“for the development
of in vitro
fertilization”
Robert Edwards, padre della fecondazione in provetta e pioniere delle ricerche sulla fertilità in vitro, è stato proclamato vincitore unico del premio Nobel per la medicina del 2010. Edwards ha 85 anni ed è professore emerito dell’università di Cambridge. È il 1978 l’anno della nascita della prima bambina in provetta, Louise Brown. Oggi sono circa 4 milioni le persone fecondate con questo sistema. Edwards ha cominciato a studiare le possibilità della fecondazione in vitro negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso insieme al ginecologo Patrick Steptoe. Nel 1958 è diventato ricercatore dell’istituto Nazionale per la Ricerca Medica e Londra. A partire dal 1963 ha proseguito il suo lavoro a Cambridge, prima nell’università e poi nella clinica Bourn Hall.
La attribuzione del premio Nobel all’inglese Robert Edwards per l’introduzione in campo umano delle tecniche di fecondazione in vitro (FIV) ci lascia perplessi, ma per motivi scientifici. E ci affiorano alle labbra alcune domande.
Non ci sarebbe stata qualche innovazione più recente e meritoria da premiare (nelle note di Alfred Nobel si faceva esplicito riferimento al desiderio che il Premio venisse attribuito ad una scoperta fatta nell’anno precedente, proprio per valorizzare l’innovazione in campo medico; in questo caso la scoperta risale a oltre 30 anni fa)? [Immagine a sinistra: Robert Edwards (1925 -)].
E soprattutto non sarebbe opportuno premiare le innovazioni che portano progresso ma che non trovano fondi, invece di quelle che hanno ormai il plauso di tutti i media e non abbisognano di aiuto perché la scoperta è ultradatata e ultrasperimentata?
E infine, non sarebbe cosa buona valorizzare chi risolve un problema invece di chi mette in atto tecniche che certamente non guariscono, come in questo caso la FIV non guarisce la sterilità, che invece continua a proliferare e aumentare?
Il problema è che parlando tanto di fecondazione in vitro, si evita di parlare a sufficienza di sterilità; e il pensiero che ci sia una «via di fuga» come la FIV, contribuisce a perpetuare il primo errore causa di sterilità che è la posticipazione della gravidanza a un’età in cui i figli non arrivano più, senza riflettere che dopo una certa età anche con la FIV le possibilità di successo sono ridotte al minimo. E che parlando di FIV si evita di parlare dei rischi ancora presenti per i bambini che nascono con queste tecniche, rischi ridotti, ma certo maggiori che nella popolazione generale, secondo gli studi pubblicati nelle maggiori riviste scientifiche internazionali.
Forse il premio più che una scoperta vuole far risaltare una cultura, quella cosiddetta del «consequenzialismo», corrente filosofica oggi in auge.
Viviamo infatti in un’epoca in cui si guarda solo alle «conseguenze» delle azioni, e alla loro utilità, prescindendo volutamente da un giudizio (bello/brutto, buono/cattivo) e così facendo si evita sempre di agire sulle cause: come nel caso dell’aborto ormai si discute solo su quale sia il metodo «migliore», e non si parla più di come aiutare le donne ad avere figli, così nel caso della FIV si parla solo di metodi e non più di come non restare sterili, e la sterilità è un’epidemia, di anno in anno maggiore (per infezioni, inquinamento, età…) e nessuno la ferma. Ma nessuno può azzardarsi a parlare delle cause, perché nell’ottica consequenzialista la «scelta personale» è l’ultimo tribunale, per quanto discutibile sia.
Per questo non si può nemmeno pensare ad aiutare la donna in difficoltà che decide di abortire o quella che vuole una FIV magari saltando le tappe di accertamento di sterilità: sembra un paradosso, ma è così: si rischia di esser denunciati per aver violato «la sua libertà», anche se questa «libertà» spesso è solo «solitudine».
Serve allora una riflessione da fare con i giovani, che vada in due direzioni: l’informazione e l’etica, perché non restino schiavi del pregiudizio della generazione precedente (la nostra) in cui non domina neppure più la scienza (questa era il massimo arbitro nel secolo scorso, il secolo della modernità), ma domina il soggettivismo anche quando la scienza va in senso opposto (ogni medico sa che la vita inizia dal concepimento, ma quasi nessuno si azzarda ad affermarlo sui media perché «non conviene»): si chiama post-modernismo, e ne siamo tutti schiavi.
Probabilmente su questo i ragazzi, ancora non schiacciati dai nostri pregiudizi, hanno qualcosa da insegnarci.
Carlo Bellieni
(MD Neonatal Intensive Care Unit, Policlinico Le Scotte, Siena)
© Pubblicato sul n° 40 di Emmeciquadro