Le Università sono luoghi la cui esistenza ci può apparire scontata. Tuttavia, ciò che avviene quotidianamente all’interno di questi luoghi molto particolari è poco noto; viene percepito come prevalentemente legato alle attività di insegnamento (lezioni, esami), mentre tutto il resto (studio, ricerca, maturazione e scambio di idee) resta per i più qualcosa di vago e, al limite, di irrilevante. Suscita poi sorpresa e incredulità l’affermazione che uno degli aspetti più avanzati, importanti e affascinanti della formazione universitaria è rappresentato dal cimento con ciò che è ignoto, con ciò che deve ancora essere scoperto. Ma ancora più lontano dalla percezione comune è che tale confronto con l’ignoto possa venire condotto per anni o decenni al di fuori di qualsiasi finalità applicativa preventivamente immaginata, senza che questo riduca l’ampiezza della sua portata. L’autore mostra, anche attraverso un esempio preso dalla sua personale esperienza, come questa ricerca sia un’avventura umana affascinante, in cui l’attenzione alla realtà deve prevalere sugli schemi mentali con cui inevitabilmente viene affrontata. È così possibile aprirsi all’imprevisto e alle sorprese che la ricchezza del reale può far emergere davanti al nostro stupore.



Le attività di insegnamento, studio e ricerca che si svolgono nelle Università sono quanto di più vario e, potremmo dire anche, di più gratuito si possa immaginare. È impressionante (e può essere disorientante) leggere un elenco di tutti gli insegnamenti che vengono impartiti ogni anno in una Università. Non esiste un ambito della realtà che non sia ritenuto degno di un insegnamento universitario, cioè di quella considerazione approfondita e condivisa di cui sono oggetto le cose importanti, le cose dalla cui conoscenza ci si aspetta qualcosa di buono e positivo, qualcosa da cui speriamo che la nostra esistenza riceva significato, anche se può risultare difficile immaginare come. Vorrei soffermarmi ora proprio su tale difficoltà.



Conoscenze e significati nelle discipline scientifiche

La specializzazione estrema degli insegnamenti e delle conoscenze, che pare oggi una conseguenza inevitabile dell’enorme espansione dei contenuti delle diverse discipline, soprattutto in ambito scientifico, alimenta un senso di reciproca estraneità fra di esse. Questo è particolarmente evidente quando ci troviamo di fronte ad articoli scientifici di ricercatori che operano in ambiti diversi dal nostro, il cui titolo ci risulta quasi incomprensibile: ne deduciamo che anche i nostri lavori devono risultare incomprensibili a chi opera in altri ambiti, e questo ci sembra l’esatto contrario dell’universalità, della validità e importanza generale che attribuiamo al nostro lavoro. Ci stiamo occupando di quisquilie, stiamo spendendo anni della nostra vita nella rifinitura di dettagli insignificanti, nella esplorazione di recessi periferici e irrilevanti dell’edificio universale?
La difficoltà nel percepire il nesso delle conoscenze con il significato della nostra esistenza è particolarmente acuta nel caso delle discipline scientifiche. Ogni uomo cerca, nella propria vita, la verità, la bellezza e il bene. Alla conoscenza e al lavoro scientifico però non viene solitamente associata l’idea di bellezza, quanto quella di una ostilità e di un rigore che sembrano lasciare poco spazio alle esigenze profonde della nostra umanità, al desiderio che ogni persona avverte di amare ed essere amata. Verità sì, questo carattere lo si riconosce alla conoscenza scientifica, ma una verità che tende ad apparirci dura, non solo perché è difficile penetrarvi, ma anche perché si pone inesorabile davanti a noi, annullando ogni nostro arbitrio. Un grande matematico nostro contemporaneo ha parlato, riguardo a questo, di «linguaggio di marmo della logica e della matematica», e degli oggetti della fisica che «parlano il linguaggio di leggi più dure di tutte le leggi umane» (1). Sono sicuro che la percezione di una qualche ostilità nelle scienze ognuno di noi, anche coloro che sono impegnati nella ricerca o nell’insegnamento scientifico, l’abbia provata, anzi la provi in modo ricorrente, magari senza osare ammetterlo.
Nel suo Zibaldone, Leopardi esprime in modo drastico questa percepita incongruenza fra ciò che noi desideriamo e ciò che le scienze possono dirci in risposta a questo desiderio. «Perciò la matematica la quale misura, quando il piacer nostro non vuole avere misura, definisce e circoscrive, quando il piacer nostro non vuole avere confini (sieno pure vastissimi … ), analizza quando il piacer nostro non vuole analisi né cognizione intima ed esatta della cosa piacevole […], la matematica, dico, dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.»(2).
[A sinistra: Albrecht Dürer, Melencolia I]
Si è tentati di mettere in relazione questa percezione della ragione scientifica con quanto raffigurato da Albrecht Dürer nella sua famosa incisione Melencolia I, in cui un personaggio femminile pensieroso, corrucciato, siede fra strumenti di misurazione, solidi geometrici, un quadrato magico.   Al di là delle profonde e dettagliate interpretazioni che ne sono state date, questa immagine riesce a ricordarci in modo incisivo quali possano essere la distanza e l’estraneità che sentiamo fra ciò che noi percepiamo del nostro essere, come evidenza immediata, e l’immagine del mondo che il rigore della conoscenza scientifica traccia davanti a noi, e quale struggimento possa generarsi dal nostro desiderio – continuamente frustrato – di abolire, con le fatiche della nostra intelligenza, tale senso di estraneità.



Sarà capitato a molti di noi di sentire come più affini, come molto più rilevanti per ciò che noi intuiamo come la verità della nostra persona, alcune grandi espressioni letterarie, alcuni capolavori della pittura o della scultura, che non l’elettrodinamica quantistica o le basi biofisiche del potenziale d’azione.
In molti certamente siamo stati toccati nell’intimo da un concerto di Mozart o da un quartetto per archi di Beethoven e, udendone alcuni passaggi, siamo stati sorpresi dall’intuizione di qualcosa di autenticamente nostro.
Di certo non ci accade niente di simile quando guardiamo una rappresentazione della struttura molecolare dell’emoglobina, quando ne consideriamo i cambiamenti indotti dal legame dell’ossigeno, anche se da queste strutture e da queste dinamiche molecolari dipende l’essere in vita di ognuno di noi in questo momento, anche se dall’emoglobina, dal potenziale d’azione, dalla forza elettromagnetica dipende in ultima analisi anche il nostro poterci interrogare su chi siamo e qual è il nostro destino attraverso l’arte, la letteratura, la filosofia.

Modello strutturale dell’emoglobina umana non legata (sinistra) e legata (destra) all’ossigeno
(Da Berg, Tymoczko, Stryer. Biochemistry (6th ed). Freeman & Co., 2007)

 

 

 

Verità della scienza e verità dell’uomo: inconciliabili?

 

 

Di fronte alla sconcertante diversità ed estensione dei campi del sapere scientifico, allo straniamento che accompagna il resoconto che la scienza fa del mondo e di noi stessi, grande è la tentazione di rassegnarsi all’idea di una inconciliabilità fra la verità della scienza e la verità dell’uomo, di una frattura drammatica e insanabile fra l’esperienza che noi facciamo di noi stessi e del mondo, esperienza di cui l’espressione artistica appare a volte come il coronamento e il punto di commovente chiarificazione, e quell’immagine del mondo e dell’uomo la cui forma polverizzata stenta a ricomporsi a partire dalle miriadi di dati che la conoscenza scientifica ci propone in sistemi sempre più complessi. Tale senso di disperata rassegnazione traspare dai versi di Gottfried Benn, medico e grandissimo poeta del Novecento: «Io perduto, dissolto da stratosfere,/ vittima degli ioni -: agnello dei raggi gamma-/ particella e campo -: chimere di infinità/ sulla pietra della tua Notre-Dame. / Ti passa il tempo senza notte e giorno,/ gli anni ti vanno senza neve e frutto/ celando minacciosi l’infinito -/ il mondo è dispersione.»(3)

 

 

 

La motivazione della ricerca: la fiducia nella verità

 

 

Eppure, molte sono le persone che dedicano le loro esistenze allo studio di aspetti apparentemente insignificanti del mondo naturale, e non è raro per i ricercatori passare dieci o venti anni a studiare un solo fenomeno fisico, oppure uno solo delle miriadi di processi biologici esistenti. Che cosa può spingere un ricercatore a spendere un’intera vita di lavoro su uno o pochi dettagli di uno solo dei quasi infiniti oggetti dell’investigazione scientifica? È semplicemente il desiderio o l’ambizione di aggiungere un tassello in più a un mosaico che ne contiene già milioni? È veramente solo quel tassello in più che sta a cuore al ricercatore, oppure c’è qualcos’altro in gioco? E, se c’è, che cos’è questo qualcos’altro?
Innanzitutto, ogni attività di ricerca o di insegnamento sono basati su una indistruttibile fiducia nella verità, nell’esistenza di qualcosa che, pur non lasciandosi mai possedere interamente, viene riconosciuto come la meta ultima, unica e profondamente sensata di ogni sforzo. È in virtù del suo essere riferito alla verità che ogni dettaglio, ogni aspetto particolare della realtà può essere sentito come degno di qualsiasi sforzo teso alla sua conoscenza sempre maggiore. Nello stesso tempo, però, questa verità rivela a noi progressivamente uno sguardo che ci può apparire ostile, talvolta anche beffardo, oppure freddo ed enigmatico.
Che cosa ci può permettere di sostenere questo sguardo senza abbassare il nostro, cioè senza rinunciare a quell’esigenza profonda di cogliere l’unità nella molteplicità, che è uno dei modi in cui si manifesta la nostra natura di uomini? Che cosa ci può distogliere dalla conclusione amara che l’io è perduto, che «il mondo è dispersione»? Io sono convinto che ciò che spinge i ricercatori, qualunque sia la loro posizione rispetto alle questioni ultime dell’esistenza, a non abbassare lo sguardo, anzi a spingerlo sempre più a fondo in scenari che ogni volta e sempre più si rivelano diversi da quelli attesi, sia il presentimento più o meno confuso, la consapevolezza più o meno nitida che attraverso lo studio, attraverso l’esperimento, noi entriamo in rapporto con qualcosa di grande, con qualcosa che ci eccede e nello stesso tempo ci abbraccia.
È il desiderio di questo rapporto che ci spinge a staccarci dai nostri punti di appoggio, familiari e rassicuranti, per poter penetrare sempre più in profondità. In uno dei suoi Frammenti, Novalis annota: «La semplice analisi, il semplice esperimento e la semplice osservazione portano in spazi imperscrutabili e semplicemente nell’infinito.»(4).
Questi «spazi imperscrutabili», questo «infinito» non si spalancano però al ricercatore in modo spettacolare, in forme che immediatamente producano un’attrattiva, come accade quando un panorama splendido si apre agli occhi di chi è salito in vetta a una montagna, o il mare si offre all’improvviso nella sua immensità al viaggiatore dopo una curva della strada. Gli spazi imperscrutabili rivelati dall’esperimento possono dare segno di sé in modo irritante, in forme che suscitano più il nostro disappunto che il nostro aperto stupore.

Entrare in questi spazi e goderne presuppone spesso il riconoscimento di un nostro stato di sbandamento e di errore: cercavamo qualcosa che non esiste, per questo non vedevamo la porta aperta davanti a noi, e anche dopo averla vista vi entriamo obtorto collo, non contenti di rinunciare alla strada immaginata per seguirne una di cui non conosciamo l’inizio, la fine, il percorso.
Qualcosa accade che ci porta dove non vorremmo.

 

 

 

Breve storia di un imprevisto nella ricerca

 

 

A titolo di esempio, vorrei raccontare brevemente la storia di uno studio che si è svolto di recente nel mio laboratorio. L’ambito dello studio sono i meccanismi e la regolazione dell’espressione genica, cioè l’insieme dei processi, finemente controllati a diversi livelli, attraverso i quali le istruzioni genetiche, che sono scritte nel DNA cromosomico sotto forma di sequenze di basi azotate appartenenti a quattro diversi nucleotidi (A, C, G e T rispettivamente per adenina, citosina, guanina e timina), vengono lette e utilizzate per la biosintesi di prodotti genici (molecole di RNA e proteine), i quali svolgono nelle cellule le più svariate funzioni, costituendo il fondamento molecolare irrinunciabile di qualsiasi processo biologico, dell’esistenza come tale di qualsiasi organismo vivente.

 

 

Una premessa: Il gene e la sua espressione

 

 

Comunemente, ci si riferisce con la parola «gene» a un pacchetto definito di istruzioni per la sintesi di un particolare prodotto genico. Anche se questa definizione è riduttiva e per certi aspetti superficiale, essa permette di capire facilmente come le concentrazioni cellulari di ogni prodotto genico dipendano direttamente dai livelli di espressione del gene corrispondente.

Le fasi fondamentali dell’espressione genica.
Il cerchio blu rappresenta un fattore di trascrizione; l’ovale arancio rappresenta la RNA polimerasi.
(Da Lodish et al. Molecular Cell Biology (6th ed). Freeman & Co., 2008)


Come mostrato nell’immagine qui sopra, i tre principali tipi di macromolecole biologiche sono strettamente interconnessi nell’espressione genica, le cui tappe fondamentali sono basate su una rete di interazioni macromolecolari che coinvolgono DNA, proteine e RNA. Come fasi principali dell’espressione genica si distinguono la «trascrizione», ovvero la sintesi di RNA (definito in questa fase trascritto primario) sulla base di uno stampo costituito da uno dei due filamenti complementari del DNA, ad opera di un enzima denominato RNA polimerasi; la «maturazione dell’RNA», ovvero la modificazione chimica, spesso profonda, del trascritto primario in modo che esso sia competente a svolgere le funzioni a cui è destinato; e la «traduzione», in cui una particolare tipologia di molecole di RNA, definite RNA messaggero (mRNA), vengono utilizzate come stampo per la sintesi di proteine.
Questo avviene grazie all’intervento di piccole molecole di RNA con funzione di adattatori molecolari (tRNA). Attraverso i tRNA, brevi sequenze contigue di tre nucleotidi (codoni) vengono messe in corrispondenza con particolari amminoacidi, in modo che ogni particolare serie di codoni sull’mRNA diriga in modo non ambiguo la sintesi di una particolare sequenza di amminoacidi che costituisce nel suo insieme una proteina.
La prima fase dell’espressione genica, la trascrizione, è anche quella più estesamente regolata. In ogni particolare tipo cellulare, o fase della vita cellulare, oppure in risposta a particolari condizioni o stimoli, solo specifici sottoinsiemi di geni vengono trascritti, cosicché a ogni stato corrisponde uno specifico profilo di trascrizione. Una modalità efficace di rappresentazione di tali profili è quella resa possibile dall’utilizzo di chip a DNA (detti anche DNA microarrays), in cui sono disposte ordinatamente sequenze di DNA che rappresentano ognuno dei geni conosciuti di un certo organismo.

Un chip a DNA dopo ibridazione con un campione fluorescente derivato da RNA cellulare totale


La diversa intensità e il diverso colore di ogni punto nell’immagine del chip fornisce informazioni sui livelli di espressione del gene corrispondente: non è difficile immaginare quanti diversi profili di espressione possano esistere, e quanto complesse e modulabili debbano essere le transizioni da un profilo di espressione all’altro. Da che cosa dipendono i livelli di trascrizione di ogni singolo gene?
Uno dei fattori decisivi è rappresentato dalla presenza, nelle vicinanze del gene (di solito nella regione di DNA posta a monte del sito di inizio della trascrizione), di brevi sequenze nucleotidiche che possono essere selettivamente riconosciute e legate da particolari proteine che agiscono come fattori di trascrizione. Quando queste proteine sono presenti e attive, esse possono legarsi al DNA in corrispondenza di un gene e attivarne (o reprimerne) la trascrizione, facendo in modo (o impedendo) che la RNA polimerasi inizi la trascrizione del gene stesso (vedi l’immagine precedente in questa pagina: Le fasi fondamentali dell’espressione genica).
È evidente che l’identificazione di queste brevi sequenze di regolazione è indispensabile per comprendere come la trascrizione di un certo gene venga controllata.

 

 

La regolazione della trascrizione

 

 

Volendo capire la regolazione della trascrizione di un gruppo di geni nel lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae (un fungo unicellulare che è utilizzato con grande profitto come organismo modello rappresentativo di tutte le cellule eucariotiche, e quindi anche delle cellule umane), abbiamo seguito il principio secondo cui in specie diverse, ma strettamente imparentate dal punto di vista evolutivo, le sequenze di DNA implicate nella regolazione dell’espressione genica tendono a presentarsi come maggiormente conservate, rispetto alle sequenze circostanti non coinvolte nella regolazione.

Allineando quindi le sequenze di DNA a monte dei geni che ci interessavano in un certo numero di specie distinte di lievito (si trattava di un gruppo di circa 70 geni i cui prodotti genici sono piccoli RNA non tradotti, denominati snoRNA), abbiamo cominciato a osservare risultati come quello rappresentato nell’immagine che segue, in cui appaiono come conservati (in nero) un certo numero di blocchi di sequenza, alcuni dei quali abbiamo potuto facilmente correlare al legame di fattori di trascrizione già noti.

Allineamento delle sequenze di DNA presenti a monte dello stesso gene (SNR3) in cinque specie affini di lievito, fra cui Saccharomyces cerevisiae, il comune lievito di birra. Sono evidenziati i tratti di sequenza conservati in tutte le specie.


C’era però un motivo, approssimativamente descritto dalla sequenza GCCCTAA, che non poteva essere messo in corrispondenza con nessun fattore di trascrizione noto. Questo motivo risultò presente, in una posizione molto simile, a monte di molti dei geni che stavamo studiando, proprio come atteso per il sito di legame di un regolatore comune come risulta dall’immagine seguente.

Conservazione della sequenza e della posizione del motivo di sequenza AGCCCTAA a monte di numerosi geni per gli snoRNA in S. cerevisiae (Adattato da: Preti et al. (2010) Mol Cell 38, 614-620)

 

 

L’enigma della proteina Tbf1 e la sua soluzione

 

 

L’unica proteina che, sulla base di quanto già noto, avrebbe potuto legare questo motivo, era la proteina Tbf1, di cui si sapeva che si lega a regioni specializzate dei cromosomi, i telomeri, dove svolge funzioni non correlate alla trascrizione. Trovandomi, per quest’ultima ragione, a essere scettico riguardo alla possibilità che Tbf1 potesse agire come fattore di trascrizione per i nostri geni, dopo un tentativo (poco convinto e senza successo) di rilevare una interazione fra Tbf1 e i geni stessi, ho deciso di orientare le ricerche in altre direzioni.
Tuttavia una collaboratrice più giovane, da poco entrata nel laboratorio come dottoranda di ricerca, non condividendo il mio scetticismo, mi propose di verificare sperimentalmente, in modo più estensivo e deciso, l’ipotesi che potesse essere proprio Tbf1 a legarsi a queste regioni di controllo. In fin dei conti, perché avremmo dovuto escludere che una stessa proteina potesse svolge ruoli non trascrizionali a livello dei telomeri e ruoli di controllo della trascrizione a livello dei nostri geni? Il risultato di questa nuova serie di esperimenti fu pienamente positivo, aprì le porte a una nuova collaborazione che ci portò a dimostrare che Tbf1 si lega a molte regioni di controllo e regola la trascrizione di centinaia di geni di lievito (5), e permise un importante ampliamento degli interessi di ricerca nel laboratorio.

 

 

La «morale» della storia: evitare i pregiudizi

 

 

Ci sono almeno due aspetti di questa semplice storia sui quali mi sembra utile soffermarsi.
Il primo è che è stato lo slancio privo di pregiudizi di una persona molto più giovane, molto meno «esperta», a portare alla scoperta di cui ho raccontato. Io, sulla base di un indizio cercato senza convinzione e non trovato, ero pronto a lasciar perdere. Per il quadro che mi ero fatto delle cose, la proteina Tbf1 non doveva essere un fattore di trascrizione (cioè: avevo deciso io cosa poteva o non poteva essere). Ma la realtà si impone nella misura in cui cediamo, nella misura in cui viene meno il nostro pregiudizio.
Il secondo aspetto che emerge è che i dati sono inesorabili, e ti portano dove non avevi previsto. Io due anni prima non avrei mai pensato di studiare questa proteina, che invece adesso sta orientando i miei interessi verso direzioni del tutto impreviste.

 

 

 

L’inesorabilità del dato: arrendersi alla realtà

 

 

L’inesorabilità del dato nell’indagine scientifica è ancora più evidente quando, fatta un’ipotesi di lavoro, previsto un certo scenario, ci prepariamo lungamente, lavoriamo mesi per allestire l’esperimento. Arriva il giorno cruciale in cui, dopo mesi di preparativi, si conclude l’esperimento, si raccolgono i dati, e… questi si rivelano tutt’altro rispetto a ciò che ci aspettavamo, rispetto a ciò che, magari senza confessarcelo, fortemente speravamo. In questi casi è veramente come se qualcosa che non conosciamo ci venisse incontro e ci dicesse: «… adesso seguimi dove tu non vuoi…».
Questa dinamica viene nitidamente descritta da Laurent Lafforgue: «Un ricercatore lancia il suo assalto contro i fatti, tenta dapprima di far sì che obbediscano alle sue idee preconcette, ma i fatti gli resistono con una durezza più forte del diamante; la volontà del ricercatore, spossata dopo tanti assalti vani, finisce per cedere, e allora soltanto, reso dalla prova un po’ più ricettivo alla verità, egli può accettare finalmente di inchinarsi ai fatti tali quali sono, di lasciare che si esprima in lui una verità più sottile e più bella, mai vista prima, che non viene da lui.» E ancora: «Un ricercatore […] è, nella misura in cui si rende degno di tale nome, un uomo che accetta di essere portato dai fatti là dove non avrebbe potuto né immaginato di essere portato.» (1).

Nell’arrendevolezza di questo essere portati è più facile sperimentare un genere molto particolare di commozione, quella suscitata da qualcosa di talmente fondamentale e pervasivo da divenire quasi impercettibile: l’esistenza stessa delle cose. Le cose esistono, fatte come sono fatte, e non come noi le pretenderemmo! La loro apparente estraneità, il loro sfuggire ai nostri pregiudizi o calcoli, è indizio della loro autenticità, che proprio in questo modo, addirittura anche attraverso la nostra frustrazione, ci viene rivelata.
A questo punto, allora, ritorna in una luce diversa la domanda da cui siamo partiti: che cosa ci spinge a passare anni per chiarire qualcosa che può apparire come un dettaglio insignificante (per esempio, una proteina che attiva la trascrizione di certi geni in un fungo unicellulare)? Che cosa ci sta veramente a cuore? è quel dettaglio in sé e per sé? è avere quell’informazione in più? No. Quello che affascina è che attraverso il lavoro di ricerca, attraverso l’esperimento, noi entriamo in rapporto con qualcosa di grande: di talmente grande che ci prende (se solo acconsentiamo) e ci porta dove non avevamo pensato. È questo rapporto la cosa fondamentale: ancora più importante di ciò che questo rapporto porta a conoscere in più.
Non c’è meno verità nel cammino di ricerca della conoscenza, che nel suo risultato fissato in forma di contenuti. In un colloquio, per me prezioso, avuto tempo fa con alcuni liceali, una ragazza ha detto: «Sono contenta di essermi addentrata a scuola nella matematica e nella fisica, che tendevo a vedere come qualcosa di ostile, perché percorrere questa strada, che mi ha dischiuso via via nuove dimensioni della realtà che neanche sospettavo, ha dischiuso maggiormente ai miei occhi la grandezza di chi sono io».
Ma questo è ciò che accade in un rapporto: la grandezza di ciò con cui siamo in rapporto, quanto più seriamente siamo implicati in questo rapporto, tanto più diventa anche la nostra grandezza. Ed è reso evidente dalla pratica seria delle discipline e della ricerca scientifica, che ciò con cui attraverso di esse siamo in rapporto, è infinito.

 

 

 

I ricercatori: come gli scalpellini di una cattedrale

 

 

Tuttavia, questa realtà che rimane sempre irriducibile, che si lascia intravedere in un modello per poi sfuggirgli, potrebbe apparirci più come qualcosa di ostile che come qualcosa di appagante: qualcosa che ci fa paura per la sua durezza e inafferrabilità; qualcosa che non ci si presenta necessariamente come amabile. Credo che sia importante, nello studio e nella ricerca scientifica, non censurare o ridurre questo aspetto di asprezza e di severità: si tratta di una lotta dalla quale si può uscire molto provati, ma nessuno potrà mai negare che questa lotta sia qualcosa di buono.
Per utilizzare un’immagine felice suggeritami da un amico e collega all’Università di Parma, siamo come scalpellini in una cattedrale immensa, che nessuno riesce a cogliere interamente; siamo lì e ci occupiamo di un particolare, come un capitello di una delle centinaia di colonne, un particolare nascosto e che forse in pochissimi noteranno, ma noi possiamo stare lì, nella cattedrale, a lavorare colmi di gratitudine, purché ci sia data la consapevolezza che quel particolare che sta davanti a noi, a cui stiamo dedicando il nostro lavoro, la nostra vita, è connesso con tutti gli altri.
Se questa consapevolezza accade, allora il particolare che noi studiamo diventa la nostra via privilegiata per entrare in rapporto con qualcosa di grande, con quel tutto in cui il particolare perfettamente rientra, con quel tutto in cui risiede la nostra speranza. Il processo che si rinnova continuamente, nella ricerca scientifica, di formulare modelli, metterli alla prova, rivederli, rimetterli alla prova, non è altro che una delle forme che assume il nostro rapporto con quell’infinito, quel mistero a cui noi per natura tendiamo, e in cui, che lo ammettiamo o no, noi riponiamo la nostra speranza.
Senza almeno un accenno di questa speranza, senza il fondato sospetto (non necessariamente consapevole o ammesso) che le cose alle quali consacriamo la nostra vita – elementi minutissimi, apparentemente neutri e irrilevanti della realtà – non sono lì invano, hanno un significato, sono in relazione con la verità del nostro essere, senza di questo nessuno di noi continuerebbe a studiare la «sua» infima parte di realtà con quella dedizione che non dovrebbe mai apparire scontata, così come non è scontato il darsi continuo di risposte che sempre eccedono le nostre domande.

 

 

Giorgio Dieci
(Dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Parma)

 

 

 

Indicazioni Bibliografiche

  1. L. Lafforgue, La recherche fondamentale a-t-elle un sens? Quelques remarques d’un mathématicien catholique., in: Conference, University of Notre Dame, Notre Dame, IN (USA), 2011.
  2. [2] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, n. 247.
  3. [3] G. Benn, Poesie statiche, Einaudi, Torino, 1982.
  4. [4] Novalis, Frammenti, Rizzoli (Milano) 1976, n. 416, p. 132.
  5. [5] M. Preti, C. Ribeyre, C. Pascali, M.C. Bosio, B. Cortelazzi, J. Rougemont, E. Guarnera, F. Naef, D. Shore, G. Dieci, The telomere-binding protein Tbf1 demarcates snoRNA gene promoters in Saccharomyces cerevisiae, Mol Cell 38 (2010) 614-620.

 

 

 

© Pubblicato sul n° 46 di Emmeciquadro


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