Nel 1910, giovane docente dell’Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco principi fondamentali. Così queste brevi pagine, spesso citate ma inedite in italiano, sono diventate famose come distillato della sua idea di conoscenza, e di educazione.
Benché p???µa [poiema] significhi esattamente «creazione», dovremmo rimanere giustamente perplessi se ci si mettesse a chiamare indifferentemente «poema» qualsiasi creazione. Ma c’è un genere particolare di opera letteraria che ha perso qualsiasi specificazione, al punto che la sua natura finisce per identificarsi col significato etimologico del suo nome.
Si tratta appunto della lezione. Giustamente lectio significa lettura. Ma attaccandosi a questo appiglio linguistico, capita spesso che si applichi il nome «lezione» a qualsivoglia opera letteraria, dissertazione scientifica, articolo di rivista o appendice di giornale, purché venga letta (o pronunciata) davanti a un pubblico; così facendo non si tiene però conto del fatto che, sebbene il nome lezione derivi da lectio, le due cose non sono affatto uguali. Sono concetti subordinati: da un lato non necessariamente una lectio è una lezione, e dall’altro non necessariamente una lezione dev’essere letta davanti a degli uditori, ossia essere una lectio, perché le lezioni possono venire alla luce anche direttamente in forma stampata.
Potrà sembrare che siano ragionamenti eccessivamente scolastici e che si tratti soltanto di una disquisizione sui termini. Sì; ma per colpa dell’imprecisione nell’uso delle parole, finisce che il genere stesso delle opere letterarie cui si può legittimamente attribuire il nome di «lezione» perde la sua fisionomia specifica; un nome nebuloso impedisce di riconoscere distintamente le prerogative che si richiedono a una lezione dal punto di vista della forma, e la lezione, senza che l’autore se ne renda conto, finisce per confondersi con altri generi letterari.
All’atto di dare alle stampe una serie di saggi – un ciclo di lezioni che aveva lo scopo di esaminare lo snodo del pensiero antico in cui la filosofia greca si salda organicamente con la religione greca, all’epoca del Rinascimento ellenistico del VI secolo, – l’autore ritiene necessario indicare alcune caratteristiche che definiscono la natura della lezione in quanto tale.
Imprevedibile come la vita
E dunque, cos’è una «lezione»? È innanzitutto un genere particolare di opera letteraria di carattere didattico, ossia scolastico (non scientifico). E tuttavia un libro di testo, ancorché lo si legga dalla cattedra, non diventerà mai per questo una lezione né un corso di lezioni. Il rapporto che c’è tra il libro di testo e il corso di lezioni è paragonabile al rapporto che c’è tra il meccanismo e l’organismo.
I secondi termini della proporzione [lezione, organismo] invece, si caratterizzano per la naturalezza e la libertà della costruzione, e proprio in forza di questo hanno un funzionamento multiforme, imprecisabile a priori; in compenso, però, non arrivano alla precisione assoluta nelle proprie azioni («l’uomo vivo non è una macchina»); la loro crescita è un atto di creazione che si manifesta in ogni dettaglio della loro struttura, mentre il libro di testo e il meccanismo, ad essere precisi, non crescono nemmeno ma semplicemente vengono messi insieme, costruiti con parti preconfezionate.
Al contrario, pur attenendosi rigidamente alla direzione generale, alla corrente generale, a un generale progetto di pensiero, in un corso di lezioni, la lezione non procede in linea retta, totalmente rinchiusa in una formula razionale ma, come l’essere vivente, sviluppa i propri organi, ri¬spondendo ogni volta alle esigenze che si manifestano in corso d’opera. In tal senso non sarebbe fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime.
La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l’unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo.
Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo. I sentieri secondari, persino l’assenza di strade nel fitto del bosco lo attirano col loro romantico mistero. In una parola, passeggia per respirare un po’ di aria pura e darsi alla contemplazione, e non per raggiungere più in fretta possibile la fine stabilita del viaggio, trafelato e coperto di polvere.
Allo stesso modo, l’essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un’erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate.
La lezione è iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, è introdurli alla creazione scientifica, è un modo per insegnare attraverso l’evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro; non è la semplice trasmissione delle «verità» della scienza nella sua fase «attuale», «contemporanea».
Infatti che cos’è, in questo senso, la «verità» scientifica? Non è forse come il vento che non posa mai? Non è come l’onda che scivola via nell’instancabile risacca? Non è un processo inarrestabile? In una parola, non è un’energia viva, l’ενεργεια [energeia], in contrapposizione alla cosa sclerotizzata, l’εργον [ergon]? Ma a parte questo, se la questione si riducesse esclusivamente alla trasmissione di «verità» già confezionate, la lezione diventerebbe assurda e priva di scopo.
Il libro di testo è sempre l’esito di un lavoro più ponderato della lezione; il libro di testo realizza questo compito infinitamente meglio di qualsiasi lezione. D’altra parte, leggere un libro di testo, anche il più brillante, a un intero uditorio in grado di leggere è un esercizio decisamente inutile dopo l’invenzione di Gutenberg. Sarebbe come se una cucitrice, messa da parte la macchina Singer, volesse cucire con una spina di pesce.
Le caratteristiche particolari
Ma se l’essenza della lezione è effettivamente tale, ne deriva un certo numero di segni particolari che differenziano fortemente la lezione da altri generi di opera letteraria. Innanzitutto, ha interesse per le minuzie, i particolari, i dettagli, le caratteristiche più infinitesimali che delineano il fenomeno studiato nella sua viva individualità e non solo «in generale», schematicamente. Sia l’oratore che l’ascoltatore si sentono nella situazione di un uomo che non è assolutamente obbligato a galoppare sui cavalli di posta, ma ha il diritto di perdere un po’ di tempo con il sassolino o il filo d’erba che, fuori programma, hanno attirato il suo interesse.
Diversamente, in un corso di lezioni molti elementi che hanno realmente un legame organico col tutto e che vivono realmente della stessa vita del tutto, non derivano comunque dall’idea del tutto more geometrico, per necessità logica, e quindi possono anche essere respinti. Così, il getto secondario di una pianta, nella misura in cui si nutre della linfa dello stelo principale costituisce un corpo solo con questo; ma dall’idea della pianta intera non discende necessariamente che questo pollone collaterale debba crescere di sicuro.
Talvolta un eccesso di steli secondari può danneggiare la pianta; allora è una questione di tatto individuale (e non di logica) decidere cosa, appunto, lasciar crescere e cosa recidere. Lo stesso avviene in un corso di lezioni. Un’altra caratteristica specifica della lezione discende dal suo compito. La lezione, lo abbiamo già detto, non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l’«innesco», il lievito all’attività intellettuale. Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell’ascoltatore a uno stato di fermento.
Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull’oggetto, che congeli l’oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l’oggetto lontano dal centro dell’attenzione per mettersi al suo posto. L’aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l’atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall’erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui.
Così come sarebbe assurdo studiare botanica non sui vegetali vivi, o nemmeno sulle loro immagini fotografiche, ma in base alle loro descrizioni, allo stesso modo in qualsiasi attività scientifica cercare e vedere l’originale è l’impulso naturale di un pensiero autonomo. Il gusto del vino sincero è conoscibile solo da chi prende il vino dal produttore stesso, direttamente dalle sue mani o con la sua garanzia scritta; allo stesso modo anche gli oggetti naturali e autentici della ricerca mostrano il loro sapore solo quando li ricevi di prima mano dagli stessi creatori del pensiero geniale, con la loro garanzia scritta, oppure dalla contemplazione di alcune cose, fotografie eccetera, così come i fatti autentici delle scienze naturali si colgono soltanto attraverso l’osservazione diretta.
Viceversa, il commercio al dettaglio delle idee, sulle bancarelle o nei negozi, non meno della vendita al dettaglio del vino, porta sempre con sé delle adulterazioni e, soprattutto, aggiunte assolutamente inutili: è ben difficile che simili costruzioni si possano produrre da soli, a tavolino. Mentre il pensiero autentico, il fatto autentico sono aspri e talvolta acerbi, come il vino non adulterato. Ecco perché al gusto della lezione, che indirizza l’attenzione degli uditori al concreto, alla fonte prima, bisogna prima abituarsi.
Potrebbe sorgere la domanda: ma allora una lezione di cui si prendono appunti, e ancor meglio una lezione stampata e tanto più pubblicata, non è una contradictio in adjecto? Se la lezione è creazione immediata come si può fissarla sulla carta e, una volta fissata non perderà vigore, non si dissolverà la sua sostanza più vitale? Non perde così il diritto di esistere, una volta scritta? Direi di no. Anche una cosa che permane nello scorrere del tempo (gli appunti) può avere come contenuto qualcosa di transitorio; anche una cosa mediata dalla scrittura può essere immediata; anche una cosa fissata può essere libera quanto al contenuto.
Così il diario, una delle forme più libere e indisciplinate tra le opere letterarie, può essere trascritto e talvolta (raramente!) reso pubblico. Come il petalo di una rosa pitturata splenderà per sempre della rugiada mattutina sul punto di asciugarsi; come sul cilindro del fonografo una voce appena tremolante per l’incertezza, viene afferrata per essere riprodotta innumerevoli volte con la stessa incrinatura momentanea; così nel diario e persino negli appunti di una lezione resta immobilizzato qualcosa che ha senso solo come creato «ora» e «immediatamente», e pur restando fissato, rimane per sempre creato «ora» e «immediatamente»: «questo foglietto ingiallito e sfatto, arde di oro eterno nel canto».(1)
Quanto abbiamo detto finora vale per le lezioni perfette, che forse si danno raramente. È più un auspicio che non la descrizione dell’esistente. Quanto invece alle lezioni qui proposte, è necessaria una riserva.
E faccio un’ulteriore riserva: la forma della lezione, che richiede per sua natura un certo dettaglio, una certa incisività, una certa stilizzazione dei giudizi, certe volte mi ha costretto ad esprimermi con più decisione di quanto sarebbe ammesso in un’opera scientifica.
Ma non era possibile evitare le esagerazioni, perché l’assoluta cautela scientifica nel trarre conclusioni e fare valutazioni porterebbe con sé una miriade di distinguo e renderebbe il pensiero stesso poco persuasivo, gonfio e incolore. Tuttavia, questo è un fattore con cui ognuno deve fare i conti autonomamente.
Quanto all’autore, nel rivedere le lezioni per la stampa ha cercato di conservare il tono essenziale dell’esposizione, e si è permesso solamente qualche ritocco scientifico e letterario qua e là. Anche le «note» che seguono ogni lezione non possono restare senza una «nota». Il fatto è che attorno ad ogni argomento trattato su queste pagine è cresciuta un’intera letteratura. È possibile, ed è necessario prenderla in considerazione ogni volta per intero? Dirò di più: bisogna assolutamente dare delle indicazioni bibliografiche? Per l’autore la risposta è negativa: non importa quante opinioni ci siano o potrebbero esserci su un numero infinito di questioni.
Infatti non si può, perdendo ogni autostima, correre dietro ad ogni parere, porgere l’orecchio a migliaia di voci! Tanto più che anche fra le voci erudite di solito i nove decimi sono pure chiacchiere. Al «piano inferiore»(2) vengono riportate per lo più le opere in russo o i testi di carattere abbastanza generale. Mentre le indicazioni più specialistiche sarebbero state fuori posto in un’opera di divulgazione.
Pavel Florenskij
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Il testo dell’articolo è stato tradotto per la prima volta in lingua italiana e pubblicato sul n. 2, marzo 2010 de La Nuova Europa, rivista internazionale di cultura, edita da La casa di Matriona.
Note
- Versi di Afanasij Fet, Ai poeti, 5 giugno 1890. ndt.
- Florenskij intende le note dell’Autore, collocate alla fine di ogni lezione. ndt.
Note biografiche
Pavel Florenskij nasce presso Evlach, entro i confini dell’attuale Azerbaigian il 9 gennaio del 1882.
La famiglia Florenskij abiterà a lungo in Georgia, dalla quale il giovane Pavel si allontanerà solo al compimento dei 18 anni, per poi raggiungere l’Università di Mosca.
[A sinistra: Pavel Florenskij alle Isole Solovsky (1933-1927)]
Nel 1904 si iscrive alla Facoltà Teologica, nei pressi del monastero di San Sergio a Sergiev Posad.
Nel 1908, anno della morte del padre, consegue la Licenza in Teologia. Il 23 settembre è invitato a ricoprire la cattedra di Storia della Filosofia. Da questo momento, grazie alla sua genialità matematica da una parte e alla sua profonda fede dall’altra, svolge una duplice attività: quella di teologo con pubblicazioni e lezioni universitarie; quella di scienziato: brevetta alcune invenzioni, dal 1927 al 1933 dirige il progetto dell’Enciclopedia Tecnica.
Il 26 febbraio del 1933 Florenskij viene arrestato e accusato di essere «controrivoluzionario», condannato a dieci anni di gulag e più tardi trasferito in un campo di prigionia presso le isole Solovki, nel Mar Bianco, viene condannato a morte durante le «purghe» staliniane del 1937.
Le autorità comunicano la data ufficiale della sua morte, il 15 dicembre del 1943, poi rettificata alla stessa famiglia solo agli albori dei primi anni novanta. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il fascicolo del KGB relativo al suo caso rivelò che Pavel Florenskij era stato fucilato l’8 dicembre del 1937, nei pressi di Leningrado.
© Pubblicato sul n° 40 di Emmeciquadro