È vero che il libro della natura è scritto in caratteri matematici come sosteneva Galileo?
La prima parte dell’articolo analizza questa possibile corrispondenza fra la matematica e la realtà. La seconda è dedicata al rapporto tra ciò che «si scopre» e ciò che «si inventa» nella ricerca matematica.

Un’affermazione di Richard Feynman (1918-1988) riprende un ben noto giudizio di Galileo (1564-1642), cioè che non si può apprezzare la natura, percepire la sua più profonda bellezza, se non si comprende «il linguaggio con cui essa ci parla»: «To those who do not know mathematics, it is difficult to get across a real feeling as to the beauty, the deepest beauty, of nature. If you want to learn about nature, to appreciate nature, it is necessary to understand the language that she speaks in».
Tuttavia non possiamo interpretare la frase citata nel senso letterale, cioè che la natura «parli» all’uomo, si comunichi a lui in forme matematiche. Tale immagine è oggi non soltanto non-realistica, ma direi proprio infantile. Ma cosa ha scritto Galileo?
«Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche, attissime per tal lettura» [G. Galilei, Il Saggiatore].
Galileo afferma quindi che il libro della natura è scritto con «caratteri» matematici, ovvero che i fenomeni naturali hanno una «dimensione» matematica. Sembra la stessa cosa, ma non è così, come cercherò di spiegare in questa prima parte.



Uomo, natura, conoscenza critica

La natura non «ci parla», perché non è dotata di una propria soggettività che si comunica attraverso la scelta di un linguaggio particolare. La realtà naturale ha caratteristiche oggettive: è quello che chiamiamo abitualmente il «dato» dell’esperienza. Di tale realtà oggettiva l’uomo stesso fa parte, pur costituendo un livello speciale di essa: è quel livello della natura che ha coscienza di sé. L’uomo è consapevole di ciò che è, si rende conto del proprio agire e del proprio rapporto con ciò che lo circonda. Si pone quindi domande sul senso della realtà, sui nessi che legano aspetti differenti di essa. In altre parole, cerca di farsi una «ragione» del mondo che lo circonda. Cioè, cerca di farsene una rappresentazione razionale che sia ultimamente capace di cogliere i nessi tra tutti i fattori in gioco.
L’uomo ha sete di conoscenza: non si accontenta di registrare fatti, immagini o sensazioni, ma cerca di darsene una spiegazione. Questa ricerca dei «perché?» è detta «conoscenza critica» e si sviluppa come coscienza consapevole dell’esperienza del reale. L’uomo ha un formidabile strumento a propria disposizione in questa ricerca: la sua intelligenza.
«L’uomo è grande per la sua intelligenza, mediante la quale conosce se stesso, gli altri, il mondo e Dio» [Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al III Meeting per l’amicizia tra i popoli, Rimini, 29 agosto 1982].
La matematica fa parte del modo con cui l’uomo ha coscienza di ciò che lo circonda. Essa costituisce un aspetto della sua intelligenza, ovvero della sua capacità di leggere la realtà. Il numero 1033 è primo, sarà sempre primo, e lo è anche per gli extraterrestri. È una verità indipendente dall’uomo. Un triangolo o un qualunque poligono regolare hanno proprietà «oggettive», indipendenti dall’intelligenza che li esamina. Ma nello stesso tempo sia il numero, sia il poligono regolare non esistono in natura: sono il frutto di una «astrazione», cioè di un’operazione dell’intelligenza umana. La Matematica quindi ha una duplice natura: è una produzione totalmente umana, strumento umano del suo rendersi consapevole della natura, ma nello stesso tempo è assolutamente oggettiva, i suoi teoremi sono verità incontrovertibili e i suoi metodi razionali sono rigorosi, non modificabili dal soggetto che li usa.



Il domandare, motore dell’intelligenza umana

Se, da un lato, la conoscenza critica si sviluppa come coscienza consapevole dell’esperienza del reale, di ogni aspetto del reale, dall’altro «non si fa esperienza senza porre domande» [H.G. Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani, 1983].
Quindi, la conoscenza critica di una qualsiasi disciplina, matematica compresa, si può sviluppare solo se il soggetto pone domande su di essa. Ma quali domande? E per ottenere che cosa?
«Il domandare è il motore dell’intelligenza, è l’inevitabile portatore della questione della verità […] Il fatto stesso di domandare implica che, di principio, una qualche risposta sia possibile, altrimenti il domandare sarebbe un atto intrinsecamente insensato; ed essendo il domandare principio del sapere, conseguirebbe che tutto il sapere sarebbe un’impresa insensata. Il domandare umano implica una previa e costitutiva fiducia della ragione nell’intelligibilità della realtà […]. L’università – l’uso dell’intelligenza in qualche modo – nasce dalla fiducia nella capacità dell’uomo di leggere la realtà». [F. Botturi, Unità della persona e unità del sapere. Relazione al convegno Le nuove responsabilità dei docenti universitari di fronte al cambiamento, Napoli 19-20 Aprile 2008].
L’obiettivo di ogni domanda è ottenere una risposta, e ogni risposta è un pezzetto di verità. Ogni domanda, quindi, è inevitabilmente una domanda di verità. Possiamo porre ora la questione: da dove nascono le domande sulla matematica? Esattamente da dove nascono le domande sulla fisica, sulla storia, su tutto ciò che circonda l’uomo e che chiamiamo «realtà», comprese le domande ultime sull’esistenza dell’uomo. Nascono dal desiderio di conoscere la verità, ciò che dà senso alle cose. La ricerca della verità in matematica ha la stessa «molla» della ricerca della verità di sé, della verità di tutto. Cambia il metodo, non lo strumento, «perchè la ragione è la stessa; con tanti metodi per tanti oggetti, ma la stessa» [E. Rigotti, Conoscenza e significato, Mondadori, 2009].



Matematica e verità

Diversamente dalle altre scienze, la struttura del sapere matematico continua a essere costruita sulle stesse fondamenta gettate dai Greci e dagli Arabi. Nulla è mai stato buttato via nella sua storia (il comico Cevoli direbbe che «è come il maiale»). La matematica, più di ogni altra scienza, è portatrice della questione della verità, in quanto si fonda su due certezze: la prima, che la verità esiste, indipendentemente da chi la cerca; la seconda, che la verità è attingibile, cioè può essere svelata all’intelligenza umana, può essere riconosciuta e compresa.
È talmente sorprendente che una pura creazione della mente umana possa svelare i segreti della natura, che Albert Einstein (1879-1955) così descriveva a Maurice Solovine (1875-1958) il suo stupore: «Non ho mai trovato un’espressione migliore di “religioso” per questa fiducia nella natura razionale della realtà e della sua particolare accessibilità alla mente umana. Dove manca tale fiducia la scienza degenera in un processo senza ispirazione. Non importa se i preti ne traggono vantaggio, non esiste rimedio a ciò». [Lettres à Maurice Solovine, Parigi, Gauthier-Villars 1956, p. 102]. «Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall’uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado di ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che a priori non si è per nulla autorizzati ad attendersi. È questo il miracolo che vieppiù si rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze» [Einstein, Opere scelte, pp. 740-41].
Questa fiducia «religiosa» nella capacità di leggere la realtà è stata ribadita recentemente anche dal Papa: «La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’Universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra» [Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno della Chiesa Italiana, Verona, 19.10.2006].
Per la mirabile corrispondenza tra le sue strutture (creazioni dell’intelligenza) e le strutture della realtà naturale, possiamo dire con Galileo che il libro della natura «è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto» e «non può esser da tutti letto»: ma per fortuna è scritto con caratteri matematici, quindi è intelligibile. Se non ci fosse questa fiducia nell’esistenza della verità, che dà un senso della realtà, e nella capacità umana di comprendere tale senso, se non esistesse questa facoltà umana di costruire strutture (i modelli matematici) capaci di rappresentare il reale in modo efficace (cioè ultimamente capace di cogliere i nessi tra tutti i fattori in gioco), allora non esisterebbe la ricerca scientifica: tutto sarebbe dominato dalla pura casualità e/o dal puro utilitarismo.

Mirabili teoremi e stringenti dimostrazioni, ovvero «regole e libertà»

«La matematica si scopre o si inventa?» chiesero un giorno al più noto matematico italiano del secondo Novecento, Ennio De Giorgi (1928-1996). Egli rispose così: le affermazioni della matematica (Teoremi, Lemmi, Corollari, eccetera) si possono solamente scoprire, in quanto sono verità immutabili (le «regole»), ma le dimostrazioni di tali affermazioni, invece, sono un’invenzione della libertà umana, una scelta del cammino per giungere dall’ipotesi alla tesi (per il teorema di Pitagora, per esempio, esistono molte dimostrazioni diverse: il sito http://www.cut-the-knot.org/pythagoras/index.shtml, ne riporta ben 69!).
Potremmo dire che la verità matematica «esiste ed è unica», ma non esiste un unico sentiero per giungere ad essa. Esistono percorsi personali, che da un lato sono «oggettivi» (perchè costruiti con regole rigorose) e dall’altro sono «soggettivi», cioè da inventare. Ognuno può trovare il suo cammino per giungere alla tesi, pur nel rispetto delle regole, e potrebbe essere un cammino «nuovo», mai percorso da altri. Percorrere un sentiero già tracciato seguendo una guida, può essere utile nell’apprendimento del metodo, ma non è «fare esperienza» della matematica. Per fare esperienza occorre mettere in gioco la propria libertà assumendo il ruolo del protagonista, cioè «immedesimandosi con il matematico».

 

L’esperienza della dimostrazione

 

La certezza, in matematica, si basa sul metodo di indagine e di ragionamento: appropriarsi di esso consente allo studente (se sollecitato in tal senso) di sviluppare propri ragionamenti e non ripetere ragionamenti di altri. Cioè, consente di fare esperienza del «fare matematico». L’esperienza della dimostrazione in matematica è questo «cammino al vero», che si produce nella costante dialettica tra regole del gioco e libertà personale. Vivere, anche solo una volta, questa esperienza rende lo studente fiducioso nelle proprie capacità di apprendere la matematica. Chi dice «tanto io di matematica non capisco niente» lo dice (nove volte su dieci) solo perché non ha provato a fare questa esperienza, ma avrebbe tutte le capacità razionali per «capire la matematica».
Nella deprimente esperienza scolastica della matematica, vissuta come insieme di formule ed esercizi noiosi, c’è almeno una mirabile eccezione: lo studio della geometria euclidea, in particolare dei teoremi di Pitagora, Euclide e Talete, e dei criteri di uguaglianza e similitudine tra triangoli. Attraverso la trilogia «ipotesi-tesi-argomentazione» è possibile fare esperienza della matematica e in particolare della dialettica tra regole e libertà. In geometria, una dimostrazione si «deve vedere» prima ancora di cominciare a scrivere i passaggi. Come in un cammino, si deve «vedere» la meta per orientare i propri passi. E si deve anche desiderare di giungere a quella meta, come in un’escursione in montagna. Ne segue che il desiderio, l’intuizione, l’allenamento dell’occhio (della ragione) è tanto importante quanto la conoscenza delle regole: la soggettività è importante quanto l’oggettività. Le regole da sole non bastano.
In matematica il genio è colui che «prima» intuisce la verità di un certo enunciato e «poi» ne inventa la dimostrazione. Magari in un primo momento la dimostrazione funziona solo in un caso particolare, poi viene estesa al caso più generale. Pare che anche Pitagora sia pervenuto così al teorema che porta il suo nome. E questo è un buon modo di procedere anche dal punto di vista didattico, come si vede nell’immagine a lato.
Il cammino della dimostrazione è spesso un percorso complesso e contorto. «D’altra parte, il modo con cui la matematica viene proposta nelle scuole, come disciplina puramente logico-deduttiva, spesso ridotta a un ammasso informe di tecniche di calcolo senza alcun riferimento storico-culturale, non è certo invitante per la maggior parte gli studenti. L’idea storicamente radicata che la matematica non sia niente altro che la massima espressione del pensiero razionale risulta quanto mai deleteria, oltre che discutibile (per dirla con Poincaré, «è attraverso la logica che noi dimostriamo, ma è attraverso l’intuizione che inventiamo»). Per fortuna il sogno di Hilbert di meccanizzare la matematica si è rivelato un’illusione, altrimenti oggi si occuperebbero di matematica solo i computer. Un risultato matematico è molto di più che non la semplice conseguenza di una catena di deduzioni logiche, per quanto mirabile possa essere. Il percorso che porta al suo conseguimento non è mai lineare: ci sono intuizioni, errori, aggiustamenti, risultati intermedi. La vicenda della congettura di Poincaré, a partire dagli stessi lavori iniziali di Poincaré, é significativa da questo punto di vista» [R. Piergallini, Da Poincaré a Perelman: Un secolo di ordinaria matematica, Università di Camerino]. Oggi, il predominio della componente algebrica su quella geometrica è la principale causa della terribile noia della matematica nei curricula scolastici. E ciò è dovuto anche all’avvento del computer, che «mastica» il linguaggio algebrico e non quello geometrico. Il computer non ha sete di conoscenza e quindi non si annoia, ma l’uomo sì.

 

Regole e libertà

Troppo spesso, in gran parte per colpa di come viene insegnata, la matematica è identificata con un insieme di formule e regole «costringenti», applicate senza fantasia, attraverso aridi calcoli numerici, operazioni obbligate, sillogismi cavillosi e passaggi da mandare a memoria. Viene pensata, cioè, come un luogo in cui la libertà personale non ha cittadinanza, anzi deve auto-sospendersi per non «alterare» l’oggettività della formula. Se così fosse veramente non ci potrebbe essere che un modo meccanico di impararla e ogni coscienza critica sarebbe impossibile. Né sarebbe possibile fare alcuna «esperienza» della matematica, perché sarebbe impossibile esprimere un giudizio sul «fare» matematico. La conoscenza critica richiede l’esercizio della libertà, e la libertà può essere esercitata solo da un soggetto. Per fortuna non è così. La matematica evidenzia in modo paradigmatico come la ragione umana stia di fronte alla realtà in una perenne sfida tra «regola» e «libertà». In particolare laddove emerge la sua dimensione non intuitiva (come nei problemi sull’infinto) è per molti aspetti una scienza «paradossale» (nel senso letterale del termine, dal greco parà-doxon). Paradossale, infatti, non significa assurdo, irragionevole, ma indica qualcosa di ragionevole che però si colloca oltre l’orizzonte del senso comune. Qualcosa che stimola la libertà della ragione ad andare oltre la regola.

 

Oltre la regola: l’insostenibile densità del continuo

 

Vorrei dare qui un esempio di come la matematica spinga il pensiero umano oltre il «buon senso» comune quando deve trattare insiemi con infiniti elementi.
Consideriamo un quadrato ABCD il cui lato AB è un segmento unitario (vedi immagine a lato). Il quadrato può essere visto come l’unione di infiniti segmenti (XX’, YY’, ZZ’, …) congruenti ad AB, quindi, come si vede nell’immagine a lato, ciascuno di essi possiede un punto (PX, PY, PZ ,…) in corrispondenza biunivoca a un fissato punto S su AB. Questa è la «regola» che vede il «buon senso» geometrico: «ci sono molti più punti nel quadrato che nel suo lato».

 

L’insieme dei numeri reali R è un insieme numerico completo, cioè «senza buchi». Come è ben noto, tale proprietà consente di rappresentare ogni punto S di un segmento di lunghezza unitaria mediante un numero reale xS dell’intervallo [0,1]. Allo stesso modo, ogni punto P di un quadrato di lato unitario può essere rappresentato dalla coppia (x,y). Se ognuno di questi numeri reali viene identificato con la sua rappresentazione decimale, allora è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra i punti S del segmento e i punti P del quadrato nel modo seguente (vedi esempio nell’immagine seguente)

X = 0,x1 x2 x3 x4 x5 x6 ………..    y = 0,y1 y2 y3 y4 y5 y6 ………
xS = 0,x1 y1 x2 y2 x3 y3 x4 y4 x5 y5 x6 y6 ……

 

In questo modo possiamo mettere tutti i punti del quadrato «dentro» al segmento [0,1]. Quindi il segmento unitario è come la borsa di Mary Poppins: riesce a contenere insiemi molto più grandi di lui.

 

Questo ci insegna a guardare agli insiemi infiniti in modo diverso rispetto a quelli finiti, cioè a considerare che per essi la parte può essere «grande» come il tutto. Per allargare la nostra intelligenza fino a poter lavorare anche con insiemi infiniti, dobbiamo quindi accettare che questa violazione del «buon senso» diventi la nuova regola, la definizione stessa di insieme infinito. Non è un caso che proprio Georg Cantor (1845-1918), il padre della prima definizione rigorosa di «insieme infinito», abbia detto: «L’essenza della matematica è la sua libertà».

 

 

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Claudio Giorgi
(Docente di Meccanica Razionale all’Universita’ Statale di Brescia)

 

 

© Pubblicato sul n° 42 di Emmeciquadro

 

 


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