Il Ricercatore, l’Uomo e l’Amico

L’Uomo, lo Scienziato

L’educazione dei giovani 

 


Il Ricercatore, l’Uomo e l’Amico
di Giovanni Maria Prosperi
(Università degli Studi di Milano)

Carlo Felice Manara ci ha lasciato lo scorso maggio. Nato a Novara il 31 marzo 1916, si era laureato in Matematica all’Università di Milano nel 1939 con Oscar Chisini, sotto la cui guida aveva iniziato la sua carriera scientifica, inserendosi così nella scuola di Geometria fondata da Federico Enriques. Nel 1951 era già professore straordinario presso l’Università di Modena, dove restava fino al 1956. Dopo alcuni anni ancora presso l’Università di Pavia, approdava di nuovo all’Università di Milano, dove restava fino all’andata a riposo nel 1991 e alla nomina a Professore Emerito.
Dal punto di vista della ricerca scientifica strettamente disciplinare, il periodo più intenso della sua attività è stato quello dal 1946 al 1954, durante il quale ha portato importanti contributi prima nell’ambito della Geometria Algebrica sulle curve di diramazione dei piani multipli e sulle corrispondenti ipersuperfici degli spazi tripli e poi in quello della Geometria Differenziale sulle trasformazioni puntuali regolari. Di grande importanza sono stati però, successivamente, i suoi contributi sulla didattica della Matematica, l’impegno per la creazione di una scuola di Economia Matematica e le sue riflessioni di carattere epistemologico sulla Matematica, ma anche più in generale sulle Scienze della Natura. Sono stati particolarmente significativi a riguardo i corsi tenuti presso la Facoltà di Scienze Politiche di Milano e la Facoltà di Scienze di Brescia dell’Università Cattolica, di rilievo anche il titolo di Dottore honoris causa in Filosofia, conferitogli dalla stessa Università nel 1987.
È proprio in conseguenza di questa apertura di orizzonti che egli ha lasciato numerosi allievi, anche al di fuori dello stretto ambito della sua disciplina, ed è a questi allievi che, dopo i doverosi brevi cenni precedenti, lascio un’illustrazione più puntuale della sua produzione scientifica. Io voglio invece ricordare l’uomo, il collega, il maestro, attraverso soprattutto le molte occasioni di incontro avute con lui. Ci trovammo insieme in diverse occasioni a lavorare per la scuola, a riflettere su problemi di epistemologia, come all’interno dell’Istituto Lombardo o dell’Academie de Philosophie des Sciences, di cui entrambi facevamo parte. Ci trovammo a discutere sui problemi di rapporto tra la Scienza e la Fede, come quelli che si dibattevano negli incontri di un gruppo di colleghi promosso da Giovanni Prodi.
Cominciai ad avere rapporti non superficiali con lui quando, nell’anno 1967-68, fui richiamato a Milano, dopo due anni trascorsi presso l’Università di Bari, dove in seguito a concorso ero stato nominato professore straordinario di Istituzioni di Fisica Teorica. Me lo ritrovai come Preside della Facoltà di Scienze, proprio nel momento in cui esplodeva la contestazione studentesca. Non posso non ricordare il fine senso dell’umorismo e anche una certa flessibilità formale con cui sapeva rapportarsi con la situazione e nello stesso tempo la fermezza e la determinazione che gli erano proprie quando si trattava di non cedere su questioni fondamentali o anche solo di principio. Ricordo di una volta che aveva convocato il Consiglio di Facoltà (che allora si riuniva in via Festa del Perdono, nella sede centrale dell’Università) per dare tra l’altro risposta ad alcune richieste degli studenti. La documentazione necessaria per la riunione era però rinchiusa nel suo studio al piano rialzato dell’edifico di via Saldini 50, formalmente «occupato dagli studenti». Non c’è dubbio che il picchetto che presidiava l’ingresso non gli avrebbe negato l’accesso, visto l’interesse degli stessi «studenti» ad avere quelle risposte. Il «professor Manara» non riteneva però di doversi piegare a chiedere il permesso di raggiungere il suo studio a persone che illegittimamente ne precludevano il libero accesso. Per questo non esitò, per eludere il loro controllo, a scavalcare una finestra rimasta provvidenzialmente aperta, ricuperando ugualmente i suoi documenti e lasciando un po’ sbigottiti i capi della contestazione, quando videro che il Consiglio poteva regolarmente riunirsi senza il loro degnato consenso.
Molto interessanti furono per me, come ho detto, le diverse occasioni in cui ci trovammo a fianco in interventi a favore di insegnanti dei vari livelli di scuola. Ricordo in particolare una volta, quando il discorso scivolò sul metodo e il valore delle scienze sperimentali. I nostri punti di vista, lui matematico, io fisico, si rivelarono in sorprendente sintonia, circostanza che egli non mancò di sottolineare con l’uditorio: «vedete …, non c’eravamo messi d’accordo». Ricordo anche i numerosi discorsi che facevamo tra noi nell’attesa dell’ora degli incontri o nei brevi trasferimenti in macchina per raggiungerne le sedi. Io ne approfittavo per interrogarlo sulle sue idee sui fondamenti della Matematica. Mi colpì molto una volta una sua osservazione sulla teoria dei numeri reali che dà un’idea dell’ampiezza e della coerenza del suo angolo visuale, non ristretto ai tecnicismi disciplinari. Mi fece notare che il concetto di numero reale presuppone necessariamente il concetto di infinito attuale, non sempre riconosciuto dai filosofi.
Altra importante occasione di confronto con lui fu la frequenza del citato gruppo che, in realtà, affrontava molteplici temi di rapporto della Scienza con la Teologia, ma anche della Scienza con la Filosofia o delle varie scienze tra di loro. Il gruppo, che esiste tuttora a più di trent’anni e di cui ho io stesso ereditato il coordinamento, era organizzato da Giovanni Prodi, ordinario di Analisi Matematica presso l’Università di Pisa, e si riuniva allora in una casa religiosa ad Arliano presso Lucca. Durante gli incontri e anche i viaggi, questa volta molto più lunghi, che a volte abbiamo fatto insieme, ho avuto occasione di apprezzare la solidità della sua posizione religiosa e, allo stesso tempo, l’assoluta libertà con cui non esitava, quando credeva, a esercitare il suo spirito critico su certi atteggiamenti del clero e anche della gerarchia. Era critico in particolare sull’eccessivo conformismo che allora esisteva verso certe posizioni filosofiche tradizionali di tipo scolastico, recepite a volte in modo del tutto passivo, senza un reale sforzo di adeguarsi agli sviluppi per esempio della scienza moderna. L’esperienza, purtroppo, non durò quanto avrei desiderato, perché col suo carattere un po’ ermetico e a volte lievemente scorbutico si trovò per qualche ragione in disaccordo con il modo con cui Giovanni Prodi conduceva il gruppo e cessò di frequentarlo prima che l’età glielo richiedesse.
Altre occasioni feconde di incontro furono comunque la comune partecipazione al comitato editoriale di Nuova Secondaria, la rivista per gli insegnanti della scuola secondaria, edita da «La Scuola» di Brescia e diretta da Evandro Agazzi, e quella al comitato scientifico dell’Istituto “Sacro Cuore”, appena fuori dalla tangenziale est di Milano. Fu quest’ultima un’esperienza molto ricca e particolare, anche per la sua lunghezza. La scuola, originariamente solo femminile e tenuta da una congregazione di suore, era stata acquisita da una Fondazione vicina a Comunione e Liberazione che voleva aprirla anche ai maschi e completamente riorganizzarla. Accanto al tradizionale Liceo Artistico, si voleva istituire tra l’altro un Liceo Scientifico e si trattava di reimpostare tutto l’insegnamento della Matematica e delle discipline scientifiche secondo criteri moderni. Si voleva introdurre quest’ultimo sin dai primi due anni e tentarne un coordinamento con quello della Filosofia. A quegli incontri partecipavano tra gli altri per la Matematica e per la Fisica due delle insegnanti che dovevano poi esser chiamate a mettere quelle idee in pratica, una delle figlie dello stesso Manara, Raffaella, l’altra Maria Elisa Guzzi, moglie di un caro collega di Fisica. Fu certamente merito della loro bravura se l’esperimento ebbe, come mi pare, un grosso successo. Ma è notevole che attraverso la partecipazione di insegnanti di altre scuole le idee elaborate in quella occasione ebbero importanti ricadute anche all’esterno. Per quel che mi riguarda io tentai di trasferirle, anche se non con grande successo, in incontri di commissioni ministeriali sulla riforma della scuola a cui fui chiamato a partecipare. Ho avuto per esempio l’occasione di essere insieme ad altri colleghi universitari e a due ispettori ministeriali nella commissione di studio per l’insegnamento della Fisica nel corso sperimentale detto Piano Nazionale dell’Informatica. Sebbene dopo una fase iniziale il nostro lavoro di riflessione, giudicato troppo lento sia stato interrotto e i programmi definiti in gran fretta senza la componente universitaria e in maniera non del tutto conforme alle idee originarie, mi resta la soddisfazione che quel piano sia stato la base per le più riuscite sperimentazioni condotte successivamente in Italia in quel campo.
Con l’età e il crescere delle difficoltà (Carlo Felice aveva quindici anni più di me) le occasioni di lavoro comune tra noi si diradarono. L’ultima volta credo di averlo incontrato a Roma nella casa di una congregazione di laiche consacrate argentine dette Servidoras, specificamente votate all’educazione dei giovani e all’evangelizzazione della cultura. Si trattava di organizzare uno di una serie di convegni su argomenti diversi di Epistemologia de las Ciencias che si tengono ogni anno in una bella residenza, in piena campagna, nella pampa argentina, e a cui da lungo tempo partecipavo. Il tema quell’anno doveva coinvolgere la Matematica in modo speciale, e speravamo di poter avere per una volta anche lui con la sua acutezza e la sua sensibilità filosofica. Venne accompagnato dalla moglie che era già molto malferma in salute e che lui non voleva mai lasciare sola. Come sempre i suoi interventi colpirono tutti moltissimo per la loro lucidità e la profondità delle tesi. Proprio il peggiorare delle condizioni della signora non resero però il progetto possibile. Resta in me la memoria di quell’ultima occasione che, come altre, è stato per me un momento importante di orientamento e di formazione.



 

L’uomo, lo Scienziato
di Mario Marchi
(Università Cattolica di Brescia)

Carlo Felice Manara, dal 1991 Professore Emerito di Geometria nella Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali. dell’Università degli Studi di Milano, Dottore honoris causa in Filosofia (laurea conferita dalla Università Cattolica di Milano nel 1987 ) è stato studioso e maestro di vasti e molteplici interessi culturali e umani e dalle profonde e acutissime capacità di ricercatore e di scienziato. Ne è testimonianza la bibliografia dei suoi scritti che conta più di trecento voci (senza contare i numerosi libri di testo da Lui preparati e poi utilizzati da varie generazioni di studenti universitari). Il suo nome è strettamente legato alla Scuola di Geometria di Milano che, si può dire, vede in Federigo Enriques il suo capostipite. Manara infatti, laureatosi a Milano nel 1939 con Oscar Chisini e avendo iniziato sotto la sua guida la propria carriera scientifica, ha fatto parte di quella grande Scuola di Geometria italiana di cui appunto Federigo Enriques, maestro di Chisini, è stato eminente esponente.
Con Chisini, Manara ha iniziato, e poi sviluppato, la sua personalità di scienziato e di studioso, profondo e brillante, e ha formato anche il suo stile intellettuale, acuto e dai vasti e molteplici interessi, venato a volte anche da una sottile ironia, dotato di un vivo gusto per il paradosso, capace di un profondo senso dell’umorismo e di una non comune capacità di auto-critica.
La Sua produzione scientifica si è rivolta in un primo tempo all‘ambito della geometria algebrica. In tale campo Egli si dedicò allo studio delle curve di diramazione dei piani multipli e particolarmente dei piani tripli, tema in cui confluivano e si intrecciavano questioni sottili di geometria, di algebra e di topologia. Erano gli anni in cui la scuola italiana di geometria algebrica, e particolarmente quella di Chisini a Milano, raggiungeva risultati di una grande profondità rispetto agli strumenti tecnici allora disponibili, quando ancora non era nata la topologia differenziale. Sulle curve di diramazione dei piani tripli, e più in generale sulle ipersuperfici di diramazione degli spazi tripli, Manara ottenne, negli anni tra il 1946 e il 1951, risultati di carattere altamente avanzato, alcuni dei quali attendono ancora di essere analizzati in termini moderni. Di notevole rilievo anche i risultati che, dal 1950 al 1954, ottenne nell’ambito della geometria differenziale, in particolare quelli concernenti le trasformazioni puntuali regolari del piano e la loro approssimazione con trasformazioni cremoniane, quelli sulla caratterizzazione integrale di certe superfici immerse in varietà riemanniane e quelli riguardanti gli invarianti proiettivi differenziali dello spazio.
La collaborazione con Siro Lombardini, iniziata nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, condusse Manara a occuparsi sempre più attivamente delle applicazioni della Matematica alle Scienze economiche. Anche in tale campo Egli fu fecondo di idee e di contributi sia nell’ambito metodologico che in quello scientifico, specialmente per quanto riguarda i suoi scritti sul modello di Sraffa per la produzione congiunta di merci a mezzo di merci, sulla rappresentazione delle preferenze del consumatore attraverso una funzione indice di utilità e su aspetti delicati delle dimostrazioni matematiche concernenti l’esistenza di soluzioni nei modelli di equilibrio generale. La riflessione sulla natura psicologica, sulle radici storiche ed epistemologiche del pensiero matematico nonché sulle sue procedure conoscitive, ha sempre costituito un importante campo di indagine per Manara, seguendo in questo una tradizione già tracciata da grandi matematici come lo stesso Enriques, Giuseppe Peano e tantissimi altri illustri studiosi. L’analisi delle procedure mentali legate alla nascita e allo sviluppo del pensiero matematico Lo ha portato poi, in modo naturale, ad essere al fianco di quanti, non solo coltivano la matematica come una propria ricchezza intellettuale personale, ma anche sono impegnati nel comunicarla agli altri, in particolare alle giovani generazioni. In questo senso Egli è stato veramente un maestro e una guida per diverse generazioni di insegnanti di ogni ordine scolastico. In questa sua attività ha collaborato per anni con il Periodico di Matematiche (attualmente organo ufficiale della Mathesis), di cui è stato anche Direttore con Modesto Dedò. Inoltre ha collaborato a lungo con il Centro di Ricerche didattiche “Ugo Morin” di Paderno del Grappa, ha fatto parte del Comitato Direttivo della rivista per insegnanti Nuova Secondaria, ha contribuito con numerosi interventi a questa rivista Emmeciquadro ed è stato membro del Consiglio Direttivo dell’IRRSAE Lombardia.
Nell’ambito delle indagini e degli scritti di Manara, un capitolo a sé riguarda gli studi e le ricerche finalizzate a individuare la natura e le proprietà del discorso matematico nell’ambito della scienza e in quello più generale della conoscenza. In questo contesto è stato analizzato il ruolo svolto dalla matematica nelle procedure conoscitive dette di «matematizzazione della realtà» ed è stata anche messa in evidenza quella natura di «linguaggio» che la matematica possiede e che la caratterizza, rendendola effettivo «linguaggio della scienza».
In tutta la bibliografia appaiono infine interventi su diverse questioni vitali e attuali del momento, che riguardano la vita dell’Università, del mondo della cultura e anche della Fede, di cui ha saputo essere autentico testimone.
Carlo Felice Manara è stato un vero maestro che ha insegnato a quanti gli stavano vicino, prima di tutto la matematica e poi a guardare la vita, con acutezza critica ma anche con ammirazione profonda, comunicando, a chi la voleva accettare, la capacità di interrogarla sul suo significato profondo. Tutti i suoi allievi, i suoi amici, e chi in particolare ha avuto l’onore di collaborare con Lui per molti anni, lo ricordano con profonda ammirazione e gratitudine.



 

 

L’educazione dei giovani
di Adriana Davoli
(MA.P.ES (Matematica Pensiero Esperienza) – Milano)

«La bellezza salverà il mondo», scriveva Dostoevskij; questa affermazione mi viene in mente ricordando i suggerimenti di Carlo Felice Manara per introdurre i giovani alla matematica. Per esempio, soleva sottolineare che la bellezza di oggetti geometrici presentati in modo accurato poteva affascinare, mobilitare l’interesse e la curiosità, inducendo a desiderare di costruirli o di studiarli. Questa particolare attenzione alla efficacia del «bello», mi aveva molto colpito; a proposito della matematica non è consueto trovare associata la bellezza, come ingrediente facilitante. Manara aveva fatto costruire da un artigiano appassionato i cinque solidi platonici (tetraedro, ottaedro, icosaedro, cubo, dodecaedro) in legno, di grande formato, a colori per guidare la ricerca delle regolarità. Sorprendentemente i bambini restavano affascinati. Ricordo la volta in cui un insegnante di sostegno li ha portati a un allievo di prima media con gravi difficoltà di apprendimento. Davanti a quei solidi il ragazzino si è entusiasmato e, uscito da una immobilità che sembrava irrimediabile, si è lasciato coinvolgere e ha scelto di costruire un modello di icosaedro regolare. Proprio questo Manara desiderava per i bambini e i giovani: che fossero impegnati con la vita reale, poiché così si sarebbero sviluppate tutte le loro potenzialità, qualunque fosse il livello di partenza, liberati dall’ansia di un traguardo da raggiungere. Ciò che importa è che l’allievo faccia un passo personale e autonomo. Secondo il pensiero di Manara nell’insegnamento della matematica si possono distinguere almeno due livelli: a un primo livello metteva la necessità di fornire agli scolari alcune conoscenze elementari, indispensabili per la vita di relazione. A un secondo, e superiore, livello a cui dava la massima importanza, indicava l’obiettivo di formare mentalmente e interiormente alla razionalità del comportamento. Sinteticamente, «educare alla matematica, educare con la matematica», questo era il suo motto.
Con l’espressione «educare alla matematica» viene sottolineata la necessità che i discenti comprendano le idee fondamentali e riescano a raggiungere quella appropriazione dei concetti che sta alla base della comprensione e della organicità delle conoscenze. Questa impostazione si intende anche per un primo livello elementare.
E con l’espressione «educare con la matematica» viene messa in luce la possibilità che proprio attraverso l’insegnamento di questa disciplina si possa suscitare una capacità di giudizio personale, guidato soprattutto dall’aderenza alla realtà. Per questo Manara sosteneva l’importanza di avviare fin dal primo livello scolare alla progettualità, mettendo a contatto gli allievi con i problemi che si presentano nella concretezza della vita quotidiana. Ricordo come aveva apprezzato e valorizzato un lavoro di falegnameria proposto a un giovane di diciassette anni con notevoli difficoltà di apprendimento, all’interno di un corso propedeutico al lavoro. Al giovane era stato dato il compito di costruire una sedia, utilizzando alcuni pezzi di legno già predisposti. La responsabilità della costruzione, l’impresa della progettazione, il gusto del fare modificano nei ragazzi, con o senza handicap, il loro modo di essere, recuperando un comportamento razionale, adeguato alle diverse circostanze. È la realtà stessa che costringe a verificare la validità dei passaggi, a dare un ordine razionale alle azioni, a precisare il linguaggio, poiché occorre chiamare la cose con il loro nome. Questo è il dato educativo importante, poiché resta una capacità che diverrà caratteristica interiore del soggetto.
Il grande interesse per l’educazione aveva portato Manara ad aprire varie attività su più fronti, tra i quali quello della scuola primaria, e anche quello dell’insegnamento della matematica a soggetti con specifiche difficoltà di apprendimento. L’attività di ricerca nell’ambito della didattica della matematica si era sviluppata in una molteplicità di collaborazioni e di incontri con singoli insegnanti, con scuole, enti e istituzioni. In particolare a riguardo dei soggetti con difficoltà specifiche nell’apprendimento, aveva la preoccupazione che l’insegnamento della matematica non diventasse per loro una sorta di tortura, dovuta a un addestramento ad apprendere a tappe forzate nozioni fuori del loro interesse e della loro portata, e perciò inutili e antieducative. Invece sosteneva che la matematica deve avere la funzione di educare e rendere razionale il comportamento a partire dalle attività quotidiane. Ironicamente soleva affermare che desiderava fondare una Società per la Difesa dei Bambini per liberarli dalle imposizioni della scuola, quando impone programmi troppo pieni o troppo distanti dall’esperienza quotidiana.
In questo ordine di idee, metteva in guardia verso i metodi troppo astratti (come l’insiemistica, così diffusa in quel periodo), o metodi che implicano un addestramento privo di senso per gli allievi; sconsigliava strumenti o artifizi didattici troppo ingombranti, che fossero fuori dalla vita concreta dei soggetti, oppure strumenti che fossero troppo affascinanti, poiché potevano distogliere l’attenzione da ciò che è veramente essenziale e quindi rendere difficoltosa la formazione di concetti astratti e bloccare la fantasia e l’immaginazione che sono apripista per la successiva attivazione della capacità simbolica.
Ai fini educativi Manara attribuiva la massima importanza allo studio della geometria, che riteneva troppo trascurata nella scuola italiana. Secondo i suoi consigli, sarebbe meglio iniziare dallo studio della geometria, poiché consente di prescindere dalle difficoltà del simbolismo astratto dell’aritmetica, di ridurre al minimo il linguaggio tecnico e di potenziare l’uso del linguaggio comune per rappresentare e rendere consapevoli i passi compiuti. Inoltre, per esempio, la costruzione di un modello tridimensionale consente di manipolare e di rigirare tra le mani un oggetto e perciò di fare agevolmente delle verifiche. E qui ricompare l’attenzione all’esperienza, alla concretezza e alla necessità di coinvolgere gli allievi in una personale impresa.
La strada maestra dell’insegnamento diventa così una grande opportunità di recuperare la persona alla consapevolezza di essere dotata di razionalità e quindi di essere in grado di ottenere conclusioni valide, favorendo una condizione di positiva percezione di sé, indispensabile per riprovare un nuovo approccio al simbolismo e all’astrazione dell’aritmetica.
Ricordo con piacere tutti gli autori che ci aveva additato e fatto incontrare, invitandone alcuni al Dipartimento di Matematica dell’Università di Milano (per esempio Gérard Vergnaud, Stella Baruk) o segnalando letture interessanti. Molto fruttuoso in particolare è stato il suo impegno per la traduzione dall’inglese del testo di Hans Freudenthal, Ripensando l’educazione matematica, a cui aveva preposto una corposa prefazione. Molte sono le lezioni di Manara e i dialoghi e le conversazioni avute con le insegnanti della scuola primaria, che abbiamo registrate e raccolte negli anni. Una traccia importante della sua impostazione culturale a riguardo del significato e dell’utilità dell’insegnamento della matematica per l’educazione dei giovani, a partire dal primo livello scolare, si può rintracciare in tutti i suoi scritti.



 

 

© Pubblicato sul n° 42 di Emmeciquadro

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