Per conoscere la realtà occorre «vederla». È un’affermazione che sembra banale, se ci limitiamo all’esperienza di tutti i giorni: ci basta la luce; i primi strumenti come il «cannone ochiale» di Galileo sono stati sufficienti per aprire una nuova visione del cosmo. Ma se ci addentriamo a livello atomico e subatomico, la natura ondulatoria della luce non permette più di vedere gli oggetti, a causa del fenomeno della diffrazione. Occorrono lunghezze d’onda sempre più piccole: prima radiazioni elettromagnetiche di grande frequenza come i raggi X, poi, scendendo ancora di dimensioni, il ricorso alla natura ondulatoria della materia. Ma non basta: per penetrare nella più intima struttura della materia, «vedere» significa sottoporre la materia a interazioni ad altissime energie, e registrare gli eventi che ne conseguono attraverso sofisticatissimi strumenti. L’autore ci guida verso questa visione dell’estremamente piccolo, fino alle grandi energie del Large Hadron Collider (LHC) che permette di indagare a distanze di 10-18 m, alla ricerca del Bosone di Higgs e della Materia Oscura.
La vista è come un ponte gettato tra noi e la realtà: ci permette, come nessuno degli altri sensi, di entrare in contatto con la realtà e di conoscerla. Non per niente il gesto educativo forse più ripetuto da un padre o una madre al figlio è «guarda!», come a dire: impara, renditi cosciente di ciò che esiste. Guarda, guarda bene!, cioè usa la vista per renderti conto che siamo immersi in una realtà diversa da noi ma che è a noi affine.
Quindi l’uso della vista è strutturale alla nostra presa di coscienza della realtà e anche da adulti non cessiamo di viaggiare, o di navigare su Internet, per guardare, per vedere. Dunque la vista come mezzo fondamentale, come strumento unico, al servizio della ragione per indagare la realtà, per capirne e carpirne l’essenza; la vista come ponte gettato dall’io verso la realtà a cui e da cui siamo irresistibilmente attratti. Tanto improntante che all’inizio stesso della nostra civiltà sta quella frase: «Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu».(1)
Per questo tra gli atti fondatori della scienza moderna è annoverata la scoperta delle lune di Giove di Galileo Galilei nel gennaio 1610 a Padova: le osservazioni di quelle sere dal 7 al 15 gennaio nel giardino del Borgo di via dei Vignali sono state decisive per lo sviluppo della conoscenza. [Immagine a sinistra: Galileo Galilei (1564-1642) (ritratto di Ottavio Leoni)]
Le lenti, che erano già in uso da circa trecento anni, da allora non sono più state utilizzate solo per scopi pratici, ma per vedere più a fondo l’Universo, per aprirsi su una realtà meravigliosa e fino allora inosservabile.
Il «cannone ochiale» di Galileo fu il risultato di brillanti intuizioni e di paziente e ingegnoso lavoro tecnico e permise al grande scienziato pisano di vedere la nuova luce, di «vedere cose mai viste prima», come riportò nella prima grande comunicazione scientifica dell’era moderna, l’instant book con cui comunicò al mondo che un nuovo orizzonte si apriva.(2)
La percezione di sé e del cosmo dell’uomo occidentale, e poi dell’intera umanità, non sarebbe mai più stata come prima.
Il 30 marzo 2010 il grande acceleratore di particelle LHC al CERN di Ginevra superava il limite di energia da lui stesso stabilito nel dicembre 2009, e stabiliva il nuovo record di energia di collisione, circa 3,5 volte di più del precedente acceleratore negli USA. Una nuova luce, questa volta sull’infinitamente piccolo è stata accesa, e dei nuovi occhi, capaci di vedere questa nuova luce, si sono aperti al CERN: noi pensiamo sia l’inizio di un nuovo passo fondamentale nella conoscenza, un passo che ci porta ad andare al di là dei confini noti. Attratti irresistibilmente dall’ignoto, speriamo di essere i piccoli epigoni dell’Ulisse Dantesco(3), forse la figura più emblematica di questa spinta verso l’incognito che, come vedremo, ci attira verso l’origine e ci riempie di meraviglia per la possibilità di vedere e comprendere una realtà che ci appare sempre più estesa e sempre più ricca dei nostri modelli teorici.
Gli acceleratori di particelle per una vista più acuta
Un limite alla nostra vista è dovuto alla quantità di luce. Se una sorgente ha una luce troppo fioca, non la vedo: il mio rivelatore (i fotorecettori dell’occhio) non ha abbastanza sensibilità se i fotoni sono troppo pochi, se arriva troppa poca energia luminosa. Esiste però un altro limite molto importante: la capacità di distinguere due oggetti molto vicini tra loro, detta potere risolutivo.
Il potere risolutivo dipende ultimamente dalla lunghezza d’onda impiegata. Se utilizzo luce visibile, con ? che va da 0,76 a 0,4 µm non posso vedere come distinti due oggetti distanziati da 0,1 µm. Se utilizzo i raggi X, cioè una «luce» con lunghezza d’onda cento volte più corta, posso osservare in modo distinto oggetti cento volte più vicini, cioè separati di solo 1 nm (0,001 µm).
Si può diminuire ancora e impiegare luce con lunghezza d’onda ancora più corta? Certo si possono impiegare raggi X molto penetranti con lunghezza 0,1 nm o raggi ? di 0,01 nm o ancora meno. Tuttavia la sorgente diventa molto complessa, al punto da diventare un acceleratore. Difatti oggi le sorgenti più precise sono acceleratori che generano raggi X chiamati: luce di sincrotrone.
Per esempio, l’acceleratore “ELETTRA” di Trieste fornisce fasci intensissimi di raggi X da 1-10 nm, mentre la macchina in costruzione a Amburgo, European X-ray Free Electron Laser detta XFEL, sarà in grado di fornire fasci molto brillanti di raggi X a 0,1 nm (1 angstrom, come si usava dire una volta). [Immagine a destra: Acceleratore “ELETTRA” a Trieste, dove si produce luce di sincrotrone a raggi X per vedere nanostrutture, non osservabili con luce visibile]
Oggigiorno la relativa facilità con cui si possono avere immagini a livello del nanometro, cioè un miliardesimo di metro, con vari strumenti ha reso possibile lo sviluppo delle tecnologie in questo settore: le nanotecnologie sono appunto una delle frontiere della tecnologia del nostro tempo e si basano, tra l’altro, sulla disponibilità dei nanoscopi, ovvero dei microscopi che superando la barriera della luce ottica, permettono di vedere sino al nm. Comunque sia la lunghezza d’onda impiegata per vedere limita, per diffrazione, la risoluzione spaziale dell’oggetto: la vista non è assoluta ma dipende dal tipo di «luce» che si impiega per vedere e questo limite rimane vero anche se potessi ingrandire gli oggetti a dismisura. Ma si può andare oltre la «nanovisione»?
Le particelle sono onde
Nel 1924 il fisico francese Louis de Broglie (1892-1987) completò la rivoluzione di Einstein (la luce, onda per eccellenza, è fatta di corpuscoli, i fotoni), formulando l’ipotesi che le particelle a loro volta abbiano un comportamento ondulatorio.
La sua teoria, presto verificata e che gli valse il Nobel nel 1929, prevede che a una particella sia associata un’onda con lunghezza d’onda λ=h/p, dove h è un valore costante(4) e p è la quantità di moto. Per i nostri scopi possiamo dire che tanto più grande è l’energia di una particella e tanto più piccola è la lunghezza dell’onda associata.
Questa scoperta davvero sorprendente ci mostra come un certo dualismo (che data dagli inizi della filosofia) continua a persistere nelle descrizioni più precise della realtà quasi che fosse un segno profondo della complessità sottostante: particella e onda, massa e energia non sono separabili e addirittura possono trasformarsi l’uno nell’altro, pur rimanendo concetti distinti.
Comunque a parte l’eccezionalità della scoperta a noi interessa notare che mentre non sappiamo come generare direttamente la luce, cioè campi elettromagnetici di lunghezza d’onda λ più corta di 0,1 nm, sappiamo come accelerare delle particelle a energie tali che loro λ associata sia in effetti più corta di 0,1 nm.
Gli acceleratori di particelle, potenti microscopi
Una particella carica elettricamente viene accelerata da un campo elettrico, in altre parole da una tensione (differenza di potenziale). Questa tensione era di circa 1 MV (M sta per Mega, 1 milione di volt) nei primi acceleratori degli anni Trenta del secolo scorso, poi rapidamente è passata a cento milioni nell’immediato dopoguerra e già negli anni Cinquanta le particelle venivano accelerate a qualche miliardo di volt, GV (G sta per Giga, ovvero un miliardo).
Per dare un’idea, una particella che è accelerata da una tensione elettrica di 1 GV ha associata una lunghezza d’onda di meno di un milionesimo di nanometro! Perciò gli acceleratori sono strumenti che permettono di indagare distanze piccolissime, più piccole del nucleo atomico che si può rappresentare come una sfera con raggio del milionesimo di nanometro.
Non è sorprendente che gli acceleratori della generazione 1970-2000 abbiano permesso di svelare che i protoni e neutroni, che formano il nucleo atomico, non sono particelle elementari ma hanno una struttura interna, cioè sono a loro volta fatte di particelle più piccole: i quark.
Ebbene con LHC in cui l’energia delle particelle è di oltre un Teraelettronvolt, cioè di mille miliardi di volt (!), potremo indagare distanze di circa un miliardesimo di nm, in altre parole un miliardesimo di miliardesimo di metro, come mostrato nell’immagine seguente: siamo davvero lanciati verso l’infinitamente piccolo, una delle due frontiere estreme della conoscenza, complementare alla frontiera dell’infinitamente grande, dominio dell’astrofisica.
Grande scala delle distanze. Nella parte verde, ci sono le grandi distanze, fino alla dimensione dell’Universo, con gli strumenti usati per indagarle: telescopi e radiotelescopi, su Terra o su satellite. Verso le distanze piccolissime (parte rossa della scala), gli strumenti d’indagine sono i microscopi e poi gli acceleratori di particelle. Si noti la posizione di LHC che segna la nuova frontiera, tacca in blu a 10-18 m (cioè 10-16 sulla figura dove la scala è in cm): «Atto» è il prefisso per 10-18, da cui Attoscopio.
Acceleratori per vedere nel passato
Un altro aspetto sorprendente è dovuto alla relatività: l’energia che diamo alle particelle durante l’accelerazione a un certo punto diventa massa. Semplificando, si può infatti, scomporre l’azione di un acceleratore in due fasi distinte (fasi che distinte in realtà non lo sono mai).
In una prima fase l’energia delle particelle aumenta con la velocità mentre la massa rimane quasi-costante. Questo succede fino a che la velocità delle particelle non approssima il suo valore limite in natura, la velocità della luce nel vuoto, c = 300.000 km/s. È la fase di accelerazione vera e propria.
Nella seconda fase, una volta raggiunta – quasi – la velocità della luce, l’energia si trasforma in massa, mentre la velocità ormai arrivata al valore limite non aumenta più. In questa fase l’acceleratore si comporta in realtà come un «massificatore».
È interessante notare che la seconda fase costituisce di parecchio la parte più lunga del ciclo di accelerazione. Nel tunnel LHC solo la seconda fase si compie, mentre la prima fase è espletata nella parte iniziale della catena di acceleratori.
Quindi nel complesso LHC è come se una piccola vettura, un’utilitaria, fosse inizialmente accelerata e, una volta lanciata alla velocità massima possibile, mentre continua a percorrere il circuito, diventasse un pesantissimo TIR, circa 7000 volte più pesante della vettura iniziale. Non è quindi troppo sorprendente se poi scontrandosi con un altro TIR simile lanciato nella direzione opposta, dalla collisione ne escano dei pezzi molto più pesanti della piccola vettura iniziale, dei pezzi (particelle) che oggi nel nostro Universo non troviamo più.
In altre parole l’acceleratore realizza condizioni di energia (meglio di densità di energia e massa) tipiche dell’Universo primordiale, subito dopo il Big Bang. Quindi l’acceleratore ci permette di vedere nel passato, come una meravigliosa macchina nel tempo che ci porta verso la nostra origine.
[Immagine a sinistra: Rappresentazione schematica dell’evoluzione dell’Universo dal Big Bang (sulla sinistra) a oggi]
LHC ci porta a osservare fenomeni 1 picosecondo (10-12 s) dopo il Big Bang.
Guardando le stelle e le galassie più lontane anche l’Astrofisica va all’indietro nel tempo: per esempio, il satellite Planck osserva la radiazione fossile del Big Bang al confine dell’Universo visibile. In questo modo arriva a 300.000 anni dopo il Big Bang quando la luce «si liberò» dalla materia, ma osservando le increspature della radiazione cosmica otterrà informazioni su ciò che successe molto prima, ancora più indietro dell’LHC.
La luce degli acceleratori e gli occhi per vederla
La fisica fatta con gli acceleratori si chiama fisica delle particelle o fisica delle alte energie. Gli acceleratori caricando le particelle di energia facendole collidere le une contro le altre, generano appunto questa nuova «luce», che illumina l’infinitamente piccolo. Tuttavia, per vedere occorrono anche gli occhi, che raccolgono e analizzano questa luce. Questi occhi si chiamano rivelatori, poiché rivelano tutte le nuove particelle e nuove radiazioni che emergono dai formidabili scontri.
I tre passi principali nel metodo di ricerca della fisica alle alte energie
I rivelatori sono come occhi puntati su un punto preciso: lo circondano affinché tutta la luce emessa sia catturata, sia registrata e inviata all’elaborazione centrale. Il metodo utilizzato è simile a quello dei nostri occhi.
Le particelle e le radiazioni che escono dal punto di scontro sono un pò come la luce (come i fotoni) che entra nel nostro cristallino: come la luce ci porta informazioni del corpo che «vediamo», queste particelle portano le informazioni dello scontro.
Il rivelatore è come un’immensa retina con tantissimi tipi di fotorecettori, dove ogni tipo è ottimizzato per una particolare particella o radiazione. L’elettronica serve per una prima trasformazione di questa luce (particelle e radiazioni) in segnale elettrico codificato che contiene informazioni sull’energia portata dalla particella (equivalente al colore), sul numero delle particelle (equivalente all’intensità luminosa) e sulla posizione e tempo preciso della rilevazione.
[Immagine a destra: Immagine di collisione LHC ricostruita dal rivelatore dell’esperimento ATLAS (A Toroidal Lhc ApparatuS)]
I segnali codificati sono inviati all’elaborare centrale tramite un fascio di fibre ottiche che somiglia al nervo ottico. L’elaboratore, guidato dai nostri codici e programmi di calcolo, fa l’analisi dei segnali e ricostruisce l’immagine nello spazio.
Le analogie con il nostro sistema umano sono sorprendenti: i rivelatori sono quindi gli occhi progettati per essere sensibili alla luce speciale generata dagli acceleratori.
Il super-acceleratore LHC
Cosa vogliamo vedere con il nuovo super-acceleratore LHC? Perché è stato costruito? Ne valeva la pena?
Il Modello Standard (MS) e la Particella di Higgs
Le osservazioni compiute sugli acceleratori dagli anni Cinquanta del secolo scorso a oggi ci hanno permesso di capire che non solo i nuclei degli atomi sono composti (protoni e neutroni), ma che a loro volta questi non sono elementari bensì composti da particelle chiamate quark.
I quark non sono mai liberi, stanno sempre fortemente legati per formare le particelle che chiamiamo adroni (dal greco hadros, forte).
Circa cinquant’anni di fisica sono stati condensati nel cosiddetto Modello Standard (MS), un modello che rende ragione di moltissime osservazioni sperimentali e che ci ha messo in grado di fare delle previsioni che sono state accuratamente verificate.
In questo modello gli elementi fondamentali sono sempre i mattoni (particelle di materia) e le forze che li legano insieme. Le forze, chiamate interazioni, sono a loro volta mediate o «portate» da speciali particelle-forza. Per esempio il fotone, ipotizzato da Einstein nel 1905, media la forza elettromagnetica: l’attrazione o repulsione elettrica tra cariche si spiega come scambio, tra le cariche, di uno o più fotoni.
Le quattro forze fondamentali sono: forza di gravità, forza elettromagnetica, forza debole e forza forte, queste ultime due notevoli solo a livello nucleare. Il problema nelle forze è la loro disparità e la natura molto diversa.
Nella storia della fisica, anzi di tutte le scienze, c’è stata una corsa all’unificazione: fenomeni molto diversi venivano con l’indagine e il ragionamento ricondotti alla stessa causa. Per esempio, nell’Ottocento i fenomeni magnetici ed elettrici furono unificati.
Il Modello Standard ha unificato ulteriormente: nel 1984 Carlo Rubbia fu insignito del Nobel per aver scoperto i «fotoni» della forza debole, dimostrando così la teoria che la unifica con la forza elettromagnetica, tanto che si può ora parlare di forza elettro-debole. [Immagine a sinistra: Carlo Rubbia (1934- ) ha conseguito il Nobel per la fisica nel 1984 per la scoperta della “luce” elettro-debole]
LHC dovrebbe permettere un nuovo passo verso l’unificazione: si spera di trovare le prove che la forza forte alle energie di LHC si comporta come la forza elettro-debole.
Oltre a questo mancherebbe poi di comprendere in questo quadro anche la forza gravitazionale, ma per ora ne siamo molto lontani.
Più complesso è il discorso sui mattoni fondamentali: essi sarebbero 12, 6 quark e 6 leptoni (di cui i rappresentanti più noti sono il comunissimo elettrone e l’elusivo neutrino). [Immagine a destra: La tavola delle particele elementari. In verde le particelle «mattoni», suddivise in tre famiglie o generazione I, II, III. Metà sono quark (che contengono più del 99,99% della massa) e metà sono particelle leggere (leptoni). A destra ci sono le particelle «colla», i portatori delle forze, tra cui spicca il fotone (la nostra luce visibile) responsabile della forza elettromagnetica]
A queste 12 particelle occorrerebbe aggiungere le particelle forza: fotone per la forza elettromagnetica, bosoni(5) Z e W+ e W– per la forza debole, gluone per la forza forte, gravitone(6) per la forza gravitazionale.
Per quanto ne sappiamo oggi, tutte queste particelle sono elementari, cioè senza dimensioni. Non riusciamo a capire l’enorme differenza di massa tra loro: l’elettrone ha massa un miliardo di volte quella dei neutrini, e il quark top ha massa 200mila volte di più dell’elettrone. Nel Modello Standard la massa di una particella è un dato sperimentale inspiegabile. Non è l’unica questione irrisolta. Per esempio: perché cosi tante particelle elementari? Non sono un po’ troppe, considerando anche che ognuna delle 12 particelle ha la sua antiparticella?
Ritorniamo alla massa. Esiste una teoria che si è man mano consolidata e che si è imposta a partire dalla metà degli anni Ottanta, basata sul meccanismo di Higgs (dal nome di Peter Higgs, lo scienziato che tra i primi propose tale teoria).
Essa prevede che tutto l’Universo sia permeato da un campo (o sostanza) speciale, detto di Higgs.
[Immagine a sinistra: Lo scienziato scozzese Peter Higgs (1929- ) davanti al suo ritratto (Callum Bennetts/Maverick Photo Agency)]
Le particelle di per sé sarebbero tutte senza massa e viaggerebbero alla velocità della luce, come il fotone (la nostra luce). Tuttavia tutte le particelle, eccettuato il fotone, interagiscono con il campo di Higgs e questa interazione le rallenta, dando loro una massa apparente.
Come le rallenta? Scambiando con ogni particella la particella-forza del campo di Higgs, chiamata «bosone di Higgs».
Se una particella interagisce di più con il campo di Higgs allora rallenta di più e a noi appare più massiva (più pesante). La teoria è molto elegante e attraente, ha avuto diverse conferme indirette, ma per essere validata occorre trovare la particella di Higgs.
LHC ha l’energia giusta per percuotere il campo di Higgs e farne uscire la particella, cioè il suo granulo di energia, e «offrirla in pasto» ai rivelatori.
Materia oscura ed energia oscura
Circa venticinque anni fa il progetto LHC fu lanciato per studiare l’origine della massa e le varie particelle note, per studiare i quark e cercare di capire se sono veramente puntiformi o hanno a loro volta una struttura interna. Tuttavia da allora due nuove scoperte, entrambe nel settore astrofisico, hanno sconvolto i piani.
Circa venti anni fa si è arrivati alla ragionevole certezza che alcuni fenomeni stellari non siano spiegabili se non ipotizzando che la materia nell’Universo sia circa cinque volte di più di quella che noi siamo in grado di osservare; questa quantità di materia enorme rimane a noi «oscura» e cosi fu chiamata.
Dal Big Bang in poi l’Universo sta espandendosi. Come in un’esplosione i frammenti rallentano la loro corsa a causa dell’attrito dell’aria, cosi le stelle rallentano la loro fuga l’una dall’altra a causa della forza gravitazione che agisce come una molla che le richiama verso il centro. Alla fine degli anni Novanta si scoprì che le stelle più lontane stanno accelerando la loro corsa. La forza di gravità data dalla massa esistente nell’Universo è sovrastata da una forza misteriosa, una specie di anti-gravità, che allontana le galassie le una dalle altre.
Significativamente abbiamo chiamato la causa di questa forza «energia oscura». Questa energia oscura corrisponde a una massa che è ancora di più, circa il triplo, della materia oscura. Ora sappiamo che la parte di Universo a noi nota, non oscura, è appena il 5%.
[Immagine a destra: Contenuto di massa e energia del nostro Universo: solo il 5% è in una forma nota, il resto è ancora «oscuro»]
Anche trovando il bosone di Higgs, che pure rimane una chiave di volta per la spiegazione del mondo, appare chiara la piccolezza della nostra conoscenza rispetto alla grandezza dell’Universo e dei suoi misteri.
È notevole il fatto che più si aguzza la vista e più emergono nuove cose da vedere: una scoperta, la risposta a una questione, apre nuovi interrogativi, come se la domanda che ci muove non avesse fine, fosse inesauribile.
Questa dinamica tuttavia non solo non ci demoralizza, ma ci esalta e ci fa apprezzare che LHC, nato per trovare l’origine della massa delle particelle, ora potrà trovare delle nuove particelle, cui non pensavamo quando LHC è stato progettato.(7)
Riteniamo infatti che la materia oscura sia alla nostra portata: in LHC dovremmo trovarla tra i primi risultati.
Come funziona un acceleratore di particelle Come rappresentato nello schema, un acceleratore si compone del fascio di particelle e di quattro elementi fondamentali. Per generare la nuova luce in grado di illuminare i quark, occorre innanzitutto mettere le particelle in pacchetti uno dietro l’altro. [Immagine a sinistra: I principali elementi di un acceleratore circolare: la camera a vuoto in cui le particelle viaggiano, le cavità che le accelerano, i magneti dipoli che le tengono in orbita (curvandone la traiettoria) e i magneti quadrupoli che focalizzano il fascio di particelle per evitare che si disperda] Questi pacchetti o nuvole di particelle costituiscono una linea che noi chiamiamo fascio di particelle. Questi fasci di particelle devono stare in un tubo a vuoto, in cui le molecole di aria sono state tolte, altrimenti le particelle urterebbero le molecole perdendo l’energia che esse guadagnano. In LHC il vuoto nella camera delle particelle, che ha un volume di 120 m3, corrisponde a una densità di particelle di qualche migliaio di molecole per cm3, circa uguale al vuoto in un’orbita spaziale bassa. Per accelerare le particelle occorrono dei campi elettrici. Tuttavia i normali campi elettrici dati dalle pile o dai generatori in continua non bastano. Occorre intrappolare i campi elettromagnetici delle onde con frequenza radio-televisiva, tra i 100 e i 1000 MHz in speciali oggetti a forma cilindrica, cavi al loro interno, detti appunti cavità a Radio-Frequenza (RF). Infine l’altro elemento fondamentale di un acceleratore sono i magneti. Grazie al fatto che un campo magnetico agisce tanto più potentemente tanto più le particelle sono veloci, esso genera il tipo di forza ideale per particelle veloci. I magneti più grandi che costituiscono la spina dorsale di un acceleratore circolare, sono i magneti dipoli o dipolari: essi curvano le particelle e le tengono in orbita circolare. Sono la pista circolare in cui le particelle scorrono e, come tutti i circuiti per velocità, devono essere perfettamente lisci, cioè il campo non deve avere «asperità» o difetti. |
I Rivelatori, l’elaborazione e le nuove scoperte
Occupiamoci ora degli «occhi» che, aperti sulla luce prodotta da LHC, si stanno abituando a vedere sempre meglio e riconoscere i minimi dettagli della nuova terra da esplorare.
Essi avvolti attorno al punto di collisione, sono pronti a rivelare tutte le nuove particelle e radiazioni che si sprigionano. La quantità di tracce che a ogni scontro essi devono registrare e riconoscere è incredibile.
[Immagine a destra: Tracce delle particelle e radiazione generate dalle collisioni in LHC I rivelatori devono individuare le quattro tracce diritte in giallo che sono la firma della particella di Higgs. Ci si aspetta la firma dell’Higgs solo 1 volta su mille miliardi di eventi!]
Solo dopo un attento lavoro di analisi e scrematura si potrà osservare la «firma» della particella di Higgs sempre che esista! Ci vogliono occhi ben speciali per non essere accecati dal bagliore di LHC e per riuscire a scovare, letteralmente, l’ago nel pagliaio.
I rivelatori di LHC
I rivelatori sono come gigantesche macchine fotografiche digitali, capaci di captare un’immagine e registrarla ogni 25 miliardesimi di secondo, ogni volta che LHC produce il bagliore. In altre parole essi sono capaci di prendere 40 milioni di immagini al secondo: sono oltre un milione di volte più veloci dei nostri occhi.
I rivelatori sono delle strutture a gusci concentrici; ogni guscio è adatto a registrare tipi di radiazione e particelle diverse e il guscio esterno, basato su un grande magnete superconduttore, è fatto per registrare i muoni, «elettroni» molto speciali, 200mila volte più pesanti del comune elettrone.
I rivelatori contengono dei sistemi elettronici tra i più spinti e sofisticati mai concepiti. I più grandi rivelatori, ATLAS e CMS, sono basati su una struttura magnetica superconduttiva. Il magnete superconduttore del rivelatore ATLAS è il più grande dei sistemi tecnici di LHC.
[Immagine a sinistra: Rivelatore ATLAS, 25 metri per 20 metri di altezza, dopo l’installazione del Magnete Superconduttore (un toroide con otto enormi bracci), pronto per l’installazione di tutti gli apparati elettronici]
La camera dei muoni del rivelatore CMS è più compatta, ma fa uso del magnete superconduttore più potente mai costruito.
[Immagine a destra: Il rivelatore CMS, circa 20 metri per 18 metri di altezza, mostrato in sezione con tutti gli strumenti elettronici installati]
Questi due rivelatori, che sono stati progettati per i principali scopi scientifici di LHC (Higgs, supersimmetria, eccetera) sono completati da due rivelatori più specializzati.
Il primo, LHCb, cercherà di spiegare la sottile asimmetria materia-antimateria che esiste in natura mentre il secondo, ALICE, è dedicato agli studi della «zuppa» primordiale di quark e gluoni (questi ultimi sono la colla che tiene insieme i quark).
Nuove scoperte?
Ma una volta che le informazioni sono arrivate al «cervello», ai gruppi di analisi fisica, come si formano le immagini?
Esattamente come per il cervello umano è essenziale l’informazione ottenuta in precedenza. Come ogni attività e conoscenza umana la «tradizione», cioè il complesso d’informazioni raccolte dall’individuo e dalla società è importante per vedere e riconoscere ciò che si guarda.
Questa tradizione si può condensare nei modelli teorici e nei sistemi di analisi con cui sono scrutinati i dati e con cui ai segnali elettrici viene assegnata un’identità: il tal segnale è un elettrone o un fotone di una certa energia, un tal altro è una particella di una certa velocità, massa e carica elettrica e per come si muove rispetto alle altre è altamente probabile che sia la tale particella, eccetera.
L’analisi è talmente raffinata che si può arguire, pur senza rivelarla direttamente, la presenza di particelle elusive come i neutrini. In questo caso la nostra conoscenza è indiretta, cioè basata su un insieme di indizi che trova la sua spiegazione logica in una realtà che non vediamo direttamente ma di cui ci siamo convinti dell’esistenza in quanto la sua esistenza è l’ipotesi che rende meglio ragione di tutti i fattori in gioco e meglio si adatta a una visione globale e sintetica: in altre parole convalida una teoria che trova riscontro nella realtà e che ci rende possibile il predire anche elementi nuovi.
Conclusioni
Il Large Hadron Collider del CERN di Ginevra è il più grande strumento scientifico del mondo. Concepito per farci vedere l’infinitamente piccolo, ci fa compiere anche un affascinante viaggio a ritroso nel tempo, verso l’Universo primordiale. Segno della nostra indomabile spinta a vedere più in là, ci mostra ancor di più come la realtà sia inesauribile: guardando più a fondo con una vista sempre più acuta troviamo forme di materia e energia insospettate e ci porta a modelli teorici sempre più profondi, eppure mai soddisfacenti, nel vero senso della parola: non rendono mai sazi, anzi ci aumentano la fame di conoscenza.
Dove si arresterà la corsa a vedere più in là, a vedere cose mai viste prima, che a partire da Galileo è diventata una galoppata tumultuosa? Eppure la cosa più stupefacente non sono i nuovi orizzonti, ma il fatto che noi possiamo vedere tutto ciò, possiamo capirlo. Forse questo deve far aumentare ancor più la considerazione che abbiamo per la nostra vista: luce, occhio, nervo ottico e cervello.
Tutti questi elementi sono di per sé altamente complessi ma ancor più complesso è come funzionano insieme e come insieme siano un ponte tra la realtà e il nostro io.
Lucio Rossi
(Professore presso l’Università degli Studi di Milano, dal 2001 dirige il gruppo Magneti & Superconduttori per il progetto LHC del CERN di Ginevra)
- Genesi 1,3.
- Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, 12 Marzo 1610.
- “Considerate la vostra semenza //fatti non foste a viver come bruti //ma per seguir virtute e conoscenza”, Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 118-120.
- h è il simbolo per una delle costanti fondamentali in fisica, la costante di Planck, che vale 6,6 10-34 Js. Se moltiplico la frequenza f di un fotone per la costante di Planck (hf) ottengo l’energia di un singolo fotone di luce.
- Tutte le particelle sono divisibili in due categorie generali rispetto alla loro attitudine verso il comportamento collettivo o statistico. I bosoni (tutte le particelle forza, come i fotoni) sono particelle che non hanno individualità, i fermioni (per esempio gli elettroni, i protoni, i neutroni) vogliono assolutamente distinguersi l’uno dall’altro se messi nello stesso sistema.
- Il gravitone, come peraltro le onde gravitazionali, non è stato ancora mai osservato, ma è previsto dalla teoria.
- Si veda anche: Lucio Rossi, LHC, Large Hadron Collider in Emmeciquadro n.33, agosto 2008.
© Pubblicato sul n° 44 di Emmeciquadro