Nell’avviare una serie di approfondimenti sul tema delle nuove tecnologie informatiche (NTI) e dei nuovi strumenti multimediali nella scuola, ci preme anzitutto segnalare con forza alcune preoccupazioni e alcuni criteri e che non possono essere ignorati o sottovalutati senza gravi conseguenze sul piano educativo e culturale. Abbiamo sempre considerato e consideriamo positivamente l’ingresso delle NTI nell’insegnamento: non tanto per una generica apertura al nuovo quanto per le potenzialità che possono esprimere e per l’arricchimento sul piano cognitivo che ne può derivare.
Tuttavia l’impiego di questi, come di tutti gli strumenti, non può non tener conto dell’ambito specifico nel quale vengono applicati: non si può non indirizzare lo strumento ai fini propri dell’ambito stesso. Nel nostro caso si tratta di un ambito essenzialmente educativo e qualsiasi strumento e metodo che vi si applica si giustifica proprio per il contributo che può dare alla crescita della persona e al pieno sviluppo di tutte le sue dimensioni.
La semplice esigenza di adeguamento a una situazione «esterna» che vede una grande diffusione di tali strumenti non è sufficiente a motivarne l’utilizzo nella scuola, soprattutto se ciò non è accompagnato da una adeguata riflessione sulle molteplici implicazioni pedagogiche.
Nella situazione italiana dobbiamo constatare che tale riflessione è mancata, o comunque non ha interessato capillarmente i docenti (e le famiglie): il dibattito, quando c’è stato, si è subito spostato sul «come», sulle modalità applicative, sorvolando sul «perché» e sui criteri che devono sostenere le applicazioni. D’altra parte, da più parti si iniziano a intravedere e spesso a constatare effetti negativi di una fruizione puramente strumentale delle NTI, che si riflette in un certo modo di strutturarsi del pensiero, in una conoscenza frammentata e volatile, in una debolezza di memorizzazione. Per non parlare delle preoccupazioni suscitate da un impiego precoce (scuola primaria) di strumenti che sostituiscono e semplificano procedure tradizionali senza che queste si siano consolidate e siano personalizzate.
Tutto ciò non deve spingere a demonizzare tablet, LIM e Internet; piuttosto sollecita in primo luogo gli educatori a confrontarsi e ad assumersi un ruolo di primo piano nell’accompagnare i giovani nell’avventura attraverso l’attraente ma insidioso continente dell’high-tech.
Abbiamo incontrato Pier Cesare Rivoltella, Ordinario di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Direttore del CREMIT – Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia, responsabile del progetto MOTUS.
Abbiamo posto alcune domande relativamente a questo progetto cui hanno aderito Scuole Primarie, Scuole Secondarie di primo grado e Scuole Secondarie di secondo grado di diverso indirizzo (licei, istituti tecnici, scuole professionali).
Ne è scaturita una interessante conversazione i cui punti salienti potranno essere approfonditi in seguito, anche con contributi specifici di alcune fra queste scuole.
Mario Gargantini
(Direttore Rivista Emmeciquadro)
Potrebbe precisare qual è lo scopo dell’indagine che state portando avanti e che riguarda l’introduzione delle Nuove Tecnologie Informatiche in ambito scolastico?
La nostra indagine non mira a verificare se gli strumenti tecnologici siano in grado di migliorare la qualità del risultato scolastico a livello di apprendimento. Infatti il fenomeno dell’apprendimento dipende da così tante variabili, data la sua complessità, che risulterebbe difficile, se non addirittura impossibile, stabilire sperimentalmente se effettivamente una sola di esse possa incidere positivamente. Prova ne è il fatto che, per esempio, un liceo scientifico statale che è coinvolto nella nostra indagine (il Liceo Scientifico Statale “Leonardo Da Vinci” di Jesi – Ancona) è una scuola tradizionale (nel senso che finora non si è avvalsa del supporto di strumenti informatici) eppure gli studenti che la frequentano hanno mediamente risultati ampiamente sopra gli standard definiti da OCSE-PISA sia nell’area scientifica sia nell’area linguistica.
Per il motivo appena detto questa indagine intende monitorare se l’introduzione di certa tecnologia possa funzionare come catalizzatore per rivedere le pratiche didattiche adottate dagli insegnanti all’interno di un setting scolastico. Infatti se si adottassero le tecnologie per ragioni non adeguate anche se vere – per esempio perché si riduce il peso dei libri o perchè le famiglie risparmiano soldi (si calcola che ogni famiglia spenderebbe 200 euro in meno) – certamente non sfrutteremmo a pieno le potenzialità che esse possono offrire da altri punti di vista più sostanziali.
Prendendo in esame i dati dell’ISFOL 2012 (Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori) emerge che nel nostro Paese siamo vicini al 20% per quanto riguarda la percentuale di dispersione scolastica. Vale a dire: ci troviamo pesantemente sopra la media europea che si aggira attorno al 10%.
Un’indagine mostra che i problemi che hanno decretato l’abbandono dei ragazzi drop-out sono principalmente due: la mancata corrispondenza tra la propria auto-percezione e quella restituita dal sistema scolastico; secondariamente il modo di valutare da parte dei loro insegnanti. Anche questi dati statistici ci confermano che occorre lavorare sulle pratiche didattiche allo scopo di sollecitare i docenti a riflettere su di esse acquisendo consapevolezza riguardo a quelle che necessitano di essere ritoccate.
In base alle nostre ricerche sul campo avvalersi delle risorse tecnologiche in maniera efficace significa considerare pratiche didattiche basate sul problem solving che favoriscono la motivazione degli studenti in quanto innescano in loro il gusto della scoperta. In questa prospettiva le lezioni non sono mai teoriche, ma assumono come punto di partenza lo studio di un fenomeno o aspetto nell’ambito di un certo contesto (che noi definiamo episodio di apprendimento situato); contemporaneamente il docente fornisce un framework concettuale; infine gli studenti riportano le riflessioni stilando un briefing che descrive e spiega quanto è avvenuto, è stato osservato e compreso. Questa metodologia rispecchia quella del metodo sperimentale, perciò risulta molto adeguata all’insegnamento delle discipline scientifiche.
Chiaramente approcci di questo tipo richiedono tempi molto più lunghi rispetto alla tradizionale lezione frontale. Infatti bisogna avere la pazienza di aspettare che siano gli studenti stessi a mettersi in azione per la comprensione dei fenomeni che investigano. In questo senso occorre anche che un docente ridefinisca il curricolo nell’ottica di ridimensionare il numero di contenuti che si affrontano e optando per una scelta oculata di essi, mirata a un apprendimento meno ampio dal punto di vista degli argomenti trattati, ma che vada più in profondità.
Questo significa che il guadagno che si vuole ottenere non riguarda la quantità di informazioni che si acquisiscono, bensì la capacità di muoversi, con maggiore scioltezza e flessibilità, anche in contesti completamente nuovi, attraverso l’adozione di ragionamenti che inneschino un transfert cognitivo.
Abbiamo detto che attraverso questa indagine non verificheremo il miglioramento dell’apprendimento. Tuttavia, lavorando sulla trasformazione delle pratiche didattiche, potremo verificare negli studenti aspetti importanti, che sono ad esso connessi, quali: i ritmi dell’attenzione, l’innesco di curiosità, la motivazione, il miglioramento della capacità collaborativa. Infatti queste sono variabili facilmente osservabili e circoscrivibili
Attualmente nell’insegnamento delle materie scientifiche, in particolare fisica, chimica, biologia, si perde quasi sempre la valenza culturale, censurando la dimensione sperimentale e la dimensione storica, caratteristiche del sapere scientifico La metodologia da lei indicata potrebbe andare nella direzione di un recupero di questi aspetti, per lo meno in quelle scuole di tipo tradizionale, ma di eccellenza a cui lei accennava prima?
Credo proprio di sì. Anche se occorre mettere a fuoco con chiarezza cosa si intende per eccellenza: se significa semplicemente adeguarsi a uno standard (quello fissato dalle indagini OCSE-PISA) c’è il rischio che ci si accontenti di addestrare gli studenti con lo scopo di raggiungere risultati mutuati esclusivamente, o prevalentemente, dalle esigenze del mercato. Questo modo di intendere l’eccellenza non può soddisfarci pienamente e non può di sicuro coincidere con una formazione seria e approfondita degli studenti.
Qual è il metodo utilizzato dalla vostra indagine per supportare i docenti?
Il metodo di formazione dei docenti che abbiamo predisposto viene definito ricerca-intervento e consiste nell’organizzare all’interno di ogni scuola dei seminari in plenaria durante l’anno (uno a Settembre, uno a Gennaio, uno a Maggio) con l’obiettivo di fornire un nuovo framework concettuale che sarà verificato, assegnando dei compiti precisi, nel corso della plenaria successiva.
In questo modo, attraverso l’alternanza di momenti di condivisione e verifica del lavoro di progettazione e applicazione (secondo i criteri forniti) che ogni docente autonomamente esegue, è stato accertato che i risultati sulla formazione sono più efficaci rispetto a un corso di tipo tradizionale, esclusivamente teorico.
Tra un seminario in plenaria e l’altro ogni consiglio di classe viene seguito da un coach sia in presenza, attraverso visite programmate, sia on-line. Il coach ha funzioni abilitanti da un punto di vista didattico-metodologico; tuttavia non ha competenze di tipo disciplinare.
A partire dal secondo incontro in plenaria (a Gennaio) attiveremo un lavoro trasversale sui contenuti di ogni disciplina tra insegnanti delle diverse scuole; riteniamo in questo modo di favorire una riflessione e condivisione sull’impatto e la portata della metodologia da noi proposta anche entrando in merito ai contenuti specifici di tipo disciplinare.
Alcuni studiosi ritengono che l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche abbia delle ricadute negative sulla strutturazione del pensiero nel caso in cui venga trascurata la cura dello sviluppo delle capacità manuali. Questo soprattutto nei primi anni di scuola in cui si acquisiscono le abilità grafiche per l’apprendimento della scrittura, eccetera. Cosa ci può dire a questo proposito?
Prima di tutto credo sia importante mettere in evidenza che non c’è ancora nessun risultato scientifico riguardo al fatto che l’uso delle tecnologie informatiche possa avere effetti negativi dal punto di vista dello sviluppo neurologico della persona, tenendo presente che l’approccio che noi adottiamo è largamente improntato sulla scrittura: si privilegia il grafo-centrismo non il pensiero per immagini.
Non solo perché, per come è strutturata la nostra ricerca, gli strumenti informatici costituiscono una risorsa non sostitutiva, ma affiancata ad altre che continuano ad essere utilizzate (per esempio nel caso delle discipline scientifiche le simulazioni si affiancano agli esperimenti dal vivo), ma anche perché queste stesse risorse possono essere utilizzate sempre per sviluppare le abilità grafiche o (per fare un esempio pertinente all’area scientifica) possono contribuire a migliorare la qualità delle osservazioni sperimentali (per esempio attraverso l’uso di microscopi con telecamera incorporata che possono essere in seguito visionate attraverso un monitor).
Il digitale, per come noi lo intendiamo, potremmo dire che non rappresenta una svolta come il passaggio dall’oralità alla scrittura. Per fare un altro esempio: se si scrive con la tastiera certamente vengono seguite logiche diverse rispetto a quando si scrive con la penna; nel primo caso si utilizzano prevalentemente procedimenti logici di natura accumulativa e ricorsiva (si scrivono tante informazioni anche sconnesse logicamente che vengono sistemate e corrette in un tempo successivo), nel secondo caso ci si avvale prevalentemente di strategie anticipative che implicano la traduzione di ciò che si ascolta direttamente, formulando frasi sensate.
Da questo punto di vista possiamo senz’altro affermare che il mezzo tecnologico trasforma anche psicologicamente e cognitivamente il modo con cui si procede. Tuttavia non direi in modo negativo né diverso in senso qualitativo, in quanto le competenze logiche che vengono sviluppate sono sempre quelle valide fin dai tempi di Aristotele: l’inferenza, l’abduzione, la generalizzazione. La diversità, se c’è, consiste nel fatto che lo strumento tecnologico è estremamente flessibile, ma questo è un fattore positivo.
Riguardo ai rischi insiti in un uso scorretto degli strumenti informatici anche dal punto di vista pedagogico (quindi non solo tecnico) il coach ha anche una funzione responsabilizzante.
Secondo lei nel nostro Paese l’introduzione degli strumenti informatici potrebbe sensibilizzare i docenti e le istituzioni in ordine alla necessità di rinnovare la formazione dei docenti sul piano delle pratiche didattiche?
Dal punto di vista istituzionale la Regione Lombardia esclude che con una dote di 250 euro per studente si possa includere anche la formazione o la ricerca. Ma questo è un problema del sistema – paese che per scelta non investe sulla formazione come invece fanno altri paesi. Di conseguenza, i docenti (come ben sappiamo) sono costretti ad auto-finanziarsi per la propria formazione, la quale comunque non incide neppure sulla carriera professionale.
Perciò il problema della formazione docenti è un punto dolente nella scuola che si ripercuote anche sugli studenti: parlando nuovamente di drop-out, nel biennio della Secondaria di secondo grado, che dovrebbe essere il momento in cui affrontare con maggiore serietà e impegno il tema dell’orientamento, troviamo il maggior numero di abbandoni della scuola fra gli studenti e questo si traduce, in termini economici, in PIL non realizzato.
Va ricordato comunque che, indipendentemente dalla formazione o non formazione dei docenti, le tecnologie informatiche dovranno essere introdotte nella scuola perché questa è la direzione in cui sta andando la società; perciò meglio imparare a sfruttare tutte le opportunità che questo passaggio comporta.
a cura di Nadia Correale
(Docente di Matematica e Scienze alla Scuola Secondaria di primo grado. Ha conseguito il dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro presso l’Università degli Studi di Bergamo. E’ «tutor coordinatore» presso l’Università Statale di Milano per il TFA (Tirocinio Formativo Attivo) abilitante di docenti di Matematica e Scienze)
© Pubblicato sul n° 48 di Emmeciquadro