In un precedente articolo, pubblicato sul Numero 45 di questa Rivista, l’autore ha già messo a fuoco le problematiche della formazione del pensiero matematico (astratto) a partire da esperienze (concrete). Mostra ora alcune conseguenze di tale processo per l’insegnamento della matematica nella scuola primaria e per la formazione dei docenti. Sottolinea poi che la trasmissione della competenza professionale può passare attraverso la comunicazione di esperienze didattiche paradigmatiche. Il racconto in prima persona richiama il fatto che l’autore ha lavorato in classe con l’insegnante.
Una prima esperienza. Si tratta di un’attività di «recupero» realizzata con cinque bambini di una classe terza della scuola primaria [Longo, Avataneo, 2000].
Questi bambini, caratterizzati da difficoltà e lentezze personali ben note all’insegnante, erano gli unici nella classe che commettevano ancora errori nell’uso della rappresentazione (decimale e posizionale) dei numeri. Anche se riuscivano a eseguire meccanicamente le operazioni in colonna, sbagliavano facili esercizi di passaggio tra unità, decine, centinaia.
La base e la scrittura posizionale: ripresa in terza
L’introduzione della base, e il conseguente lavoro sui raggruppamenti e sul cambio, era già stato eseguito nelle classi precedenti utilizzando materiale non strutturato: per esempio stuzzicadenti sciolti, poi raggruppati con elastici a mazzetti di dieci, cento, mille, che venivano usati anche per imparare a eseguire le operazioni in colonna. Ora, in terza, i passaggi venivano ripetuti sull’abaco, poi discussi e registrati sul quaderno.
L’insegnante sperava che questo lavoro permettesse anche ai cinque in difficoltà di arrivare a comprendere e imparare in modo definitivo. Ma ciò non accadeva e sollecitava l’esigenza di un giudizio, sul quale la maestra ha richiesto la mia collaborazione.
Abbiamo osservato insieme i bambini mentre trasferivano sull’abaco alcuni esercizi in cui era necessario eseguire il cambio (per esempio nella somma 587 + 396, la somma delle unità, 7 + 6 = 13, va registrata come 3 unità e 1 decina, cambiando dieci unità in una decina, che va poi aggiunta alla somma delle decine, che diventa 8+9+1, eccetera).
Una difficoltà nell’uso dell’abaco
È risultato evidente che questo strumento rendeva più veloci e consapevoli i bambini senza difficoltà, mentre non aiutava i cinque che non avevano ancora compreso il meccanismo. In particolare, avendoli sollecitati a spiegare ciò che tentavano di fare, abbiamo constatato che essi consideravano identici i dischetti su ogni ferro verticale e dunque non assegnavano ad essi la funzione di rappresentare oggetti (logici) diversi a seconda della posizione.
[A sinistra: Ricostruzione di un abaco di epoca romana (Museo RGZ, Magonza, 1997)]
Riprendo dall’articolo introduttivo, già pubblicato sul Numero 45 di questa Rivista [Longo, 2012]: «Il materiale concreto utilizzato deve essere tale da suscitare domande alle quali il bambino possa rispondere ricorrendo al suo pensiero, ai suoi schemi logici, alla sua fantasia. Un materiale didattico che non suscita delle domande o che risponde da sé a quelle che il bambino si può porre per conto suo, non è di nessuna utilità. Peggio ancora, rischia di bloccare e di soffocare il pensiero matematico del bambino [Fischbein, 1981, p. 23]».
Come operare il recupero?
Quanto accaduto nella classe, è un esempio del fatto che usare oggetti concreti non assicura automaticamente l’avanzamento del processo cognitivo. Occorreva cercare una nuova via.
È ben noto infatti che la ripetizione di esercizi identici a quelli su cui si verifica l’errore non aiuta mai a fare un recupero per gli allievi che sono davvero in difficoltà. La situazione si è sbloccata solo agendo su due strade.
La prima strada consiste nel far ripetere le «azioni» del raggruppare (oggetto del lavoro dell’anno precedente) sollecitando i bambini a prendere coscienza dell’utilità (e quindi del senso) di questo lavoro. Infatti, passando da una grossa quantità di oggetti singoli a una quantità molto minore di mucchietti contenenti tutti la stessa quantità di oggetti, la situazione torna ad essere alla portata della percezione.
La seconda strada consiste nell’utilizzare esperienze di movimento, coinvolgendo il corpo nell’apprendere, non in modo generico, ma su quella precisa struttura matematica da apprendere.
Socialità e creatività: l’abaco vivente
La situazione si è definitivamente sbloccata per quei cinque bambini in un lavoro fatto in comune con il resto della classe: anche questa infatti, quando è possibile realizzarla, è una condizione importante per il recupero perché permette al bambino che deve ancora fare un salto cognitivo di trarre vantaggio dalle dinamiche sociali nella classe.
Durante un intervallo in cortile, un bambino ha liberamente proposto il «gioco» dell’abaco, che consisteva nel costruire un abaco ponendo se stessi al posto degli anelli, su lunghe strisce disegnate in terra e di eseguire operazioni su questo abaco. I bambini della classe hanno vissuto insieme questa attività in clima di gioco, nella funzione sia di eseguire sia di dare ordini a turno.
D’accordo con la tesi di Clotilde Pontecorvo, l’interazione con la classe è stata essenziale per permettere il salto cognitivo, come pure è stato essenziale che l’idea del gioco sia venuta da un bambino e poi ripresa da tutti [Pontecorvo, 1999].
Non è un caso, dunque, che questa esperienza sia risultata particolarmente significativa ed efficace: dopo le vacanze estive, all’inizio della quarta, l’acquisizione risultava ben conservata da tutti, al contrario di ciò che avviene molto spesso dopo le consuete attività di recupero.
Conclusione
Questa lavoro mi ha suggerito che, pur essendo l’abaco un oggetto concreto che si tocca e si manipola, esso non permette di fare esperienza diretta delle azioni di raggruppamento e di cambio ed è perciò utile, per rafforzare l’apprendimento, solo a quei bambini che sanno vedere in esso uno strumento di rappresentazione simbolica di quanto hanno già incontrato e compreso.
Nel gioco fatto, dando vita a un abaco con il proprio corpo, la situazione è cambiata radicalmente, in quanto i bambini erano obbligati a compiere personalmente le azioni di raggruppamento di cui dovevano interiorizzare lo schema.
All’esito positivo ha contribuito in modo essenziale il fatto di permettere ai bambini di esplicitare la propria creatività finalizzandola all’obiettivo, che avevano assunto come proprio.
Movimento, linguaggio, geometria
Una seconda esperienza. La stessa insegnante ha sperimentato in quinta elementare l’uso del corpo per insegnare la geometria, dopo essersi appropriata, in un corso di formazione, dei criteri di conduzione dell’attività fisica finalizzata all’apprendimento. (Per inciso, è bene ricordare che in questo campo è rischioso improvvisare, per la complessità delle dinamiche emotive che si mettono in atto nei bambini).
Alcuni bambini, sdraiati a terra in palestra, avevano la funzione di bastoncini. Altri, guidati da un bambino «architetto», avevano il compito di spostarli per disegnare figure geometriche, come angoli e figure piane. In questo lavoro, per costruire la figura i bambini erano obbligati a discutere tra loro le relazioni esistenti tra i suoi elementi, ricostruendo una definizione «operativa», che non esprime «cosa è» l’oggetto matematico in questione, ma come si fa a costruirlo.
Fare e immaginare
I bambini hanno completato con l’immaginazione, o accordandosi su qualche strategia, alcune imprecisioni dovute allo «strumento». Per esempio se un bambino sdraiato si rivelava troppo lungo o troppo corto, si accordavano tra loro per inventare soluzioni nel comporre la figura desiderata, cioè si staccavano leggermente dalle condizioni reali per idealizzare la configurazione che stavano eseguendo.
È questo il momento in cui il «bastoncino» comincia a diventare «segmento» [Russo, 1998], cioè l’esperienza di costruzione di un modello concreto ha generato la conoscenza geometrica.
Successivamente in classe prosegue l’elaborazione del concetto geometrico: i bambini descrivono l’esperienza fatta guardandola da due punti di vista diversi, quello materiale (i bambini, gli spostamenti eseguiti) e quello dell’immaginazione in cui gli oggetti sono ideali, utilizzando il linguaggio come ponte tra i due livelli di conoscenza [Vigotskij, 1990].
I due punti di vista generano infatti due linguaggi diversi, ma corrispondenti, su cui i bambini procedono in parallelo anche nella registrazione: la lingua comune e il linguaggio della geometria, in una sorta di traduzione simultanea.
Il linguaggio spinge l’astrazione
I bambini nelle classi precedenti avevano già lavorato in geometria, non era quindi la prima volta che si occupavano di angoli e figure. Ma riprendendo in questo modo il lavoro, sono diventati più consapevoli della natura degli oggetti matematici di cui si stavano occupando, e ciò ha prodotto un’evoluzione del significato dei termini.
Il primo risultato ottenuto è la facilità con cui i bambini hanno accettato il fatto che per la geometria le semirette sono illimitate e che l’angolo è una regione illimitata, cioè non quella realmente descritta, ma quella ideale, immaginata, di cui l’altra è un modello pertinente e divertente. Stanno dunque imparando a distinguere esplicitamente il livello concreto dell’esperienza e il pensiero astratto.
Il valore di queste esperienze
Entrambe le esperienze descritte non sono immediatamente ripetibili. Oltre all’esito positivo per i bambini, esse hanno il valore di «soggetti esemplari», secondo la definizione di Alessandra Re [Re,1990].
Questo autore mostra come a monte della costruzione dei sistemi esperti si ponga il problema di caratterizzare gli aspetti significativi della competenza professionale e come a questo scopo sia necessario identificare soggetti esemplari fortemente connotati. Sebbene la Re si riferisca a persone, riteniamo possibile applicare lo stesso criterio di esemplarità anche a prodotti, come i precedenti, particolarmente significativi per la comunicazione.
Le due esperienze riportate evidenziano con chiarezza i criteri su cui si è basata l’insegnante per interagire con i bambini, propongono anzi un modello di integrazione e cioè una sintesi operativa dei molteplici fattori di cui ha bisogno la trasmissione della conoscenza in matematica.
Possono essere dunque considerate un prototipo utile per la trasmissione della competenza professionale.
Anna Paola Longo
(Dipartimento di Matematica del Politecnico di Torino, ricerca svolta nell’ambito del GRIMeD – Gruppo di Ricerca Matematica e Difficoltà)
Indicazioni bibliografiche
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E. Fischbein, 1981, Concreto ed astratto nell’insegnamento della matematica elementare, in G. Prodi, 1981, Processi cognitivi ed apprendimento della matematica nella scuola elementare, La Scuola, Brescia.
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A.P. Longo, G. Avataneo, 2000, L’abaco vivente, in: Matematica e Difficoltà, Pitagora, Bologna.
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A.P. Longo, 2012, L’esperienza nella formazione del pensiero matematico – La dinamica concreto/astratto alla Scuola Primaria, in: Emmeciquadro n. 45
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P. Pontecorvo, et all, 1999, Discutendo si impara, Carocci, Urbino.
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A. Re, 1990, Psicologia e soggetto esperto – La trasmissione della competenza professionale, Tirrenia Stampatori, Torino.
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L. Russo, 1998, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano.
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L.S. Vygotskij, 1990, Pensiero e linguaggio, a cura di L. Mecacci, Laterza, Bari (ed. originale 1934).
© Pubblicato sul n° 47 di Emmeciquadro