

 

La spedizione scientifica è finita e da ieri sono arrivato nella caotica capitale dell’Indonesia.
La pianta coloniale dell’antica Batavia, Regina del Pacifico, è stata completamente stravolta e ora Jakarta è una megalopoli di quindici milioni di persone nella quale le baracche di lamiera crescono in ogni interstizio lasciato libero dai grattaceli di Plaza Indonesia, il centro mastodontico della città e dell’orgoglio indonesiano.
L’Indonesia è una delle tigri asiatiche, il cui sviluppo urbano ed economico è impressionante e disordinato. Aggirandosi tra i centri commerciali di dieci piani, nei quali il made in Italy ha un ruolo di assoluto rilievo, nulla sembra più distante della barriera corallina, del cuscus e della linea di Wallace e la riflessione sulla convivenza tra biodiversità e sviluppo umano si impone in cerca di una soluzione che sembra sempre più distante.
Dal mio modesto angolo visuale di ricercatore rilevo una discrepanza, a livello mondiale, tra la distribuzione della biodiversità e quella dei ricercatori che la studiano. Pur essendo un paese in via di sviluppo l’Indonesia mostra eccellenze nella ricerca, per esempio in campo ingegneristico e tecnologico, ma lo studio delle faune e delle flore è assolutamente trascurato.
In questi dieci anni una parte importante del mio lavoro è stato quello di formare specialisti locali nei diversi gruppi di animali marini in modo che la ricerca sulla biodiversità indonesiana potesse essere affrontata da un gruppo di ricercatori locali.
Certo, è stata una goccia nel mare, ma l’educazione di una nuova generazione di ricercatori, nel lavoro dei quali fascino, studio e rispetto siano direttamente collegati, può essere il germe di diverse modalità di sviluppo attraverso le quali l’uomo salvando il proprio ambiente possa salvare se stesso.

 

 

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Giorgio Bavestrello
(Ordinario di Zoologia, Dipartimento di Scienze del Mare, Università Politecnica delle Marche, Ancona)

 

 

Indicazioni Bibliografiche

  1. Bavestrello G., 2007. Competizione e cooperazione nelle storie vitali degli organismi marini. Emmeciquadro, aprile 2007: 7-16.

  2. Cafieri F., Fattorusso E., Tagliatatela-Scafati O., Ianaro A., 1999. Metabolites from the sponge Plakortis simplex. Determination of absolute stereochemistry of plakortin. Isolation and stereostructure of three plakortin related compounds.Tetrahedron, 55: 7045-7056.

  3. Erdmann M.V, Caldwell R.L, Kasim Moosa M.K. 1998. Indonesian ‘king of the sea’ discovered. Nature 395: 335.

  4. Hall-Spencer JM, Rodolfo-Metalpa R, Martin S, Ransome E, Fine M, Turner SM, Rowley SJ, Tedesco D, Buia MC (2008) Vulcanic carbon dioxide vents reveal ecosystem effects of ocean acidification. Nature 454: 96-99.

  5. Roberts C.M., McClean C.J., Veron J.E.N., Hawkins J.P., Allen G.R., McAllister D.E., Mittermeier C.G., Schueler F.W., Spalding M., Wells F., Vynne C., Werner T.B. 2002. Marine Biodiversity Hotspots and Conservation Priorities for Tropical Reefs. Science 295: 1280 – 1284.

  6. Sheppard C, Wells SM (eds) (1988) Coral reefs of the world, Vol 2. UNEP/IUCN, Gland.

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 38 di Emmeciquadro

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