L’uomo questo … (s)conosciuto
Era il 1935 quando Alexis Carrel pubblicava L’uomo questo sconosciuto: un titolo molto eloquente, che alludeva, per contrasto, ai grandi progressi della biologia e della medicina. Grazie a questi da un lato si stavano ampliando le possibilità di conoscenza dell’organismo umano; dall’altro si consentiva di intervenire sia preventivamente tramite i vaccini – si pensi a Pasteur di cui si parla nella sezione Scienza&Storia – sia chirurgicamente in modo sempre più sicuro, grazie anche a nuovi metodi come quelli che avevano assicurato allo stesso Carrel la conquista del premio Nobel per la Medicina esattamente cento anni fa.
Quel titolo esprimeva anche la convinzione del grande medico francese circa la natura irriducibile dell’uomo e quindi i limiti intrinseci di una scienza, ancora in gran parte positivistica, che le impedivano di leggere completamente la complessità tipica di ogni vivente e massimamente manifesta al livello della persona.
Da allora i progressi sono proseguiti a ritmo esponenziale, passando attraverso tappe fondamentali come la scoperta della struttura a doppia elica del Dna (1953), il vaccino contro la poliomielite (1955), il primo trapianto di cuore (1967), il sequenziamento completo del genoma umano (2003) e la prospettiva attuale della medicina personalizzata.
Sono però aumentati anche i potenziali rischi delle scienze biomediche e le insistenti minacce di una tecnoscienza che non si arresta davanti a nessuna critica, evitando accuratamente di porsi in profondità gli interrogativi sull’uomo, sul valore della vita e sulle condizioni di applicabilità delle tecniche che via via si rendono disponibili. Lo si può constatare acutamente nel dibattito che accompagna la ricerca e le prime applicazioni delle cellule staminali, descritte in questo numero da Augusto Pessina.
A prima vista, l’imponente mole di conoscenze accumulate potrebbe indurre a riformulare il titolo del libro di Carrel togliendo la «s» dall’aggettivo. Ormai i bioscienziati stanno dando l’assalto alla roccaforte principale del «pianeta uomo», cioè il cervello, e con innegabili successi; facilitati anche dalla disponibilità di strumenti di indagine potenti e non invasivi come la risonanza magnetica funzionale o la tomografia a emissione di positroni. Ciò consente loro di lanciare ponti verso altri domini conoscitivi un tempo lontani da quelli delle scienze naturali, come la linguistica: l’articolo di Andrea Moro illustra efficacemente gli esiti di tale incrocio di saperi che consente di indagare le radici del linguaggio umano e di riconoscerlo come reale «stoffa del mistero dell’uomo».
In questa progressione conoscitiva non ci sono solo rischi pratici e applicativi. La complessità elevata dei fenomeni e la contiguità non sempre ben delimitata dei saperi, portano facilmente alla tentazione, abbondantemente assecondata sia da scienziati che da filosofi, di introdurre nuovi riduzionismi dei quali il più eclatante riguarda l’interazione mente-cervello: è l’idea che la prima sia semplicemente il prodotto di alcune funzionalità del secondo e che quindi la mente si identifichi col suo «supporto» materiale.
Il quadro fin qui delineato si riflette nella scuola, sia a livello di visione generale dell’uomo sia come approccio pedagogico.
Si scorge nelle pieghe di molti progetti e programmi, come pure in molti sussidi tradizionali o multimediali, la pretesa di una facile semplificazione del problema-uomo, il non riconoscimento di una complessità e anche di una complicazione in qualche modo intrinseche e che non possono essere bypassate solo con accorgimenti comunicativi o con scorciatoie pseudo-logiche.
A noi sembra che sia più serio accettare il dato di realtà che già Carrel ammetteva «L’uomo è un tutto indivisibile estremamente complicato, del quale è impossibile farsi un concetto semplice. Non esiste un metodo che possa afferrarlo nel medesimo tempo nel suo insieme, nelle sue parti, nei suoi rapporti col mondo esterno». L’ammissione della nostra inadeguatezza vale oggi, in forme diverse, come valeva per il medico francese per il quale era «ben evidente che lo sforzo compiuto da tutte le scienze che studiano l’uomo è rimasto insufficiente, e che la nostra conoscenza di noi stessi è ancora assai incompleta».
Un’ammissione che ha un’elevata valenza educativa ed è anche efficace sul piano della ricerca perché mette in moto la curiosità e invita a esplorare nuovi approcci e nuove piste di indagine.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 46 di Emmeciquadro