L’idea che la nostra scuola sia luogo di un’emergenza educativa si sta facendo strada tra chi si occupa di questo ambito cruciale della nostra società. È un’emergenza che include come sottoinsieme un’emergenza didattica, con un altro sottoinsieme per la didattica delle discipline scientifiche.
Sul primo livello si cimentano in pochi; e questo è il dato più preoccupante, se è vero che – come sostiene Marco Traini in questo numero – «la ragione va utilizzata secondo un’interezza non ovvia, non banale, tanto da non dover essere dominata dalla prima evidenza [quella teorica, ndr], ma dalla seconda, quella che esce dal confronto serrato e rigoroso con l’esperienza».
Saltando questo passaggio, quello della globalità del fatto educativo, è inevitabile che il secondo e il terzo livello si riducano ben presto a pure questioni tecniche: architettura del piano di studi, numero di ore settimanali, strumenti didattici, nuove tecnologie… E c’è ancora un nutrito gruppo di irriducibili che tesse le lodi della pedagogia costruttivista e dell’in¬segnante «facilitatore», riaccendendo le critiche «all’insegnamento cattedratico, per regole, che servirà esclusivamente a fornire le informazioni necessarie alla soluzione dei problemi oggetto di studio da parte dello studente».
Che l’apprendimento sia una questione personale è un punto fermo di ogni serio processo formativo: nessuno può sostituirsi al lavoro e alla libertà del singolo che si impegna con la proposta educativa che gli viene presentata (qualunque sia la forma che tale proposta assume); non c’è tecnica di apprendimento che tenga, non ci sono effetti speciali che possano compensare la mancanza di decisione personale e di costanza operativa nel seguire le indicazioni e i suggerimenti, siano essi pochi e non direttivi o cattedratici e regolamentati. Ma proprio il rispetto del carattere personale dell’esperienza impone al discente il compito di proporsi come compagnia per fare un cammino insieme.
Nel caso dell’insegnamento delle discipline scientifiche, questo approccio consente di proporre la conoscenza come un’avventura interessante, che vale la pena di intraprendere; e questa è una presa di coscienza che accade solo se accade «insieme», cioè se il docente si fa compagno di viaggio in questa avventura e mostra, passo dopo passo, il guadagno e il gusto conoscitivo che lui stesso sperimenta.
Ciò contribuirà a rendere la motivazione per lo studio sempre presente e non solo segnalata all’inizio, quando ci si affanna per spiegare «a cosa servirà» lo studio delle scienze e della matematica; all’inizio il ragazzo potrà anche capirla intellettualmente ma poi non riuscirà a tenere il ritmo e ci vorrà una compagnia puntuale ed esemplificatrice per poter rinnovare continuamente interessi, motivazioni e impegno. Qui sta la differenza principale tra l’insegnamento come esperienza educativa e quello, purtroppo in crescente diffusione, ridotto (soprattutto quello scientifico) a semplice, pur se attrezzata e accattivante, divulgazione.
Un’impostazione del tipo indicato – ed efficacemente documentata nelle pagine seguenti – supera i problemi strutturali, (come quelli del numero di ore o della articolazione dei contenuti) e colloca anche la questione degli strumenti (non secondaria per l’insegnamento scientifico) nelle proporzioni adeguate, senza sopravvalutarli ma sfruttandone al massimo tutte le potenzialità.
Le indicazioni che emergono da alcuni contributi sui temi della riforma e gli esempi raccontati in queste pagine e relativi a tutti i livelli di scuola, sono stati possibili perché hanno visto docenti muoversi in questa prospettiva.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 38 di Emmeciquadro