La recente pubblicazione, per i tipi della Hoepli di Milano, del libro Guido Ucelli di Nemi, industriale, umanista e innovatore offre lo spunto per far memoria di un personaggio le cui tracce rischiavano di perdersi, forse non tanto fra gli addetti ai lavori, quanto tra le giovani generazioni e fra un più vasto pubblico non specialista, ma interessato alla memoria dei personaggi che hanno dato un contributo importante alle sorti tecno-scientifiche nazionali. Il fatto che questo libro sia uscito in un periodo di forte crisi nazionale, ci è parsa ancor più una buona occasione per rinverdire la memoria di un uomo positivo, tenace e di rara capacità nel gettare ponti fra la cultura umanistica e quella tecno-scientifica (1). L’articolo ripercorre dunque i tratti salienti della sua ricca attività di industriale e di uomo di cultura, con particolare attenzione alle vicende che portarono alla fondazione del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, oggi Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” che è quanto di più tangibile ci rimane della sua opera.



Durante la cerimonia che si svolse nella primavera del 1958 per inaugurare nuove sezioni e per ricordare i primi cinque anni dall’apertura del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, Guido Ucelli, che ne era allora il presidente, sottolineava con le seguenti parole il successo che questa iniziativa aveva riscosso presso il pubblico italiano: «L’affluenza dei visitatori e particolarmente dei giovani […] dimostrano che si è effettivamente creato un ambiente attraente, capace di suscitare curiosità, desiderio e interesse per la cultura, nei più larghi strati del pubblico […] che si è creato un’istituzione che diverte e appassiona, un museo veramente vivente, una base concreta per la storia della scienza, atta a favorire la formazione di una coscienza scientifica nella Nazione.»
Se mi è consentito un piccolo accenno personale, che il museo fosse una istituzione che divertiva e appassionava corrisponde perfettamente ai miei ricordi di quegli anni, quando, da ragazzo curioso e da studente liceale appassionato di tutto quanto sapeva di scienza e tecnica, varcai innumerevoli volte il portone di piazza San Vittore.
[Immagine a sinistra: La copertina del Libro recentemente pubblicato da Hoepli]
Allora non sapevo nulla delle origini del museo, né della figura di colui che in quasi un quarto di secolo di tenacia e sacrificio ne aveva consentito l’avvio. Né probabilmente mi sarei immaginato che un ingegnere, la figura professionale alla quale in quegli anni mi stavo indirizzando, potesse essere all’origine, oltre che di macchine, treni, navi e aeroplani, anche di una simile istituzione.
Guido Ucelli era effettivamente, per formazione e professione, un ingegnere, ma come vedremo i suoi interessi andavano ben al di là della sola ingegneria, e persino della stessa scienza e tecnica.
Era nato il 25 agosto del 1885, quarto di cinque fratelli, a Piacenza, dove suo padre era direttore del locale ufficio del dazio. La sua famiglia doveva godere di una discreta agiatezza se egli poté studiare frequentando il liceo cittadino, per poi iscriversi, nel 1904, al Politecnico di Milano.



Dal Politecnico alla Riva

Nel 1909, dopo essersi laureato in ingegneria elettrotecnica fu assunto dalla società Riva, specializzata nella costruzione di pompe e turbine idrauliche.
La Riva, che era allora una delle più importanti aziende meccaniche italiane, a partire dall’ultimo lustro dell’Ottocento aveva svolto un ruolo molto importante per lo sviluppo dell’industria elettrica nazionale, fornendo alle varie aziende che si contendevano il nascente mercato dell’energia elettrica, le macchine (turbine idrauliche) che permisero di sfruttare le risorse idriche del paese. Di conseguenza buona parte dell’industria nazionale aveva potuto progressivamente sopperire con il cosiddetto «carbone bianco» (così veniva allora chiamata l’energia idroelettrica) alla cronica carenza di carbone (la fonte energetica in quegli anni prevalente), che ne aveva pesantemente condizionato lo sviluppo nei decenni precedenti (2).
Guido Ucelli era dunque entrato alla Riva in un momento favorevole e di espansione dell’azienda e, grazie alle sue capacità e doti personali. si era subito messo in buona luce, conquistando la fiducia di Alberto Riva, che ne era stato il fondatore, il quale gli aveva presto affidato incarichi importanti.



Matrimonio e carriera
Guido Ucelli sarebbe stato in ogni caso destinato a una brillante carriera nella Riva, ma la sorte gli fu ulteriormente amica, facendogli incontrare Carla Tosi, figlia di Franco Tosi, l’ingegnere che aveva fondato l’omonima grande azienda meccanica di Legnano. Carla e Guido si conobbero nel 1912 durante una vacanza estiva a Gressoney, si innamorarono e circa due anni dopo riuscirono a sposarsi, nonostante i parenti di Carla si fossero opposti a che lei, poco più che ventenne e più giovane di Guido di nove anni, si unisse a un giovane di belle speranze, ma di ancora modeste sostanze.
In effetti Carla Tosi, che era presto rimasta orfana di entrambi i genitori (l’ingegner Tosi era stato tragicamente ucciso da un suo operaio nel 1898 e sua madre era sopravvissuta di poco al marito), al compimento della maggiore età si sarebbe ritrovata erede di una notevole fortuna.
[Immagine a destra: Guido e Carla giovani]
Guido si dimostrò peraltro, oltre che un ottimo marito e padre, anche un accorto amministratore dell’eredità di sua moglie, una parte della quale fu subito investita nell’industria nella quale lavorava, di cui aveva evidentemente intuito il grande potenziale di crescita.
La partecipazione al capitale della Riva (con una quota dell’ordine del 10%) gli consentì di passare dal ruolo di dipendente (se pur con importanti responsabilità) a consocio dell’azienda, consolidando notevolmente la sua posizione con l’assunzione della carica di vice-direttore generale.
Nel giro di pochi anni Ucelli divenne direttore e amministratore delegato dell’azienda, alla guida operativa della quale sarebbe ininterrottamente rimasto fino all’inizio degli anni Cinquanta e, come presidente, fin quasi alla morte.

Così, come ricorda Giorgio Bigatti nel libro da cui abbiamo preso le mosse, a partire dai primi mesi del 1915 Ucelli «ebbe, di fatto, la responsabilità della gestione industriale e della definizione delle strategie di sviluppo della società»; risultò infatti a tutti evidente che l’ingegner Riva «aveva passato le consegne, avendo trovato in Ucelli il proprio successore».
Lo scoppio della guerra, con tutte le inevitabili difficoltà e restrizioni che lo accompagnarono, rischiò peraltro di interrompere il ciclo favorevole della società che, pur essendo dichiarata «impresa ausiliaria», non era direttamente impegnata nella produzione bellica.

A risollevarne le sorti venne però, ricorda ancora Bigatti, «il decreto Bonomi (20 novembre 1916) sulla derivazione di acque pubbliche, un provvedimento destinato a imprimere una forte accelerazione allo sviluppo del settore elettrico, con positive ricadute per le imprese impegnate nella costruzione di turbine e macchinario elettrico».
Alla fine della Prima Guerra Mondiale la Riva era una società in buone condizioni, anche perché Ucelli aveva cominciato a ristrutturarla profondamente, per farla passare dallo stadio di azienda a gestione familiare a quello di una vera società anonima per azioni. Questa forma societaria, che era stata assunta dalla Riva nel 1914, poco prima dell’ingresso nel capitale sociale dello stesso Ucelli, esponeva peraltro maggiormente la società al rischio di conquista da parte di altre industrie concorrenti, quali l’Ansaldo, la Breda e la stessa Franco Tosi che, alla fine del conflitto, erano in piena fase di riconversione e cercavano nuovi sbocchi alle loro capacità produttive, molto cresciute nel periodo bellico.
Fu in queste circostanze che Ucelli mostrò le sue capacità di vero «capitano d’industria» rintuzzando l’attacco dei concorrenti con un abile accordo, concluso con alcune delle principali industrie elettriche del nord Italia, che portarono capitali freschi all’azienda pur senza intaccarne l’autonomia tecnica e gestionale.
[Immagine a sinistra: Grande spirale di turbina Francis costruita dalla RIVA nel 1956]
L’accordo fu siglato nel maggio del 1919 e fu sancito dall’ingresso nel consiglio di amministrazione della Riva della SADE (Società Adriatica di Elettricità), della Società Imprese Elettriche Conti e della Edison.
Esso diede inizio a quella solida alleanza fra il più quotato produttore e i principali utilizzatori di turbine idrauliche che sarebbe durata per diversi decenni e che avrebbe fatto sì che larga parte degli impianti idroelettrici italiani fossero da allora in poi equipaggiati con macchine Riva. L’accordo diede anche a Ucelli gli strumenti finanziari e l’accresciuto prestigio necessari a portare a compimento la riorganizzazione aziendale che aveva iniziato durante il periodo bellico; parte di questa complessa operazione fu anche l’acquisizione, nel 1923, della società Calzoni di Bologna, che garantì alla Riva nuovi spazi e nuova capacità produttiva (specialmente nel campo delle grosse fusioni).
Da allora in avanti, e fino ad almeno tutti gli anni Settanta, pur con alterne vicende, la Riva sarebbe rimasta una delle più solide e quotate aziende meccaniche italiane e una delle poche in grado di progettare, costruire e mettere in funzione grandi impianti idraulici e idroelettrici, non solo in patria, ma anche in ogni parte del mondo (all’estero specialmente nel secondo dopoguerra). 

 

 

Gli interessi culturali e la famiglia

 

Ora che abbiamo visto come Guido Ucelli si insediò saldamente nella società Riva, è tempo di dare un po’ di spazio ai suoi interessi culturali e alle vicende della sua famiglia. Lo facciamo non certo per «curiosare» nella vita privata di un personaggio di grande riservatezza, quanto perché la cultura, e ci sembra anche la famiglia, ebbero un rilievo notevole nella sua vita, certo non meno importanti di quello che ebbe la RIVA; inoltre la vicenda del museo non si comprende pienamente senza ricordare il suo profondo interesse non solo per la tecnica, ma anche per l’arte.
Da dove nascesse questa sua predilezione per l’arte a dir la verità non viene detto nel libro a lui dedicato. Forse l’interesse nacque sui banchi di scuola, dallo studio dei «classici» e della storia dell’arte che nei licei di inizio Novecento certamente si frequentavano e assorbivano molto più di oggi (i classici mantennero sempre una posizione di rilievo nella sua biblioteca). Forse questo interesse fu un naturale ampliamento del suo grande amore per la musica, o forse nacque dall’ammirazione che egli sempre ebbe per Leonardo da Vinci, che per l’ingegner Ucelli incarnava quella sintesi fra tecnica e arte che egli sempre inseguì.
Certamente fu una predilezione ampliamente condivisa con la sua consorte tanto che la loro casa di Milano, scelta non a caso come luogo di bellezza(3), fu meta costante non solamente di ingegneri e dirigenti d’azienda, ma anche di pittori, scultori, architetti, storici dell’arte, archeologi, musicisti, a cominciare da quell’ Arrigo Minerbi, scultore di origini ferraresi, autore di una delle porte del Duomo di Milano, che fu grande amico della famiglia Ucelli, tanto che i figli lo chiamavano zio.
Inoltre Guido Ucelli non si limitò ad ammirare l’arte, ma la praticò in prima persona, dedicandole tutto il tempo e l’energia che gli fu possibile fra i suoi numerosi impegni: fu infatti non solo un abile organista e pianista (da ragazzo si esercitava a suonare l’organo nelle chiese di Piacenza e nella sua casa di Milano aveva fatto installare un grande organo Aeolian, acquistato negli Stati Uniti), ma anche un bravo fotografo e un valido cineamatore.(4)
Niente ci sembra dimostri di più l’amore di Guido Ucelli per le arti, la cultura classica e la tecnica antica, quanto il suo impegno per il recupero delle navi che giacevano da secoli sui fondali del Lago di Nemi, sui Colli Albani, vicino a Roma. Per lui questa impresa fu da un lato una dimostrazione, e forse un luogo privilegiato della maturazione, del suo amore e del suo grande interesse per l’arte e la tecnica antiche, dall’altro una specie di prova generale per la successiva grande impresa della fondazione del museo milanese.

 

 

Le navi di Nemi

 

Sull’esistenza di queste navi esisteva una leggenda tramandata per tutto il medioevo, che in qualche modo aveva trovato una prima conferma nelle esplorazioni e nei tentativi compiuti da Leon Battista Alberti nel 1446, su mandato del cardinale Prospero Colonna e in altre ricerche ripetute nel 1535.
Dopo un nuovo lungo oblio l’attenzione su questi reperti si era rinnovata nel corso dell’Ottocento; verso la fine del secolo il tenente colonnello del genio navale Vittorio Malfatti dopo una serie di esplorazioni subacquee con palombari aveva definito con precisione la posizione delle navi e confermato la loro imponenza (lunghezza circa 70 metri ciascuna), arrivando alla conclusione che l’unico modo per recuperarle senza distruggerle fosse quello di prosciugare parzialmente il lago, in modo da portarle all’asciutto.

Le proposte di Malfatti erano peraltro rimaste lettera morta fino al 1927, quando il Ministro della Pubblica Istruzione aveva istituito una commissione di studio incaricata di riesaminare il problema.
[Immagine a destra: Recupero della seconda nave di Nemi (Litografia di Mario Coen)]
Non sappiamo dire con esattezza come e quando Ucelli fosse venuto a conoscenza dell’esistenza delle navi e degli studi fino allora compiuti, sta di fatto che deve essersi entusiasmato all’idea di poter utilizzare per il recupero i macchinari e le tecnologie disponibili presso la Riva, tanto che, già l’anno prima dell’insediamento della suddetta commissione, egli aveva fatto autonomamente eseguire dall’ufficio tecnico dell’azienda uno studio per definire i macchinari e gli impianti necessari per il parziale prosciugamento del lago.
Sulla base di questo studio verso la fine di ottobre del 1927 poté avanzare al Ministero dei Lavori Pubblici l’offerta di farsi carico dell’opera di prosciugamento, che nel frattempo era stata «benedetta» anche dalla commissione ministeriale.
La Riva avrebbe fornito le pompe, le tubazioni e fatto da coordinatore generale dell’impresa, nella quale peraltro Ucelli, tramite il suo prestigio e la sua competenza nel campo degli impianti idraulici, aveva coinvolto anche altre aziende: la ditta milanese Turrinelli, produttrice di motori e veicoli elettrici, che avrebbe fornito gratuitamente i necessari motori elettrici e le società “Elettricità e gas di Roma” e “Laziale di Elettricità” che avrebbero fornito gratuitamente l’energia elettrica. Sarebbe interessante, ma non ne abbiamo qui lo spazio, descrivere i dettagli del progetto e ripercorre il gran lavoro di coordinamento che Ucelli si sobbarcò per rendere possibile l’impresa.

 

Il recupero delle navi di Nemi
Ci limitiamo a riportare che le pompe iniziarono a girare nell’ottobre del 1928, scaricando l’acqua in un emissario artificiale del lago, risalente anch’esso ai tempi dei romani, che era stato opportunamente ripristinato, ma che non consentiva grandissime portate. Ci vollero quindi mesi di pompaggio perché la prima delle due navi cominciasse ad affiorare nella primavera del 1929 e solo nel settembre dello stesso anno il lago era ormai sceso a un livello tale (meno 11 metri) da consentire l’emersione totale della nave e l’inizio del suo recupero.
L’impresa sarebbe proseguita fra difficoltà e polemiche per concludersi solamente nell’ottobre del 1932 con il recupero anche della seconda nave, dopo aver abbassato il livello del lago di circa 22 metri (in totale furono aspirati dal lago circa 50 milioni di metri cubi di acqua, consumando 2 milioni di kilowattora di elettricità). Qualche anno dopo le navi sarebbero state sistemate in un grande edificio museale appositamente costruito. Il loro recupero avrebbe consentito non solo di chiarire la loro origine (erano state fatte costruire dall’imperatore Caligola per funzioni rituali e cerimoniali), ma anche di aprire un insperato spiraglio sul grado di complessità e perfezione raggiunto dalla tecnica navale romana.
All’impresa di Nemi non mancarono gli oppositori, per ragioni che potremmo in senso lato definire «ecologiche», anche se in quegli anni il termine non era ancora in voga. Si temevano vari effetti negativi sul lago che, per certi versi, effettivamente si manifestarono quando si verificarono cedimenti e assestamenti del fondo e delle rive fangose, al ritirarsi delle acque. Alcuni avevano addirittura paventato il timore di terremoti, legati alla rimozione di un così ampio peso di acqua dalla conca vulcanica in cui giace il lago.
Nel complesso il Lago di Nemi, un ecosistema molto particolare e «fragile», sopportò abbastanza bene l’intervento al quale fu sottoposto, sicuramente molto invasivo e che difficilmente ai giorni nostri sarebbe ancora consentito. Col tempo il livello del lago ritornò ai valori consueti.
Per chi fosse interessato, oltre che in parte nel libro citato all’inizio, l’impresa di Nemi viene più ampiamente descritta nel volume di Guido Ucelli, Le navi di Nemi (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1940 e 1950).
In riconoscimento dell’impresa a Guido Ucelli fu riconosciuto non solo il titolo di Cavaliere del Lavoro, ma anche quello di «nobile», con il relativo diritto di aver uno stemma e di aggiungere al suo cognome il suffisso «di Nemi».

 

 

 

Il Museo della Scienza e della Tecnica

 

Veniamo dunque a qualche breve accenno alle vicende che portarono alla istituzione di questo museo che rimane tutt’oggi, dopo una vasta azione di rinnovamento intrapresa nell’ultimo decennio, il più importante riferimento italiano (insieme al Museo della Scienza di Firenze) per la storia della scienza, della tecnica e dell’industria, e un fondamentale luogo di educazione dei giovani alla tecno-scienza, visitato ogni anno da più di 400.000 persone, in gran parte ragazzi con le loro famiglie e scolaresche.
Come Ucelli stesso racconta, la prima idea di un museo industriale nazionale gli era venuta nel 1906, ancora da studente, nell’anno in cui Milano aveva sperimentato il fascino e i fasti della sua prima esposizione universale. Non si trattava, a dir la verità, di un’idea del tutto nuova, in quanto le nazioni che avevano preceduto l’Italia nel processo di industrializzazione si erano già dotate di simili istituzioni.
A Parigi il Conservatoire des Ars et Métiers era stato fondato nel 1794; a Londra il South Kensington Museum, poi Science Museum, era attivo dal 1857; a Monaco di Baviera il Deutsches Museum, fondato nel 1903, aveva addirittura identificato nel suo nome, Museo dei Tedeschi, spirito tecnico e spirito nazionale germanico.
L’idea era circolata anche in Italia tanto che, come ricorda Giorgio Bigatti nel libro citato all’inizio, nel 1908 il professor Belluzzi del Politecnico «si era fatto banditore di una pubblica conferenza dell’istituzione di un Museo Industriale».
I tempi non erano evidentemente ancora maturi, ma l’idea rimase nell’aria e nel cuore di Guido Ucelli il quale, ormai affermato capitano d’industria e divenuto famoso per l’impresa di Nemi, dal momento in cui il podestà di Milano, nel 1930, lo chiamò a presiedere una commissione incaricata di studiare l’ipotesi di istituire in città un Museo Industriale, fece diventare il museo uno degli obiettivi primari della sua vita. E fu uno di quelli su cui dovette più lottare se l’inaugurazione del primo nucleo del museo milanese, complice anche il drammatico periodo bellico, poté avvenire solamente quasi un quarto di secolo dopo, all’inizio del 1953.
Anche per il museo non abbiamo qui molto spazio per narrare le vicende di quel lungo periodo, ma vogliamo almeno ricordare che il progetto ebbe da subito appoggi, come quello dell’allora presidente del CNR, Guglielmo Marconi, ma anche concorrenti. Per esempio all’interno dello stesso CNR alcuni avrebbero voluto far sorgere il museo a Roma; questa ipotesi rimase a lungo sul tappeto, almeno fino a quando durarono i progetti della Esposizione Universale del 1942 (un’opera incompiuta della quale ci sono rimasti i famosi palazzi romani dell’EUR), nell’ambito della quale era prevista anche la realizzazione di una Mostra della Scienza Universale e di un Palazzo della Scienza.
Particolarmente lungo fu l’iter per trovare una degna sede del museo a Milano. A una prima proposta di insediarlo nel vecchio palazzo del Politecnico, in piazza Cavour, avanzata nel 1934 dal podestà di Milano Marcello Visconti di Modrone, fece seguito un progetto del 1936 a firma dello stesso Ucelli e degli architetti Griffini e Portaluppi per collegare il museo al nuovo Politecnico, realizzandone la nuova sede dalle fondamenta, in una grande area di Città Studi.

Sei anni dopo, a guerra ormai in pieno svolgimento, il Comune di Milano avrebbe invece destinato al museo un’area nella zona della Fiera Campionaria, ma anche questa idea sarebbe stata presto abbandonata per il precipitare degli eventi bellici.
La guerra non avrebbe comunque fatto del tutto desistere Ucelli dai suoi progetti: nell’ottobre del 1942 fu infatti stilato l’atto notarile con il quale veniva istituita la Fondazione Museo Nazionale della Tecnica e dell’Industria che fu ufficialmente presentata al capo del governo il mese successivo e nel 1943 riconosciuta dal Parlamento, acquisendo personalità giuridica.
Dopo il 1943 Ucelli poté cominciare a lavorare alla costituzione della biblioteca del museo e solamente dopo la fine della guerra poté riprendere in mano il problema della sede: nacque allora l’idea di utilizzare il grandioso, ma ormai fatiscente e semidistrutto complesso dell’ex Convento Olivetano di via San Vittore.
[Immagine a sinistra: La facciata del Museo nel progetto di Portaluppi e Griffini]
Il convento fu restaurato secondo un progetto degli architetti Portaluppi e Griffini, già legati alle vicende museali, e poté finalmente aprire i battenti il 15 febbraio del 1953, con una grande mostra dedicata a Leonardo da Vinci.  
Il travaglio della sua istituzione si ripercosse anche nella decisione sul nome da dargli che da “Museo Industriale” passò a “Museo delle Arti e dell’Industria” per approdare infine a “Museo Nazionale delle Scienza e della Tecnica” (mutato in “Museo delle Scienza e della Tecnologia” nell’anno 2000).

 

 

Epilogo

 

A conclusione di questi «sprazzi» su di una vita(5) così piena, intensa e fortunata come quella di Guido Ucelli, si potrebbe osservare che, come è spesso destino anche per gli uomini di successo, delle sue grandi imprese (ad alcune non abbiamo nemmeno potuto accennare) il tempo ha fatto scempio: in effetti le navi di Nemi andarono distrutte durante la seconda guerra mondiale e la Riva, come altre storiche imprese industriali italiane, non esiste più.
Ma il museo milanese resta.
[Immagine a destra: Guido e Carla Ucelli alla fine degli anni Cinquanta]
Resta, ci pare, come testimonianza dell’amore per la scienza, la tecnica, e la loro storia, di un uomo che era profondamente convinto che scienza e tecnica siano gli elementi di vero progresso e di positiva evoluzione dell’umanità, ma che nel contempo non pensava ad esse con la mentalità chiusa dello «scientista» o del «positivista», cioè come a qualcosa in cui si possa e si debba esaurire tutto lo spirito umano.
Come del resto si era pensato per secoli, in tutta la grande tradizione della scienza e dell’arte italiana, in particolare da quando Leonardo aveva mostrato al mondo come esse possano accordarsi in un proficuo connubio, quel Leonardo che secondo Ucelli «forse più di ogni altro uomo ha dimostrato l’universalità delle spirito, che ha affermato essere la bellezza materiata di verità e la verità in tutte le sue forme, espressione di bellezza».(6)
Più che le nostre lasciamo peraltro che siano direttamente le sue parole a illustrare sinteticamente queste idee; ci sembra il modo migliore e più diretto di concludere: «La storia del mondo non è fatta solo di guerre, di conquiste militari, di eventi politici; le conquiste della scienza e della tecnica segnano le vere tappe dell’evoluzione umana e sociale e dello sviluppo della civiltà. In proposito si dovrebbe persino osservare che, mentre nel campo politico sembra che l’esperienza del passato purtroppo non serva quale guida nelle azioni dei governi e dei popoli, nel campo della scienza e della tecnica la storia si deve invece considerare veramente magistra vitae, non potendo tale attività neppure sussistere senza la conoscenza delle precedenti esperienze.» (da Programma e idealità del Museo Nazionale della Scienze della Tecnica, 1953)
«È ben noto che ogni giorno di più le scienze fisiche si distaccano dalle ristrette concezioni materialistiche per accettare concetti che sembrano tendere a una nuova spiritualità: ogni scoperta fa intravedere nuove vie senza fine, sconfinati orizzonti, e sembra costituire una rivelazione dell’ordine instaurato nell’Universo. La scienza sembra così avvicinare sempre più l’uomo alle soglie del divino mistero, alla nozione della sintesi essenziale, alla conoscenza dell’assoluto che si cela al di là degli schemi e delle teorie caduche, mentre nella acquisita certezza della misteriosa armonia universale e nell’inesausto anelito della conoscenza del vero, si rispecchia la visione dell’alta missione, dell’arcano destino dell’umanità: una sempre più alta evoluzione civile, una sempre più alta evoluzione spirituale.» (Discorso in occasione della inaugurazione della nuova Sezione Aeronavale del Museo, 12 aprile 1964).

 

 

 

Gianluca Lapini
(Ingegnere, ex-ricercatore presso CISE e CESI, Milano)

 

 

Vai all’approfondimento di questo articolo riguardante: La Famiglia Ucelli – Tosi

 

 

  1. Per certi versi può sembrare strano che su Guido Ucelli, a quasi quarant’anni dalla morte, non fosse ancora comparsa nessuna opera di vasta portata, ma il fatto si spiega con la sua innata modestia, e il suo desiderio di non apparire, che a tal punto egli aveva trasmesso anche ai suoi figli, che per molti anni l’idea di raccogliere in un libro le memorie su di lui aveva suscitato delle perplessità in una parte della sua famiglia, in seguito per fortuna superate, tanto che il progetto del libro ha potuto concretizzarsi con l’appoggio di tutti, operativamente grazie in particolare all’Associazione che porta il nome di Ucelli e al Centro per la Cultura d’Impresa.
  2. La RIVA produceva anche pompe idrauliche di grandi dimensioni, che furono in particolare usate in molti dei progetti di bonifica condotti nel nostro paese nei primi decenni del Novecento.
  3. Guido Ucelli e Carla Tosi si insediarono a Milano in una vasta proprietà situata non lontano dalla basilica di Sant’Ambrogio, in parte coincidente con l’antico convento delle Umiliate di via Cappuccio, del quale conservava un bellissimo chiostro quattrocentesco, che fu da loro amorevolmente restaurato.
  4. Nel libro a lui dedicato c’è un capitoletto sui lavori cinematografici di Guido Ucelli che rappresentano un’interessante documentazione di vita e costume nei decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. I soggetti principali sono: viaggi, vita di fabbrica alla RIVA, vita familiare, e finzioni amatoriali, ma soprattutto una preziosa documentazione sui lavori di recupero delle navi di Nemi. Va sottolineato che non si tratta di riprese in piccolo formato, ma che questi film furono realizzati con pellicole da 35 millimetri, le stesse che si usavano nelle sale cinematografiche, utilizzando macchine da ripresa di assoluto livello professionale. Una buona parte di questa abbondante produzione, è stata recentemente restaurata e preservata, ma un’altra parte è purtroppo risultata irrecuperabile per i danni subiti nel tempo dalle pellicole.
  5. Guido Ucelli morì nell’agosto del 1964, un anno e mezzo dopo la morte della sua amatissima Carla, la cui dipartita aveva lasciato un vuoto incolmabile nella sua esistenza. Entrambi sono sepolti al Cimitero Monumentale di Milano.
  6. Dal suo scritto del 1953, Programma e idealità del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica.

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 44 di Emmeciquadro


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