Secord, Carroll, Jones, Seabright, Dupré
Darwin. L’eredità del primo scienziato globale
Zanichelli – Bologna 2011
Pagine 192 – Euro 10,50
Lo scorso ottobre è stato pubblicato il volume intitolato Darwin. L’eredità del primo scienziato globale scritto da cinque studiosi di ambiti culturali differenti che affrontano con chiavi di lettura personali l’attualità del pensiero di Darwin alla luce del ruolo che comporta lo studio e l’analisi genetica degli organismi, consapevoli che affrontare i meccanismi ereditari in chiave genomica può dare un nuovo volto al darwinismo.
Il testo fa il punto sul pensiero di Darwin e la sua eredità a duecento anni dalla nascita dello scienziato inglese. Si tratta di alcuni importanti contributi raccolti in occasione delle conferenze che il Darwin College di Cambridge organizza da ventiquattro anni invitando diversi interpreti del pensiero evoluzionistico come James Secord che dirige il Darwin Correspondence Project, il biologo molecolare Sean B. Carroll, il genetista Steve Jones che ha vinto il premio Faraday per la divulgazione scientifica, l’economista Paul Seabright che studia la competizione economica nelle società umane e il filosofo John Dupré che dirige il Centre for Genomics in Society dell’Economic and Social Research Council in Inghilterra.
Ognuno di questi studiosi si presta a rispondere alla motivazione che nasce quando ci si chiede perché ancora oggi il pensiero di Darwin è così importante e così discusso. Inoltre vengono discussi i meccanismi di tipo ereditario che emergono dagli studi post-genomici a causa dell’impatto che hanno tuttora sull’evoluzione del pensiero darwiniano.
James Secord mostra come Darwin è giunto gradualmente a formulare la sua teoria evolutiva attraverso un lavoro di selezione di ipotesi, osservazioni e teorie raccolte in ogni dove, dando alla fine legittimità a una teoria emergente che rivoluzionò profondamente il modo di interpretare il mondo naturale.
Quello che riesce ancora a stupire chi si occupa di questa teoria è la difficoltà con cui la «lettura» dei risultati della ricerca darwiniana riesca a incidere nella storia della scienza. Il cosiddetto darwinismo viene infatti trattato in modo diverso a causa delle diverse chiavi di lettura dei suoi interpreti. In effetti il ruolo giocato da L’origine della specie è centrale nel progresso scientifico perché ha generato un intersecarsi di comunicazioni tra livelli culturali eterogenei – oggi si parlerebbe di terza cultura – e quindi sviluppando una globalizzazione della sua lettura. Resta, secondo il nostro autore, la difficoltà a leggere gli scritti più marcatamente connessi a temi teologici da cui sembra emergere la fede in un «Creatore della materia» anche se con il passo successivo sembra contraddirsi spiegando che invece di creazione avrebbe voluto usare il termine apparizione.
Ma tant’è che questi dilemmi non possono portare alla visione di un Darwin come pensatore puramente materialista, come oggi viene descritto da alcuni autori come Daniel Dennett e Richard Dawkins. Darwin, con il suo immenso lavoro, vuole, anche, porre nuove domande che, rispetto ad allora, hanno consentito di compiere un’ulteriore «rivoluzione» favorendo l’utilizzo della tecnica di indagine delle sequenze geniche delle specie. Ed è in quest’ambito che Sean Carroll esamina come lo studio di sequenze ridondanti appartenenti a forme di vita estinte permetta di ripercorrere la storia evolutiva.
Secondo il nostro autore «il ripetersi dell’evoluzione dimostra che circostanze selettive simili favoriscano variazioni genetiche simili in specie diverse, in momenti diversi e in diverse regioni del mondo». Oggi questo lo possiamo capire perché siamo in grado di identificare quelle variazioni genetiche che favoriscono l’adattamento a condizioni differenti. Inoltre possiamo anche fare previsioni su basi genetiche delle «variazioni evolutive di alcune caratteristiche degli esseri viventi».
Una nuova età dell’oro nella ricerca? Forse solo un viaggio entusiasmante, ma se è così allora riusciremo a rispondere alla domanda che ci pone nel terzo capitolo Steve Jones in relazione alla evoluzione della specie umana? L’umanità potrà ancora fare progressi, principalmente per quanto concerne l’uso del cervello benché, ai fini evolutivi, risulta centrale il ruolo della collaborazione, e non solo quello della competizione. Se la selezione naturale ha agito anche sull’uomo favorendo, ed è sotto gli occhi di tutti, la varietà delle popolazioni umane sulla Terra dobbiamo però pensare, come ci dicono i demografi, che la stessa selezione naturale opera «soltanto sulle differenze» e se tutti fanno in tempo a trasmettere il proprio DNA prima di morire allora le variazioni più importanti saranno più significative a livello sociale come insegnano i mescolamenti e gli incroci tra le popolazioni che impediranno, secondo Jones, un declino dell’uomo come specie.
L’economista Paul Seabright mostra, invece, come gli esseri umani abbiano guadagnato vantaggi in termini di sopravvivenza grazie all’adozione di comportamenti cooperativi e cioè tutto tranne «competizione feroce, spietata e onnipresente» come è stato per molto tempo «pensato» Darwin. Darwin aveva piuttosto un forte credo nell’enorme influenza dei fattori ambientali sul comportamento sociale. L’uso della lingua e l’elaborazione della cultura hanno consentito una netta diminuzione del tasso di mortalità in tutto il mondo ed è il risultato, secondo Seabright, di uno sviluppo graduale «di una serie di istituzioni che rendono meno vantaggioso per gli individui potenzialmente violenti dar sfogo ai propri istinti».
Conclude il libro il lavoro di John Duprè, insegnante di Filosofia della Scienza all’Università di Exter, che invita a guardare in modo diverso l’evoluzione e cioè come un mosaico di processi più o meno correlati che il progresso scientifico consente oggi di comporre senza nulla togliere, naturalmente, a Darwin. Anche se il cosiddetto neodarwinismo ci invita oggi a credere che «la causa più importante dell’adattamento degli organismi all’ambiente o alle condizioni di vita è la selezione naturale» possiamo inserire in questo contesto che l’ereditarietà deriva unicamente dal DNA nucleare, riuscendo così a mescolare i principi di Mendel, di Weismann, Crick e Watson.
Quindi, secondo il nostro autore, possiamo parlare di un pensiero revisionista che studia l’albero costituito da una «comunità di segmenti genealogici metabolicamente integrata», ovvero una separazione in termini anche concettuali tra l’organismo in funzione metabolica, dall’organismo che si evolve e quindi dalla sua posizione nell’albero stesso della vita.
Nelle sue conclusioni viene quindi rimarcato come gli ultimi progressi compiuti nello studio dell’evoluzione hanno giocoforza portato alla necessità di includere «meccanismi lamarckiani» oltre che neodarwiniani, «cooperativi e simbiotici» insieme a quelli competitivi.
Insomma l’evoluzione come un mosaico di strategie interconnesse che producono risultati eterogenei.
Il lavoro da fare, pare, è ancora molto lungo.
A cura di Gianluca Visconti
(Docente di Scienze al Liceo Scientifico FAES – Argonne di Milano)
© Pubblicato sul n° 44 di Emmeciquadro