Complessità e nuovi Paradigmi
Abbiamo visto nel numero precedente come il lavoro degli scienziati – e un po’ tutto ciò che ruota attorno alla scienza, in primis il suo insegnamento – sia oggi fortemente sottoposto alla tentazione di aggirare gli ostacoli della complessità introducendo, più o meno esplicitamente, nuove forme di riduzionismo.
D’altra parte la complessità è sempre stato un problema, se è vero quanto ricordava Giuseppe Del Re (trattando del tema nel Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede): «Malgrado il sapore di novità, essa è la riscoperta di un problema che risale ad Aristotele, il problema del “uno e molti”: l’emergenza, cioè, dell’unità del tutto come risultato dell’attività coordinata delle parti».
Le potenzialità strumentali e conoscitive oggi disponibili hanno contribuito ad allungare enormemente la lista delle proprietà emergenti e hanno reso ancor più impegnativa la spiegazione di tali proprietà; al tempo stesso, la comprensione dei fenomeni complessi assume il carattere di urgenza data la loro presenza in pressoché tutti i campi del sapere scientifico. Il fatto è che i problemi complessi non richiedono soltanto l’introduzione di nuovi strumenti e l’aumento quantitativo delle capacità di elaborazione (umana o elettronica); sembrano implicare piuttosto un mutamento di punto di vista, o quello che gli epistemologi chiamerebbero un cambio di paradigma.
La necessità di nuovi paradigmi per la conoscenza di certi livelli della realtà si evidenzia in modo emblematico nel campo delle nanotecnologie, come espresso efficacemente da Gianfranco Pacchioni. Dopo aver ripercorso la storia della microelettronica, Pacchioni osserva che nel procedere dal macro al micro si incontrano dei limiti e che l’affronto del livello nano non può seguire il semplice approccio della miniaturizzazione: ci sono grandezze «che non possono essere ulteriormente ridotte».
Bisogna allora invertire la direzione e privilegiare la linea che va dal basso verso l’alto, «che è semplicemente quello che la natura usa per far funzionare macchine complesse come il nostro organismo. Imparare dalla natura e provare a riprodurre sia pure in forma semplificata i suoi elaborati e complessi processi, sviluppatisi in milioni di anni di mutazioni genetiche, è la vera sfida delle nanotecnologie del futuro con importanti e dirette ricadute sulla medicina e sulle scienze della vita».
Si tratta quindi di accettare la sfida della complessità e di mettere in atto i nuovi paradigmi. Ma perché ciò non diventi il semplicistico adeguamento a una moda e non si traduca in fattore di dispersione – con conseguenze particolarmente pesanti in ambito educativo – occorre un surplus di chiarezza sulla natura della conoscenza scientifica e su come si muove la ragione quando affronta un problema matematico o di una scienza sperimentale. Chiarezza come quella che risalta nelle interviste ad Evandro Agazzi e a William Carroll.
Del primo si può raccogliere un suggerimento, tra gli altri, prezioso proprio in momenti di cambiamento come l’attuale: «Occorrerebbe insegnare la storia della scienza accanto alla trattazione dei “contenuti” scientifici, in modo tale da rettificare una certa idea non corretta di scienza come di un sapere nell’ambito del quale il passato viene concepito esclusivamente come un accumulo di errori o come un superamento di essi».
Il secondo segnala «una tendenza culturale alquanto diffusa che induce a ritenere la scienza come l’ultima autorità riguardo a tutti i problemi senza distinzione di sorta. Le altre discipline, in particolare la filosofia e la teologia, sono relegate a occuparsi di qualcosa che nella peggiore delle ipotesi è illusorio, nella migliore riguarda l’intimo del soggetto e perciò non può essere ritenuto universale e oggettivo».
Carroll osserva acutamente che, proprio quando la sfida della complessità richiederebbe una ragione più ampia e ben fondata, la tendenza ora segnalata «impoverisce inevitabilmente tutte le problematiche, anche quelle squisitamente scientifiche, in quanto le scienze non possono avvalersi del supporto di ulteriori approcci perché considerati meno validi».
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 47 di Emmeciquadro