La conversazione, avvenuta il 27 aprile 2009, si colloca all’interno di un ciclo di incontri intitolato Perché fare matematica?, tenuto presso il Dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Milano. Se il percorso universitario degli studenti rappresenta un percorso di conoscenza e non una specializzazione fine a se stessa, è fondamentale non trascurare la domanda: «Perché ne vale la pena?». Il modo migliore per rispondere è quello del confronto con un maestro, cioè con qualcuno che nel suo lavoro ha fatto i conti con questa domanda. La conversazione con Bombieri si è articolata in due parti; la prima, che pubblichiamo in questo numero, riguarda la sua vicenda personale di ricercatore; la seconda, che pubblicheremo nel prossimo numero, riguarda valore, significato e prospettive degli studi matematici. Il contributo conserva la vivacità del dialogo con gli studenti.



Cominciare di fronte a un pubblico così eccezionale è veramente difficile, anche se per me è un piacere speciale essere qui, nell’istituto matematico dove ho cominciato nel lontano 1958. E qui, nell’aula dedicata a Oscar Chisini(1), io ho sentito l’ultimo ciclo di lezioni di Chisini, nel mio primo anno, con il suo corso di Geometria Proiettiva. Vorrei innanzitutto ringraziarvi per essere presenti e spero di fare del mio meglio.
Per cominciare volevo dire due brevi parole sulla matematica: come è cominciata e cosa è oggi. La matematica è stata definita da qualche storico delle scienze come la scienza della grammatica della misura e dell’ordine, e questo, forse, andava bene pensando alla geometria, come è nata attraverso le prime misure, all’astronomia con le misurazioni degli angoli – tuttora usiamo il sistema babilonese. [Enrico Bombieri nell’immagine a sinistra]
Nell’architettura vediamo le piramidi dell’Egitto, che senza tecniche di progettazione, non sarebbero mai state fatte. Andando avanti, troviamo nelle arti un Piero della Francesca con la prospettiva, un certo uso della prospettiva che, tra l’altro, ho dovuto studiare con Chisini. E nel Cinquecento vediamo l’uso della matematica al servizio della guerra di difesa e di attacco.
Col tempo la scienza è cresciuta moltissimo e la figura dello scienziato universale come Leonardo è sparita pian piano: anche un Galileo non era più uno scienziato universale. Questo è avvenuto passo dopo passo: pensate un po’ ai tentativi di capire la materia e la materia oggi non è più un miscuglio di aria, terra, fuoco ed acqua. Nella medicina non basta pensare al comportamento dell’uomo come una mescolanza di quattro temperamenti: flemmatico, collerico, melanconico e sanguigno. Quest’idea veniva dall’esame del colore della bile che poteva essere un po’ più gialla, più verde, più nera, un po’ rossa e dall’assegnare questi colori al comportamento umano. Oggi queste cose ci fanno sorridere. Ovviamente la quantità di nozioni e le conoscenze sono aumentate ad un livello che noi stessi non possiamo capire fino in fondo.
Quindi questo ha creato, tra l’altro, un problema di comunicazione, e perché la specializzazione richiesta per lavorare a questi livelli crea una frattura tra scienza e società. In un certo senso questa frattura è minore in certi settori, la biologia, la fisica, in cui si può parlare del Big Bang o della nascita dell’universo, o si può parlare di fenomeni tipo radiazioni e così via; nella biologia ogni giorno sentiamo parlare del DNA e cose del genere, e anche se non sappiamo esattamente cosa sia c’è un collegamento vago che ci rende abbastanza tranquilli. Con la matematica questo non succede.
I tentativi fatti di parlare di matematica a un livello immediato sono stati, sembrano almeno al giorno d’oggi, sempre peggiori. Questo perché l’oggetto di studio della matematica non è tangibile come gli oggetti e la matematica non è il computer, cosa in cui invece molto spesso la vediamo identificata nei giornali e alla televisione.
Quindi cos’è la matematica?
Questa è una domanda che mi sono posto molte volte, e ho deciso così, per dare un’idea, che la matematica è lo studio delle relazioni tra oggetti diversi. Oggetti diversi che possono essere messi in relazione in vario modo ma la cosa interessante è che i tipi di relazione sono relativamente pochi e questo permette di dare un certo ordine, una certa logica. Quindi la matematica, attraverso lo studio delle relazioni, usa il linguaggio della logica e della linearità. Dal punto di vista filosofico troviamo anche dei filosofi, come per esempio Ludwig Wittgenstein, che usavano la nozione di aspetto come una cosa intrinseca che andava studiata. I matematici stessi, per esempio Godfrey H. Hardy(2) [nell’immagine a destra], identificavano la matematica in un modo molto simile, ricercando quello che chiamava i patterns(3), cioè la ricorrenza di certi aspetti.
Quello che importa nella matematica, è quindi, la relazione e la struttura interna delle relazioni e da qui viene il suo potere di astrazione e pertanto il potere di sintesi che è fondamentale nella matematica. Adesso, quindi, la matematica è diventata un linguaggio base, non è l’unico, ma un linguaggio fondamentale di tutta la scienza. Ora la scienza si può fare in due modi: uno è quello dell’osservazione, la raccolta dei dati, cioè l’analisi, ed un altro modo è per procedimento di induzione in cui, attraverso l’osservazione, si fa quel balzo avanti, quella cosa che ci permette di procedere oltre. La matematica lavora nello stesso modo: ci sono delle fasi in cui settori diversi procedono attraverso raccolta di dati, piccoli passi di volta in volta che poi, a un certo momento, vengono messi insieme attraverso un procedimento di tipo induttivo.
Un aspetto della matematica, non condiviso dalle altre scienze, è che la si può fare anche in modo autoreferenziale, cioè la matematica può studiare se stessa. E questo è un aspetto molto delicato perché può, se iterato oltre certi limiti, risultare un gioco senza significato. Un altro aspetto è la sua stabilità: la matematica non cambia. La matematica di Euclide è valida oggi come nel 350 a.C.; quindi in matematica non ci sono rivoluzioni strane, in cui una parte diventa non più valida: la matematica resta valida, magari è assorbita da nuove teorie o semplicemente abbandonata perché non più di speciale interesse. La geometria euclidea adesso è parte di una geometria ben più ampia, è troppo restrittiva e quindi ricerche di nuovi teoremi di geometria euclidea vengono dati come esercizio al computer per vedere se il computer è abbastanza intelligente da inventare nuovi teoremi; questo è stato fatto e qualche teorema nuovo e sorprendente è stato trovato da programmi automatici per fare ricerca.
Siamo ancora agli inizi di questo: è una fase curiosa, staremo a vedere quello che succede. Però nella matematica è importante che ci sia un certo ruolo dell’intuizione: non si può andare avanti solamente con passi logici uno dietro l’altro, ogni tanto occorre quel passo avanti che consiste nell’immaginare quello che è possibile. A volte può essere un’ipotesi, per esempio l’Ipotesi di Riemann, che Riemann stesso diceva non essere fondamentale per le considerazioni che stava facendo – il suo scopo immediato era di capire i numeri primi -, e che, quindi, dopo qualche tentativo in cui non era riuscito a dimostrarla, l’aveva lasciata da parte, magari sperando di riprendere più avanti la questione. L’Ipotesi di Riemann, quindi, che all’inizio sembrava una cosa secondaria, oggi è diventata una cosa primaria nella teoria dei numeri perché non è più un fatto isolato, una cosa speciale, quindi secondaria, è diventata una proprietà che dovrebbe essere vera per una larga classe di oggetti matematici ben precisi con proprietà straordinarie. E, tuttavia, manca la validità di questa ipotesi per sviluppare le conseguenze di questa grande teoria che sta emergendo.



Un altro aspetto ancora è l’universalità, quindi il fatto che le stesse equazioni si possono applicare a tante situazioni diverse. Fourier(4), studiando la propagazione del calore, trovò il modello giusto ovvero equazioni paraboliche; nel fare questo ebbe un’intuizione straordinaria: ogni funzione praticamente arbitraria si poteva decomporre in una somma di onde con frequenze ben precise, cosa che è stata molto controversa. All’inizio dici: «Non è possibile: funzioni continue da un parte e dall’altra funzioni che possono essere discontinue; come si fa a mettere funzioni continue e discontinue insieme?». Eppure questo ha creato quella che oggi si chiama l’Analisi Armonica. Se uno deve andare a fare qualche visita medica, fare una TAC o una risonanza magnetica per vedere all’interno come uno è fatto, questo non gli sarebbe possibile senza l’Analisi Armonica, senza quella matematica e anche la matematica per esempio della fast Fourier transform in matematica discreta, che è ancora Analisi Armonica ma di altro tipo. Quindi, vediamo anche che la matematica ha dei riflessi pratici imprevisti: Fourier non pensava alla medicina facendo queste cose, e questo secondo me è la riprova che la matematica è un linguaggio universale. Allora, detto questo sulla matematica, emergono alcune questioni: come fare matematica, perché fare matematica, come ci si prepara a fare matematica. Riguardo a questo forse ci può essere qualche domanda esplicita.



 

Per quale motivo ha deciso di dedicarsi alla ricerca matematica? Che cosa di quello che ha studiato negli anni di università e quali incontri con maestri o amici hanno contribuito a questa scelta?

 

La risposta a questa domanda è ovviamente molto personale, perché queste scelte vengono sempre fatte da ciascuno in maniera diversa; forse la mia esperienza è un po’ diversa nel senso che io ho incominciato molto presto a interessarmi di matematica. Tuttavia, di recente, ho ritrovato un quaderno della terza elementare, in cui c’erano i rapporti della professoressa, che io dovevo presentare a casa e i genitori dovevano firmare in modo da rendersi conto dei progressi fatti a scuola. Uno di questi rapporti diceva: «È un modello in profitto e in condotta ma scarso in aritmetica». Ora, non so come mai, ma poi la mia specialità è diventata la Teoria Dei Numeri. Ma effettivamente non sapevo fare le addizioni e tanto meno le moltiplicazioni, avevo chiaramente un problema. Però a partire dalla quarta e quinta elementare le cose sono cambiate in qualche modo, ho incominciato a interessarmi un po’ di Geometria – ho trovato a casa un piccolo libro di Geometria euclidea – e poi un pochino di Algebra. In seguito mi ha trovato un altro libro mio padre, che era un banchiere, ma interessato anche alla matematica; aveva comprato un libro di matematica «dilettevole e curiosa», era un manualetto dell’ingegnere Italo Ghersi(5). C’erano delle cose molto divertenti e interessanti, e questo aveva suscitato la mia curiosità. In seguito ho trovato anche un libro di esercizi e complementi di Analisi matematica; c’erano solo esercizi, senza teoria, quindi uno doveva sapere un po’ di Analisi, però qualche esercizio riuscivo a capirlo e ho incominciato a farne alcuni e l’ho trovato divertente. Così ho imparato un po’ di Analisi attraverso la pratica più che la teoria. A questo punto accadde un fatto curioso: in un viaggio a Londra, mio padre, in una libreria per studenti vide in vetrina un libro di Hardy e Wright [Immagine a destra], Introduzione alla Teoria dei Numeri(6). Così d’impulso lo comprò e cominciò: capitolo 1 bene, capitolo 2 bene, ma poi diventava un po’ più difficile e, siccome sapeva che io avevo cominciato a studiare un po’ di matematica a livello un po’ più alto, chiese il mio aiuto per leggerlo. Poco dopo ho preso il libro, me ne sono completamente impossessato. Così, a un certo punto, quando avevo quattordici anni, ho cominciato anche a fare un primo tentativo di ricerca per conto mio, sempre basato sulla lettura del libro di Hardy e Wright. Cioè leggendo dicevo: «Ma se si può far questo forse si può fare quest’altro, fare qualche variante, qualche cosa». Al che mio padre ha detto: «Forse è meglio farlo vedere da un esperto». E così ci fu il primo incontro attraverso alcuni amici a Zurigo: incontrai il fisico Pauli(7), perché allora non era la matematica che contava, ma era la fisica, ed era dunque meglio parlare con un fisico.
Pauli, che non aveva una grande stima dei matematici, visto che io la fisica non la sapevo, disse: «Forse è più matematico che fisico, è bene che consulti un matematico, ci sono ottimi matematici in Italia». E così ci fu un incontro col professor Giovanni Ricci(8), a casa sua. Doveva essere un incontro di un’oretta, mi tenne lì per cinque ore. E fu deciso, io facevo allora il liceo classico, di continuare il liceo classico e iniziare una corrispondenza. Mi diede un libro e mi disse una cosa che ancora ricordo: «Devi imparare l’Analisi Complessa, se non sai l’Analisi Complessa sarai sempre un dilettante». Così mi diede il suo libro di lezioni di Analisi Complessa, la sua ultima copia che tenni gelosamente a casa, che ho letto, studiato e ristudiato. Questi furono i miei primi passi, sotto la sua guida. Un giorno gli scrissi qualcosa che avevo meditato, una specie di lavoretto, disse: «Questo è buono, vieni a Milano e ti insegno come si scrive un lavoro di matematica». Andando poi a vedere la bibliografia si è visto che la cosa più importante era già stata fatta. Però c’era un’applicazione che sembrava nuova, e quindi disse: «Adesso devi andare a leggere tutti i lavori che riguardano questo tipo di equazioni che hai studiato». C’erano dei lavori del 1915, del Messenger of Mathematics che esistevano solo a Pavia, non c’erano nella biblioteca e quando Ricci scoprì che non li aveva – lui ci teneva moltissimo alla biblioteca di matematica, era una delle cose che aveva proprio costruito qui all’università – disse: «Devi leggere il lavoro, non puoi citare da fonti secondarie». Così scrissi il mio primo lavoro.
In questo modo quando venni all’università ebbi un trattamento di favore che vi descrivo subito: c’era la famosa biblioteca, le chiavi della biblioteca le aveva ovviamente il bibliotecario, il direttore dell’istituto, Ricci [Immagine a sinistra], e poi io. Nessun altro. Il bibliotecario era molto seccato della cosa, comunque questo era l’ordine di Ricci e potevo andare a aprire tutto, tirare giù tutto, leggere tutto quello che volevo. Così quello che ho fatto, quando ero a Milano, è stato naturalmente seguire lezioni, parlare coi professori, e ho imparato un po’ di Analisi e di Geometria. L’Algebra no: non c’era l’esame di Algebra, io sono riuscito a evitarlo. L’Algebra l’ho studiata da solo, dopo laureato, parecchi anni dopo perché non potevo andare avanti senza studiarla. C’è stato un altro tentativo di costringermi a fare un esame di Algebra che vi descrivo brevemente perché è divertente: quand’ero a Princeton, io facevo un po’ di pittura, da dilettante. Al Community College, infatti si tenevano anche lezioni di arte e di pittura, ed io mi sono iscritto come studente. Naturalmente dopo tre anni, studiando Pittura 1, Pittura 2, Pittura 3, Pittura avanzata, poi Disegno 1, Disegno 2, Disegno 3 e così via, ricevo una lettera dal preside di facoltà che mi dice «Vedo con piacere che hai raccolto 100 crediti in queste lezioni; tuttavia adesso per andare avanti è obbligatorio fare l’esame di algebra». Allora gli ho mandato una lettera col mio curriculum, dicendogli: «Non ho obiezioni in linea di principio, però ho paura di diventare lo zimbello dei miei colleghi». Allora mi ha invitato nel suo studio, abbiamo preso il caffè insieme, abbiamo chiacchierato un po’ e mi ha esonerato dal temuto, temutissimo esame di Algebra. E quindi sono stato anche fortunato a evitare questo esame.
Per concludere voglio dire che, dopo Ricci, ho incontrato molti matematici che voglio menzionare: Ricci mi mandò subito a Cambridge per un anno di specializzazione e lì ho imparato moltissimo da Davenport(9) per la Teoria dei Numeri, Swinnerton-Dyer(10) per la Teoria dei Numeri e la Geometria; poi c’è stato Jean-Pierre Serre(11), il quale, avendomi incontrato nel 1964, si è dato immediatamente da fare per farmi partecipare ai convegni; poi Aldo Andreotti(12), di Pisa, che già nel 1964 mi invitò a Pisa dicendomi: «Devi imparare veramente la Geometria Algebrica, vieni a Pisa per un mese, te la insegno io.» E poi quando sono andato a Pisa come professore gli incontri con De Giorgi(13) [Immagine a destra] che è stato un grandissimo, eccezionale professore, generosissimo con tutti i suoi studenti, hanno avuto grande importanza per me negli studi di Analisi.
Quindi, questa fase di preparazione è stata un po’ speciale, ho trovato tutte le porte aperte, sono stato davvero molto fortunato. Comunque, ognuno avrà qualcosa di diverso da raccontare.

 

A partire dalla sua esperienza nella ricerca matematica, qual è la qualità più importante per un ricercatore?

Non c’è una qualità sola, ovviamente, ce ne sono più di una. Una prima qualità è avere un certo senso della curiosità: uno deve avere quella spinta interna, sapere come vanno in fondo le cose. Per fare questo cosa occorre? Naturalmente tecnica perché altrimenti per realizzare nella forma l’intenzione dell’arte, l’artista trova difficoltà: parafrasando Dante, l’artista ha l’intenzione di fare l’arte ma a rispondere la materia è sorda, quindi la forma e l’intenzione dell’arte non si accordano, e dunque la tecnica è necessaria, senza la tecnica è difficile andare avanti. Se occorre, uno se l’inventa da solo: ci sono matematici che hanno inventato nuove tecniche, nuove cose – tanto di cappello -, però non si può inventare la ruota ogni momento e quindi la preparazione è necessaria. Questo non basta: occorre fantasia e immaginazione, cioè la matematica non si può fare attraverso un procedimento logico, esclusivamente logico, passo per passo. A un certo punto vengono le difficoltà; uno si domanda cosa ci sia oltre a questo e dice: «Non posso farlo, non importa, vediamo cosa c’è dopo»; dopodiché a volte è più facile fare il passo indietro avendo visto quello che va fatto e se manca un passo questo diventa una congettura, un punto di riferimento per future ricerche e intanto uno va avanti. Quindi c’è un aspetto anche di esplorazione del territorio matematico che è importante: senza la curiosità e l’immaginazione non si può fare. Posso anche dire una cosa: non ci sono solo qualità positive ma anche, diciamo, le non-qualità, qualità che deteriorano e una cosa che impedisce di fare la buona matematica è lavorare per far vedere quanto uno sia bravo e intelligente; quindi lavorare per la fama e la gloria non è una buona cosa, bisogna dimenticarsi di questo. Un problema deve essere importante non perché storicamente importante, si deve capire perché è importante nella matematica. Ogni mese, adesso, io ricevo una dimostrazione dell’Ipotesi di Riemann, anni fa prima che Wiles(14) [Immagine a sinistra] lo risolvesse, quello più in voga era l’ultimo teorema di Fermat. E tutti dicono: «Quelli sono dei mitomani, sono dei poveretti», non importa, è sbagliata la motivazione. Quindi occorre anche una certa umiltà nella ricerca, mettere da parte se stessi e cercare di scoprire la bellezza di quello in cui consiste fare ricerca.

 

Che valore ha lo studio della matematica, anche nei periodi di aridità, quando si percepisce di essere molto lontani dalla soluzione del problema? In particolare mi riferisco anche a ciò che ci raccontava riguardo al suo lavoro sull’Ipotesi di Riemann.

 

È una domanda molto interessante, cioè, cosa fa uno di fronte alle difficoltà? Uno dice: «Non si può fare, non ce la faccio, faccio qualcos’altro», a volte è necessario anche fare questo; però se uno sceglie sempre la strada più facile, finisce per fare delle cose poco interessanti e questo succede anche ad alti livelli. Un rischio ben specifico si ha quando la ricerca dipende esclusivamente da fondi esterni, che possono essere governativi, dell’università, o dell’industria, non importa, perché di solito si innesta un processo in cui uno fa una proposta, queste proposte valgono a livello nazionale, europeo, e così via, vengono valutate e il criterio di valutazione usualmente è quello del successo, cioè che la ricerca abbia una grande probabilità di successo.
Il risultato è che, chi dipende esclusivamente da questa forma di supporto materiale per fare ricerca, finisce per fare le cose che sono più o meno evidenti. Ora anche quello è un lavoro che va fatto, perché chiaramente si fa del progresso, ma il risultato è che, se uno tenta qualcosa di veramente difficile e non riesce, finisce che i fondi vengono tagliati e il problema viene messo da parte. È una questione seria, pratica, che però non deve scoraggiare chi vuol fare ricerca a livello avanzato. Ora, a me, nel lavoro che faccio, l’Institute for Advanced Study non richiede di fare previsioni, quello che farò quest’anno, il prossimo anno, o tra cinque anni: io sono assolutamente libero di pensare a quello che voglio, naturalmente questo comporta una grande responsabilità, di non perdere tempo, di non abusare di questa grande possibilità di lavorare in modo indipendente. Ho visto che da tentativi, diciamo, falliti, si impara qualcosa, perché se uno ha una buona idea, che sia matematica, fisica, biologia, chimica, o qualunque scienza, una buona idea di fare ricerca, ovviamente non di quelle prevedibili, e poi vede che l’idea, per qualche motivo, non funziona, uno impara dall’esperienza negativa. Questo significa non scoraggiarsi se qualcosa non va come previsto, invece analizzare, vedere come mai non funziona, perché forse si impara qualcosa di diverso.
Ci sono esempi nella matematica in cui, dopo tanti tentativi, si è visto che la soluzione era l’opposta. Insomma, i matematici hanno tentato per più di mille anni di fare la quadratura del cerchio, e poi si è visto che era impossibile nel quadro della Geometria Euclidea: la quadratura del cerchio non si può fare, nonostante che io ogni tanto riceva qualcuno che dice di averla fatta. E quindi l’esperienza può essere anche negativa, però uno non si deve scoraggiare. Io sono uno dei pochi matematici al mondo che ammette in pubblico di aver pensato a lungo sull’Ipotesi di Riemann. Conosco tanti matematici che pur avendo pensato a lungo sull’Ipotesi di Riemann, non lo ammettono perché hanno paura di fare brutta figura, e secondo me è sbagliato. Naturalmente è importante anche, se uno non riesce, non avere una idea fissa, battere sempre la testa sullo steso chiodo, perché non funziona e quindi io mi occupo non solo dell’Ipotesi di Riemann ma di tante altre cose e sono stato abbastanza fortunato a risolvere anche alcune questioni non facili. Farò due esempi.
Uno è il mio lavoro sulla distribuzione generale dei numeri primi, forse il primo veramente importante; a un certo momento ho avuto un’idea: tempo cinque minuti e ho capito che era quella la chiave per risolvere il problema e ho lavorato; in tre giorni e tre notti ho scritto tutto, ho finito. Tre giorni e tre notti consecutive, senza riposo insomma, però allora ero un po’ più giovane, oggi non potrei più farlo. Questo è il caso in cui viene un’intuizione: mi sono accorto che era quello che ci voleva e ho dovuto andare avanti finché non ho scritto tutto.
Un altro problema, molti anni più tardi, – una questione sui gruppi finiti – mi era stato posto da un grande specialista. Mi disse: «noi che ci occupiamo dei gruppi finiti abbiamo veramente tirato fuori tutto quello che si può fare con la teoria dei gruppi. Il problema però richiede ancora un passo che non sappiamo fare». Io ho speso un mese di duro lavoro senza fare un minimo passo avanti e l’ho messo da parte. Cinque anni dopo, a Princeton, è stato dedicato un anno a problemi di questo tipo, cioè sulla classificazione dei gruppi, e lo specialista che organizzava tutto quanto mi ha segnalato che quel problema non era ancora stato risolto. Allora ci ho riprovato per la seconda volta e dopo due mesi è venuta fuori la soluzione, che non era difficile, ma richiedeva quello che io chiamo un trucchetto infame, una cosa che non viene dalle teorie della tecnica, un «giochettino»; per risolvere le equazioni, il cui numero era superiore al numero di atomi dell’universo e che quindi nessuno poteva scrivere, c’era un trucco: se c’è un’equazione, devi solo sapere quanto è grande, c’è un’altra equazione che ha solo due termini e quella la puoi scrivere. Così ho scritto l’equazione a due termini e per finire, l’analisi tecnica.
Quindi, ogni tanto, non bisogna pensare solo alla tecnica. Il motivo per cui ho trovato quella soluzione è che mi sono chiesto se potesse essere non necessario scrivere queste equazioni. Non dovevo trovare un modo straordinario per scriverle, bensì bastava sapere cosa ricavare da queste equazioni, quale informazione trarne. Dopodiché è diventato abbastanza chiaro che, per ricavare le informazioni, non avevo bisogno di tanto ma dovevo sapere soltanto quanto era grande l’equazione di partenza. Quindi ogni tanto cercare di economizzare, vedere il minimo necessario per arrivare alla meta può servire.
Per quanto riguarda l’Ipotesi di Riemann, dopo più di quaranta anni di lavoro, io non l’ho ancora dimostrata, almeno per il momento. Staremo a vedere. Intanto ci sono tante altre cose: la matematica non è l’Ipotesi di Riemann, ci sono molte altre cose interessanti.

 

 

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A cura dell’Associazione “Cultura Matematica” che ha promosso l’incontro di cui si riferisce nell’articolo e di cui sono stati moderatori Lorenzo Romanò e Matteo Bersanelli, studenti del C.d.L. in Matematica dell’Università degli Studi di Milano

 

 

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  1. Oscar Chisini (Bergamo, 4 marzo 1889 – Milano, 10 aprile 1967), importante matematico italiano, nel 1929 fondò l’Istituto di Matematica dell’Università degli Studi di Milano
  2. Godfrey Harold Hardy (Cranleigh, 7 febbraio 1877 – Cambridge, 1 dicembre 1947), matematico britannico, fellow della Royal Society, è noto per i suoi ontributi in Teoria dei Numeri e Analisi Matematica
  3. «A mathematician, like a painter or poet, is a maker of patterns. If his patterns are more permanent than theirs, it is because they are made with ideas». G. H. Hardy, Apologia di un matematico, Garzanti Libri, 2008
  4. Jean Baptiste Joseph Fourier (Auxerre, 21 marzo 1768 – Parigi, 16 maggio 1830), matematico e fisico francese, conosciuto specialmente per la sua famosa trasformata
  5. I.Ghersi, Matematica dilettevole e curiosa, Hoepli, Quinta edizione, Ristampa 1999
  6. G. H. Hardy, E. M. Wright, An introduction to the Theory of Numbers, Oxford University Press, 1980
  7. Wolfgang Ernst Pauli (Vienna, 25 aprile 1990 – Zurigo, 15 dicembre 1958), fisico austriaco, fu fra i padri fondatori della meccanica quantistica. Suo è il principio di esclusione, per il quale vinse il Premio Nobel
  8. Giovanni Ricci (Firenze, 17 agosto 1904 – Milano, 9 settembre 1973), un importante matematico italiano. Si laurea nel 1925 presso la Suola Normale Superiore di Pisa con una tesi di Geometria Differenziale. Si trasferisce a Milano nel 1937 dove gli viene offerta la cattedra di Analisi Matematica presso l’Università degli Studi.  A Milano prende a cuore il progetto di organizzare una biblioteca di importanza rilevante, tutt’ora presente, intitolata a suo nome, presso il Dipartimento di Matematica, con 65.000 volumi
  9. Harold Davenport (Huncoat, 30 ottobre 1907 – Cambridge, 9 giugno 1969), matematico inglese, conosciuto per i suoi importanti contributi nella Teoria dei Numeri
  10. Sir Henry Peter Francis Swinnerton- Dyer (2 Agosto 1927 – ), matematico inglese specializzatosi nella Teoria dei Numeri all’Università di Cambridge, dove tutt’ora risiede
  11. Jean-Pierre Serre (Bages, 15 settembre 1926 – ), matematico francese, considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo. Dopo aver fatto la tesi nel campo della Topologia Algebrica, ha prodotto lavori fondamentali nel campo della Teoria dei Numeri e della Geometria Algebrica
  12. Aldo Andreotti (Firenze, 15 marzo 1924 – Pisa, 21 febbraio 1980), matematico italiano, tra i più influenti della sua generazione
  13. Ennio De Giorgi (Lecce, 8 febbraio 1928 – Pisa, 25 ottobre 1996), matematico italiano, divenne noto nel mondo scientifico quando, nel 1957, risolse il XIX Problema di Hilbert, alla cui soluzione si erano dedicati per oltre mezzo secolo i più importanti studiosi di matematica. Nel 1959 fu chiamato ad insegnare presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ove restò per tutta la vita. “All’inizio e alla fine abbiamo il mistero. Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio. A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo”. (E. De Giorgi)
  14. Andrew John Wiles (Cambridge, 11 aprile 1953 – ), matematico britannico, celebre per aver ottenuto la dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat.  Attualmente vive negli Stati Uniti e insegna all’Università di Princeton

 

 

 

© Pubblicato sul n° 38 di Emmeciquadro

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