In questa serrata conversazione in cui si alternano domande positivamente «provocatorie» e risposte non scontate, viene messo a tema il problema di quale traguardo di certezza possa porsi la scienza, certezza che implica la rinuncia alla totalità e il coinvolgimento anche affettivo del soggetto pensante.

L’intervista è stata rilasciata il 19 gennaio 2011 in occasione del seminario tenutosi presso il Centro Culturale di Milano



Che cosa significa raggiungere una «certezza» in ambito scientifico? È possibile raggiungerla? Si sta parlando della possibilità di esprimere, quando si conosce col metodo scientifico, un giudizio certo, in base agli strumenti di cui si dispone, sia teorici che pratici.

Una cosa occorre ammetterla: anche nell’ambito delle scienze praticate con il più grande rigore, la certezza assoluta è fuori portata. Nelle scienze della natura, per esempio, niente può garantire che un fatto non verrà un giorno a smentire la legge meglio stabilita. In matematica, niente garantisce in modo assoluto la validità dei nostri ragionamenti. Stabilito ciò, ci sono molti casi in cui, tra il dubbio e la certezza, è più ragionevole scegliere la certezza. Dire che la scienza non fornisce una certezza assoluta non equivale a dire che non c’è differenza tra la scienza e il discorso quotidiano. Il metodo scientifico permette di stabilire risultati oggettivi con un grado di certezza ineguagliato. Si può notare, del resto, che, nell’ambito delle scienze della natura, le leggi che in una certa epoca si pensavano assolute non si vengono mai a trovare, per l’esattezza, invalidate in seguito: si scoprono soltanto, eventualmente, dei limiti al loro campo di applicazione. In matematica può capitare che si trovi una «punto cieco» in un ragionamento. Un esempio: nel XX secolo si è scoperto che gli assiomi di Euclide non permettono di definire cosa significhi, per una retta, il fatto che un punto stia «tra» due punti dati. Ciò non vuol dire che i ragionamenti che si riferivano a questa nozione siano crollati. Occorre solamente prendere la precauzione, fino a qui trascurata, di definire matematicamente questa nozione intuitiva, che è quel che la topologia moderna permette senza difficoltà.



Secondo lei, quanto e come incide il proprio atteggiamento personale rispetto alla possibilità di fare esperienza della verità nell’ambito della ricerca scientifica?

Simone Weil ha insistito sulla differenza tra conoscenza esatta e verità. «Se un uomo – dice – sorprende in flagrante adulterio la donna che ama e nella quale aveva posto tutta la sua fiducia, egli entra in contatto brutale con la verità. Se viene a sapere che una donna, a lui sconosciuta, della quale sente il nome per la prima volta, e in una città che conosce altrettanto poco, ha tradito il marito, questa notizia non cambia per nulla la sua relazione con la verità». Secondo Simone Weil questo esempio fornisce la chiave: «L’acquisizione delle conoscenze fa avvicinare alla verità solo quando si tratta della conoscenza di quel che si ama, e non in altri casi». Detto in altri termini, l’esperienza autentica della verità dipende dal rapporto che il soggetto intrattiene col suo oggetto di studio. Il metodo scientifico moderno è molto efficace per fornire conoscenze esatte. Disgraziatamente, questa efficacia è acquisita troppo spesso col neutralizzare il rapporto personale con l’oggetto, il che impedisce a queste conoscenze di essere delle verità per il soggetto.



Durante il seminario che si è tenuto presso il Centro Culturale di Milano (CMC) mercoledì 19 gennaio 2011, lei ha citato una frase che qui riporto: «L’errore non è il contrario della verità ma la dimenticanza della verità contraria». Ritiene che essa debba essere tenuta presente anche nell’ambito scientifico? Se è così, cosa significa tenere aperta la propria ragione a tutte le possibilità? Può fare degli esempi al riguardo?

La frase alla quale si fa riferimento è di Pascal, che pensava in quel momento alle differenti eresie cristiane. (Per esempio: l’errore dei monofisiti, che affermano che Cristo ha una sola natura, quella divina, non è il contrario della verità – perché Cristo ha certamente questa natura divina -, ma è la dimenticanza della verità contraria, vale a dire che Cristo ha anche la natura umana). Nell’ambito scientifico, le cose vanno diversamente. In seno a una teoria scientifica due verità contrarie non saprebbero coesistere.
Là dove la frase di Pascal ridiventa valida è in una certa articolazione tra le differenti teorie. Per esempio, si immagina volentieri la fisica delle particelle come più «fondamentale» della fisica dei sistemi macroscopici, perché i sistemi macroscopici sono formati da particelle. Tuttavia la nostra esperienza, comunque sia, si effettua sempre su scala macroscopica, il che fa sì che il mondo delle particelle si trovi necessariamente dedotto da questa scala macroscopica. In questo senso, la scala macroscopica è più «fondamentale» della scala microscopica, o, almeno, lo è altrettanto. Lo stesso tipo di situazione si ritrova, formalmente, nei rapporti del pensiero scientifico col soggetto pensante. Il pensiero scientifico può nutrire l’ambizione di dare le ragioni di ogni cosa, ivi compresi i meccanismi grazie ai quali il soggetto umano pensa. Ma d’altra parte, è sempre a questo soggetto a cui la scienza si indirizza, a cui presenta le sue conclusioni. Altrimenti detto, il pensiero si muove dentro un cerchio. Si può ingrandire indefinitamente il cerchio della conoscenza, ma non trasformare il cerchio in una retta. Ne risulta, per la conoscenza scientifica, un’impossibilità di principio a raggiungere la completezza – il che appare come un difetto in virtù di un’identificazione illusoria tra quel che vale e la totalità. Al contrario, è proprio perché una conoscenza non è totale che essa ha valore. Che la scienza non possa dire tutto è precisamente quel che le permette di dire qualcosa. È il senso del proverbio delfico: la metà è più del tutto. È anche il senso della leggenda dei libri sibillini, in cui era annotato il destino di Roma: è perché ce ne erano solo tre su nove che erano così preziosi.

Si può parlare di certezza scientifica prescindendo dal contesto della comunità scientifica a cui si appartiene?

Chi dice matematica dice dimostrazione. Come i Greci sono dunque giunti a elaborare quella che viene detta una dimostrazione? Cercando cammini di pensiero tali che anche la persona meno disposta nei confronti del suo interlocutore non potesse far diversamente che acconsentire a ognuna delle tappe del cammino. È nel rapporto con gli altri che si sono elaborate le regole di dimostrazione – che ognuno è poi in grado di interiorizzare e applicare. Questa genealogia molto umana della dimostrazione non vuol dire che le dimostrazioni non ci conducano in un ambito di idealità indipendenti da noi. Vuol solamente dire che è sempre all’interno di una comunità umana che possiamo aver accesso a questo ambito. Non conosciamo la verità se non vivendo all’interno di una comunità e di una tradizione orientate verso la verità. Quel che vale per la matematica vale per tutte le scienze.

La tradizione gioca un ruolo positivo per il progresso della scienza oppure rischia di costituire un freno?

Conosciamo la celebre frase di Whitehead: «Una scienza che esita a dimenticare i suoi fondatori è condannata alla stagnazione (A science which hesitates to forget its founders is lost)». Ci sono momenti, nello sviluppo di una scienza in cui bisogna saper rompere col passato. Tuttavia, una volta che si è consumata la rottura, è bene riannodare i fili. Perché quel che è stato acquisito attraverso la rottura non mantiene veramente e durevolmente un senso se non partendo da ciò con cui è stato necessario rompere. A breve termine, l’oblio dei fondatori permette di progredire più in fretta. A lungo termine, l’oblio dei fondatori rischia di avere un effetto sterilizzante, per la perdita progressiva del senso di quel che si fa. A mio avviso, il fatto di dimenticare i fondatori, o al contrario di rivolgersi a loro, è una questione di opportunità. Ci sono momenti per l’oblio, e momenti per la memoria. Ma, evidentemente, l’oblio non deve mai essere un vero oblio, soltanto un mettere tra parentesi; altrimenti la memoria, quando se ne ha bisogno, non potrebbe più essere ritrovata.

La comunità scientifica rischia attualmente di perdere il valore della tradizione scientifica? Se è così tale perdita è in qualche modo connessa alla poca chiarezza del vero significato di certezza scientifica, erroneamente intesa in base alle due opposte tendenze relativista e scientista?

Husserl, alla fine della sua vita, ha scritto un testo intitolato La Terra non si muove (titolo originale: Die Ur-Arche Erde Bewegt sich nicht) (1).  Dicendo ciò, Husserl non raccomandava un ritorno al sistema geocentrico di Tolomeo contro il sistema eliocentrico di Copernico. Voleva ricordare questo: per dire che la Terra è mobile attorno al Sole, occorre sapere cosa sia il movimento. E ognuno di noi, nato sulla Terra, elabora la nozione di movimento opponendo oggetti che si muovono rispetto a un riferimento assolutamente fisso, il suolo terrestre sotto i propri piedi. Di conseguenza, è perché tutti noi cominciamo col provare la Terra come fissa che possiamo comprendere che cosa è il movimento e dire un giorno che la Terra gira. Lo scientismo ha la tendenza a dimenticare questa solidarietà fondamentale della scienza col pensiero umano che la porta, e col cammino che questo pensiero deve percorrere per giungere alla scienza. Poiché dimentica le condizioni di possibilità della scienza, lo scientismo minaccia la perennità di questa scienza che crede di far trionfare. All’opposto, il relativismo consiste nel pensare che, poiché la scienza dipende sempre dall’esperienza di un soggetto o di una comunità di soggetti, le sue conclusioni restino sempre interamente relative a questa esperienza. È un errore di ragionamento: la singolarità di un cammino non vuol per nulla dire che questo cammino non possa condurre all’universale. Bisogna tenere senza sosta i due capi della corda. Da una parte la mira verso l’universale; dall’altra il fatto che questo aver di mira l’universale è sempre la mira di soggetti singolari, inseriti in una tradizione storica che ha contingenze e particolarità proprie.

Ritiene importante che nelle scuole si aiutino gli studenti a prendere coscienza della dimensione storica della scienza, in modo da evitare che cadano negli opposti eccessi dello scientismo e del relativismo?

È certamente importante dare agli allievi la coscienza della dimensione storica della scienza. D’altra parte non credo che sia saggio cominciare da qui. Un bambino è innanzitutto avido del sapere del suo tempo. Ed è necessario aver già imparato molte cose prima di interessarsi veramente al modo in cui queste cose sono state elaborate lungo i secoli. È bene stimolare questo interesse negli allievi, ma al momento opportuno. D’altronde, manca il tempo per rimettere sempre i saperi in una prospettiva storica. Secondo me, il buon compromesso non è quello di infarinare l’insieme degli studi scientifici con alcune considerazioni storiche, ma di sapere, su alcune questioni ben scelte, rompere l’apprendimento sistematico dei saperi con un’esplorazione del cammino grazie al quale le nozioni attuali si sono elaborate. Piuttosto che farlo spesso e superficialmente, è meglio farlo raramente e bene.

A cura di Nadia Correale (Dottoranda in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro presso l’Università di Bergamo) e Flora Crescini (Docente di Letteratura e Storia presso l’ITIS “Righi” di Corsico (Mi))

NOTE:

  1. Edmund Husserl, Umsturz der koperkanischenLehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation (ovvero: Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo). Questo manoscritto (caratterizzato dalla sigla D17) è stato edito per la prima volta nel 1940 negli Stati Uniti da Marvin Farber; si trova, con il titolo Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur, nel volume Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, ed. M. Farber, Cambridge Mass., 1940.

© Pubblicato sul n° 41 di Emmeciquadro

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