“for studies of
G-protein-coupled
receptors”
Nell’ambito della ricerca scientifica non è sempre facile valutare quale sia l’impatto, teorico e applicativo, di una nuova scoperta. Sono infatti solo gli sviluppi successivi, nell’arco di anni o decenni, che ne mettono in luce la portata.
Sulla base di questo criterio, non c’è alcun dubbio che il lavoro di Brian K. Kobilka e Robert J. Lefkowitz, vincitori del premio Nobel per la chimica 2012, rappresenti una delle massime scoperte del XX secolo e in assoluto una delle più significative conquiste scientifiche nel campo della biologia e della medicina. Tali studi costituiscono infatti un contributo fondamentale per la comprensione del meccanismo di azione di una ampia quantità di ormoni, tra i quali il più comunemente noto è probabilmente l’adrenalina.
Per comprendere la portata di questo lavoro, è opportuno chiarire innanzitutto che gli ormoni sono composti chimicamente molto diversificati, prodotti da molteplici organi (che nel loro insieme compongono il sistema endocrino), e che hanno in comune la capacità di attivare determinate funzioni a livello degli organi cui sono indirizzati, detti per questo organi bersaglio.
Dunque, fino a circa cinquant’anni fa, quasi nulla si sapeva in merito ai meccanismi con cui gli ormoni esercitano i loro effetti fisiologici. Una plausibile idea era che essi interagissero, a livello delle cellule degli organi bersaglio, con delle proteine, dette per questo recettori ormonali.
[A sinistra: Robert J. Lefkowitz (1943-…) – Howard Hughes Medical Institute , Duke University Medical Center, Durhan, NC, USA]
Ciò nondimeno, la natura di tali recettori era del tutto ignota e alcuni autorevoli ricercatori addirittura mettevano in dubbio che si trattasse di specie molecolari ben definite.
Quanti sostenevano invece (a ragione!) che i recettori ormonali avessero una ben precisa individualità molecolare, coniarono il concetto di trasduzione del segnale, intendendo con ciò il processo di attuazione dello stimolo ormonale. Con ciò si intendeva che, analogamente a un ricevitore di onde radio che converte la radiazione elettromagnetica in suoni, così a livello cellulare il segnale chimico (l’ormone) viene convertito in una molteplicità di effetti fisiologici e metabolici intracellulari.
Tale era lo scenario quando, verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Lefkowitz volle affrontare la sfida dell’identificazione di tali recettori. In quell’epoca egli sviluppò ricerche (dapprima presso i National Institutes of Health – NIH e quindi alla Clinica universitaria dell’Università di Harvard) con l’obiettivo di isolare il recettore dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) a livello della membrana cellulare.
[A destra: Brian K. Kobilka (1955-…) – Stanford University School of Medicine, Stanford, CA, USA]
Già allora si ipotizzava infatti che quella fosse la localizzazione di molti recettori ormonali. Oggi è ben noto che la membrana è molto più che un involucro, con il semplice ruolo di confinare la cellula dall’ambiente esterno: al contrario, essa non consiste soltanto di un doppio strato lipidico avente tale funzione di confinamento, ma al suo interno, o alla sua superficie, si trovano proteine di varia natura che ricevono stimoli chimici dall’ambiente medesimo, o che regolano gli scambi di composti diversi tra cellula e ambiente.
Quasi alla stessa epoca in cui Lefkowitz avviò le sue ricerche, altri due scienziati americani, Alfred G. Gilman e Martin Rodbell riuscirono a isolare delle proteine di membrana per le quali dimostrarono un ruolo chiave nel processo di trasduzione di segnali ormonali veicolati da molti, anche se non tutti, gli ormoni.
Queste vennero da essi denominate proteine G, in quanto nel loro ciclo funzionale passano da uno stato “attivato” a uno “inattivo” attraverso l’idrolisi spontanea di un nucleotide trifosfato, il GTP. Oggi sappiamo anche che in moltissimi casi le proteine G sono «la cinghia di trasmissione» tra il recettore ormonale e la molteplicità degli effetti fisiologico/metabolici messi in moto dallo stimolo (si veda per esempio l’immagine seguente). Per questo loro lavoro, Gilman e Rodbell ricevettero nel 1994 il premio Nobel per la Medicina.
Un esempio di stimolazione ormonale mediata da GPCR. Nello schema, l’adrenalina (indicata in figura come epinefrina) stimola il recettore che trasmette lo stimolo a una proteina G, promuovendo lo scambio GDP/GTP. La proteina legata a GTP attiva un enzima detto adenilato ciclasi. Esso produce un «messaggero intracellulare», il cAMP, che attiva un’ampia varietà di risposte metaboliche. In questo caso esse sono mediate da addizioni di gruppi fosfato (fosforilazioni) a determinate proteine bersaglio.
(Tratto da: Lehninger, Principles of Biochemistry, AA VV, 5th Ed. (2008) W.H. Freeman & Co.)
Tornando dunque al lavoro di Lefkowitz, egli si occupò precisamente dei recettori che attuano la stimolazione ormonale attraverso le proteine G e che per questo vengono definiti con l’acronimo inglese GCPR (G-Coupled Protein Receptor).
Anche il già citato ACTH esercita appunto il suo effetto attraverso un recettore di questo tipo. Dopo tali studi iniziali, nel 1973 Lefkowitz lavorava alla Duke University dove volse la sua attenzione a certi recettori dell’adrenalina detti beta-adrenergici.
In questo venne ispirato dalla loro importanza fisiologica nella regolazione della funzione cardiovascolare. In queste sue ricerche iniziali egli utilizzò degli ormoni che aveva legato chimicamente a isotopi radioattivi. Quando l’ormone a sua volta legava il rispettivo recettore, questo diventava «visibile» grazie a metodologie analitiche capaci di rivelare la presenza di radioattività. Ciò pose i presupposti per la purificazione di diversi recettori di questo tipo. Si trattò in ogni caso di una impresa formidabile, sia perché la purificazione di proteine di membrana è particolarmente difficile per ragioni essenzialmente legate alla loro stabilità, sia anche perché l’abbondanza relativa di queste proteine nei preparati biologici è dell’ordine di 1 su 100000!
La disponibilità di alcuni di tali recettori allo stato puro pose le basi per investigare il comportamento di qualcuno di essi in un sistema artificiale di vescicole che riproducevano i tratti essenziali delle membrane cellulari. Fu così dimostrato che effettivamente essi erano in grado di trasmettere lo stimolo ormonale alle proteine G attivandole.
Questo rappresentava anche un modello sul quale studiare l’effetto di possibili farmaci sul meccanismo di trasduzione dello stimolo ormonale. Ma oltre a ciò, la disponibilità di alcune di tali proteine creò le condizioni per il clonaggio dei rispettivi geni che le codificano. I tentativi in tal senso furono avviati all’inizio degli anni Ottanta.
All’epoca, il clonaggio di un gene (vale a dire, l’isolamento dello stesso da un genoma completo) era ancora un’impresa formidabile, mentre oggi si tratta di una procedura piuttosto semplice grazie all’affinamento delle tecnologie e alla disponibilità della sequenza di interi genomi. Al progetto partecipò un gruppo della Merck Sharp & Dohme. Inoltre Brian Kobilka si unì all’impresa come giovane post-doc nel 1984, quando aveva 29 anni. Dopo due anni di pazienti sforzi, fu infine isolato un gene codificante un recettore beta-adrenergico. La disponibilità di un gene dischiuse molte prospettive di primaria importanza. Innanzitutto, ciò rese possibile la determinazione della sequenza genica, che anche allora era un’impresa del tutto abbordabile, anche se molto più lunga e macchinosa di quanto non sia oggi.
Una volta disponibile la sequenza, questa poté essere confrontata con tutte le sequenze presenti nelle banche dati. Da un lato, ciò rivelò che esisteva un’amplissima famiglia di geni (e quindi di proteine recettoriali da questi codificate) molto simili in sequenza, e con ogni probabilità in struttura. Assai sorprendente fu anche la scoperta che il recettore sequenziato era imparentato strettamente anche con la rodopsina, vale a dire il principale fotorecettore che è alla base del processo visivo. L’analisi della sequenza fornì anche qualche iniziale suggerimento circa la struttura di tale famiglia di proteine (tutte molto simili tra loro), dando chiare indicazioni del fatto che esse possiedono sette tratti «transmembrana», vale a dire tratti di catena che si estendono da un lato all’altro della membrana cellulare.
Evidentemente tali scoperte aprivano eccitanti prospettive. Kobilka dal 1989 era alla Stanford University, e qui si concentrò su investigazioni volte a ottenere la struttura tridimensionale dei recettori. Anche in questo caso si trattò di un lavoro monumentale, poiché il recettore beta-adrenergico, in quanto proteina di membrana, era particolarmente refrattario alla cristallizzazione, che è un prerequisito per determinarne la struttura mediante cristallografia ai raggi X. Il successo arrivò infine nel 2007 grazie a una serie di originali stratagemmi sperimentali escogitati per ottenere la proteina in forma cristallina (si veda l’immagine seguente).
La struttura di un recettore beta-adrenergico legato (a destra) o non legato (a sinistra) a una sostanza ormonale. In presenza di quest’ultima, il recettore interagisce con il sistema delle proteine G. Il confronto delle due strutture mostra quindi il recettore in due diversi stati funzionali.
(Tratto da: Benovic, JL (2012) Cell, 151, 1148-1150)
Da un lato, la combinazione di dati strutturali, funzionali e di sequenza ci consente di disporre oggi di un quadro estremamente preciso del meccanismo di trasduzione del segnale a partire dalla stimolazione ormonale fino alla attuazione degli effetti fisiologici «a valle» delle proteine G.
Dall’altro, l’analisi sistematica del genoma umano e di altre specie ha evidenziato la straordinaria diffusione delle GCPR. In particolare, nella specie umana esse rappresentano approssimativamente il 4% dell’intero genoma (una frazione davvero cospicua per un’unica famiglia proteica); inoltre, all’interno di tale famiglia si contano all’incirca un migliaio di proteine molto simili l’una all’altra, anche se ciascuna con la propria individualità.
È davvero ragguardevole il fatto che le GCPR sostengano una vasta varietà di fenomeni di stimolazione ormonale, attuata da ormoni che per lo più non hanno alcuna relazione strutturale gli uni con gli altri. Oltre ai recettori beta-adrenergici menzionati, sensibili all’adrenalina, ve ne sono molti altri. Solo per citare alcuni esempi, vi sono quelli sensibili a fattori di crescita, che controllano la divisione cellulare e che quindi in caso di malfunzionamento sono responsabili della proliferazione tumorale; quelli stimolati da una varia famiglia di neurotrasmettitori; quelli che mediano il controllo della risposta immunitaria. A ciò si debbono aggiungere i già menzionati recettori della luce (della classe delle opsine) e in aggiunta anche quelli che mediano la percezione olfattiva.
In tutto ciò si riscontra una tipica strategia adottata dalla natura: vale a dire, accade spesso che funzioni molto diverse possono essere attuate utilizzando un unico schema base, adattato via via a diverse esigenze funzionali. Nel caso specifico è del tutto verosimile che esistesse una GCPR progenitrice, dalla quale nel corso del processo evolutivo sarebbe derivata l’ampia varietà di proteine menzionate, ciascuna dotata di una specifica funzione, anche se il meccanismo base di funzionamento è lo stesso in tutti i casi.
Non da ultimo, si deve menzionare lo straordinario impatto in campo terapeutico che ha avuto il lavoro di Kobilka e Lefkowitz. È infatti sorprendente che una buona metà di tutti gli agenti terapeutici attualmente disponibili agisca attraverso le GCPR, funzionando come agonisti (stimolatori) o antagonisti (inibitori dello stimolo ormonale). A titolo esemplificativo, forse i più noti tra questi sono i beta-bloccanti e gli antistaminici.
Incidentalmente, la storia di questa scoperta rappresenta una eloquente esemplificazione di come una ricerca il cui obiettivo iniziale sia semplicemente la conoscenza di un fenomeno biologico, possa fornire nel giro di pochi decenni la base per un progresso sostanziale della medicina.
Paolo Tortora
(Professore Ordinario di Biochimica, Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze, Università degli Studi di Milano Bicocca)
© Pubblicato sul n° 47 di Emmeciquadro