Capita di accorgersi, in molte situazioni della vita, che l’uomo acquisisce la comprensione di sé innanzitutto nel confronto con il mondo esterno. Così si spiega, come indica l’autore in un excursus storico essenziale, perché la riflessione dell’uomo, a partire dai primi filosofi, si è articolata nel tentativo di definire che cosa è la natura. Il dibattito ha sempre coinvolto diversi ambiti del mondo della cultura, anzitutto la filosofia, ma anche la scienza, la religione, la tecnologia, la sociologia, perché le opere dell’uomo e il suo atteggiamento verso se stesso o verso le altre persone è legato alla concezione che si ha di sé. Fino alla situazione attuale, in cui convivono, in modo fortemente contraddittorio, il desiderio di un «ritorno» alla natura incontaminata delle origini e l’affidamento alla scienza e alla tecnologia; un dilemma che spesso porta a negare gli aspetti naturali della persona piuttosto che a scoprire la ricchezza e la potenzialità di significato di un mondo «donato».
Poche nozioni hanno avuto una presenza così pervasiva lungo la storia del pensiero come quella di natura. Dalle prime riflessioni sulla physis nel mondo greco, sino ai movimenti ecologisti odierni, la natura è stata punto di riferimento del pensiero e dell’azione umana. Allo stesso tempo, poche nozioni hanno subito così profonde trasformazioni, e hanno generato delle posizioni così contrastanti come quella di natura.
Una lunga storia
La sua presenza è innegabile, ma anche la diversità di vedute. Aristotele critica il materialismo dei suoi predecessori e identifica la natura con un principio intrinseco a ogni realtà, da cui dipende il suo essere, il suo dinamismo. Il pensiero cristiano reagisce contro l’identificazione manichea della materia con il male e assume la natura come espressione di ciò che più profondamente configura ogni realtà, arrivando perfino a parlare della Natura divina. La natura creata appare inoltre come condizione per l’azione della grazia, e la legge naturale come partecipazione nella stessa legge eterna divina. Questi diventeranno gli elementi portanti della grande sintesi intellettuale della scolastica.
Tuttavia, l’uomo rinascimentale vuole rivolgere alla natura uno sguardo nuovo, per ritrovare in essa il senso puro e originario della realtà, che si considerava oscurato dalla tradizione, dal razionalismo scolastico e da un misticismo prevalentemente escatologico. La nuova scienza è vista come via di accesso alla natura, e ci consente di conoscerla con certezza e dominarla. Ma si vuole andare oltre, e si cerca di raggiungere lo stesso dominio sulla natura umana. Per l’illuminismo la natura diventa espressione di autonomia radicale, ormai emancipata dal teologico. La ragione illuminista, tuttavia, finirà per chiudersi nuovamente tra i meandri dell’idealismo.
L’Ottocento tenterà un nuovo e radicale ritorno alla natura attraverso la scienza, che nel frattempo aveva acquistato una maturità che consentiva di vedere in essa un sapere assoluto e definitivo. La natura, nella sua dimensione empirica, diventa l’unica realtà concepibile; l’elaborazione dei dati empirici del mondo naturale, l’unica conoscenza possibile. Ancora oggi siamo, in larga misura, eredi della mentalità positivista. Tuttavia, anche a causa dell’esperienza dei danni che la tecnologia positivista può originare, alla fiducia cieca nella conoscenza della natura è succeduta l’assunzione della spontaneità radicale quasi come unico valore della natura. I movimenti ecologisti si rivoltano contro il mondo tecnologico e sottomesso agli interessi politici ed economici, volendo quasi isolare la natura dall’intervento umano.
Due concezioni contraddittorie?
Forse questo succinto percorso può non sembrare particolarmente sorprendente. In fondo, non è l’essere criticato e perfino capovolto dalla generazione successiva, un destino comune ad ogni postulato della ragione? Ma anche se si ammette che questo sia un dinamismo essenziale all’evoluzione del pensiero umano, dovrebbe colpirci il fatto della coesistenza di due vedute apertamente contraddittorie nella visione attuale della natura. Esse, tuttavia, sono il motore delle nostre scelte culturali, politiche, e anche etiche e personali.
Infatti, da una parte, il valore rappresentato dalla natura come spontaneità radicale, appare oggi, dal punto di vista sociale e politico, come una priorità. Dobbiamo rivolgere lo sguardo sulla natura. Il paradiso tecnologico promesso dalla scienza non è oggi visto soltanto come un’illusione, ma come un grave rischio per il nostro stesso futuro. Sentiamo il bisogno di proteggere l’ambiente, di difenderlo dallo sfruttamento, di ritornare a una vita in un più diretto contatto con la natura.
[A sinistra: Giovanni Segantini, Trittico della natura. La Vita (1898-1899, olio su tela, 190×320 cm, St. Moritz, Segantini Museum)]
In essa si dà quasi un rigetto della natura come elemento valido per configurare la nostra relazione con il mondo. La natura non sembra avere valore né significato; essa appare soltanto come un materiale grezzo da manipolare e usare secondo i nostri interessi.
Un’importante manifestazione di ciò è il fatto che il concetto stesso di natura, o ancor più, di «naturale», sia stato eliminato quasi completamente dal nostro linguaggio e perfino dalla nostra prospettiva concettuale. Poche nozioni suscitano una reazione così avversa come il riferimento a ciò che «è naturale»: comportamento naturale o valore naturale, sembrano oggi a molti nozioni appartenenti al passato. L’idea stessa di un «ordine naturale», per non parlare di «legge naturale», sembra essere stata abbandonata. Il nostro atteggiamento nei confronti della realtà diventa così paradossale.
Ci si mobilizza per fermare l’uso e lo sviluppo degli organismi geneticamente modificati, o per difendere una specie in pericolo di estinzione; allo stesso tempo si stenta ad accettare che l’identità sessuale biologica di uomo e donna possa costituire un valore e un fondamento certo del loro essere. Si nega, più in generale, che esista qualcosa come la «natura umana».
Siamo di fronte a una mancanza di coerenza nel nostro atteggiamento verso la natura? Non è più la persona umana inclusa nel concetto di natura? Difendiamo la natura, ma forse non ci consideriamo più parte di essa.
Occorre chiedersi quale significato ha la natura per noi, quale sia il suo ruolo nella nostra visione del mondo e della realtà. Infatti, come abbiamo prima ricordato, la riflessione sulla natura è stata proprio il punto di partenza della filosofia. Allo stesso modo che un bambino prende consapevolezza di se stesso a partire dalla sua interazione con le cose esterne (un viso, un suono, le impressioni sensoriali che creano in lui la consapevolezza di essere parte di un mondo), anche l’uomo ha accresciuto la comprensione di sé, a partire dai primi filosofi, innanzitutto nel confronto con il mondo esterno.
I «temi» ricorrenti
Ricordare le diverse concezioni della natura presenti lungo la storia non è soltanto un retaggio di erudizione storica: rappresenta lo sforzo per comprendere la natura e per comprendere il nostro posto in essa. Può essere utile notare una serie di «temi» ricorrenti, in modo diverso, nelle varie concezioni della natura: necessità, contingenza, razionalità, autonomia o dipendenza, determinismo o apertura, autoreferenzialità, trascendenza. Esaminare in che modo possano incidere nelle diverse concezioni della natura potrà forse rivelare alcuni punti deboli nella nostra concezione della natura. Infatti, vorremmo vedere la natura come autonoma, aperta, significante. Ma non di rado la presentiamo anche come necessaria, determinista, autoreferenziale e, in conseguenza, vuota di autentico significato.
Le diverse caratteristiche non sono sempre univocamente collegate. Considerare la natura come necessaria sembrerebbe implicare una visione determinista e razionale, mentre un «futuro aperto» sembra richiedere un mondo contingente, ma forse per questo caotico. Tuttavia queste identificazioni non sarebbero corrette. La «necessità metafisica», almeno quella aristotelica o tomasiana, erano compatibili con una natura contingente e aperta, ma che possedeva un intrinseca razionalità. D’altra parte, è possibile ammettere un’apertura non data dalla necessità intrinseca, ma dalla «volontà» di un principio esterno: il capriccio delle divinità mitologiche, di una deità volontarista o del fatalismo, il che spesso può condurre a una visione del mondo irragionevole.
Un aspetto particolarmente importante è l’apertura alla trascendenza. La nozione di natura può apparire come chiusa nella sua propria fattualità, oppure come aperta a qualcosa che non è dato nella stessa natura. Ma anche tale trascendenza può avere sensi diversi. La natura platonica è trascendente, e tuttavia determinista nel suo eterno ritorno; nella natura giudeo-cristiana, invece, la trascendenza implica una contingenza aperta.
La trascendenza o immanenza della natura può essere collegata anche al suo carattere significante. Una nota assai frequente dell’attuale visione della natura è il considerarla come un puro dato fattuale, come qualcosa esistente di fatto, che ci viene data, ma sulla quale realtà non bisogna o non è possibile interrogarsi ulteriormente. All’estremo opposto troviamo la visione della natura come realtà «significante», cioè come realtà che non soltanto è presente, ma che in qualche modo rinvia a un «senso». Una natura che può essere interrogata, e che a sua volta ci interroga. A partire della nascita della scienza moderna, ma soprattutto nel positivismo moderno, la natura è diventata sempre più oggetto della nostra conoscenza e della nostra azione, ma un oggetto passivo, non una realtà che in qualche modo contenga anche un messaggio che possiamo ascoltare e comprendere.
[A sinistra: Giovanni Segantini, Trittico della natura. La Morte (1898-1899, olio su tela, 190×320 cm, St. Moritz, Segantini Museum)]
È possibile dare alla natura un valore quasi sacro, totemico, ritenere che essa sia una realtà intoccabile, ma allo stesso tempo essere ciechi di fronte al suo significato, restare ciechi di fronte ai segni che manifestano a partire da essa una qualche trascendenza. Una natura assoluta non parla, poiché il dialogo appare soltanto quando si è di fronte alla possibilità di una relazione; quando si è di fronte, in definitiva, a una relazionalità di tipo personale. Allora la natura può avere un significato, perché essa mi parla di qualcun altro. L’immagine del «libro della natura», già presente in Agostino e ripresa da Galileo, risultava dall’intuizione che il rapporto con la natura richieda riconoscere la esistenza di una dimensione trascendente e comunicativa.
Soltanto allora la natura appare come dotata di significato proprio, come una realtà capace di convogliare un messaggio. È questa una delle caratteristiche fondamentali della natura nella tradizione giudeo-cristiana. Il mondo, creato dal nulla, non è semplicemente «dato», ma è «dono». Esso è espressione di una volontà di relazione. Dio crea il mondo per amore, e l’uomo come suo destinatario. Gli elementi della creazione materiale, con la loro razionalità, senso, ma anche apertura e potenzialità di sviluppo, servono anche a esprimere questo amore.
La posizione dell’uomo sulla Terra è quella di chi si sente responsabile del mondo in cui abita, che gli è stato affidato da Dio come sua specifica vocazione, non di dominio despotico ma di servizio. L’uomo non è straniero in questo mondo; egli non è un transeunte che percorre la realtà terrena sfiorandola appena per paura di contaminarsi o di danneggiarla (anche se ovviamente questi sono due pericoli reali).
L’uomo è, invece, signore e custode della creazione e, come tale, coinvolto nel suo presente e nel suo futuro. E lo è perché la natura creata ha per lui un significato: trasmette il messaggio dell’amore di Dio, della sua fiducia in lui, e del valore intrinseco di una realtà aperta, significante, e trascendente.
Rafael A. Martínez
(Professore di Filosofia della Scienza presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma)
© Pubblicato sul n° 45 di Emmeciquadro