L’abitudine all’uso di materiali sintetici ci fa dimenticare che essi sono il frutto di una lunga evoluzione tecnologica sviluppatasi fra l’Ottocento e il Novecento. Questo articolo ricostruisce questa storia dalle sue origini fino all’introduzione delle prime due plastiche che hanno avuto un largo impiego nei più svariati settori: la celluloide e la bachelite. Particolare curioso: le ricerche sono partite da composti, la nitrocellulosa e la nitroglicerina il cui uso era … tutt’ altro che pacifico!
Che le materie plastiche (e le fibre sintetiche) siano oggi largamente usate in ogni area tecnologica, ed entrino anche in ogni aspetto della nostra vita quotidiana ci pare una evidenza che non lascia spazio a discussioni. Benché si tratti di materiali che non esistono in natura (un esempio paradigmatico di come la tecnologia sia capace, nel bene e nel male, di aggiungere qualcosa all’ordine naturale della creazione), essi sono divenuti di utilizzo così vasto, anche nella realizzazione di oggetti di pregio, da esserci ormai del tutto familiari, tanto da sembrarci, a volte, persino più belli dei materiali naturali.
Per la verità non é sempre stato così e ancora qualche decennio fa un oggetto «di plastica», o un capo di vestiario in fibra sintetica, era visto con un certo disprezzo, o comunque comunicava la sensazione di aver a che fare con un prodotto di bassa qualità, prodotto in serie, forse funzionale, ma mai bello. Oggi invece, grazie anche all’ingresso nelle nostre vite di oggetti di elevato contenuto tecnologico, spesso divenuti «di moda», nei quali le materie plastiche sono largamente usate, la plastica e le fibre sintetiche hanno acquisito uno status di «nobiltà» dal quale sembra impossibile prescindere; chi infatti si immaginerebbe di tenere in tasca un telefonino di legno, o di lavorare con un PC dai tasti di avorio, o chi non preferirebbe indossare un caldo e traspirante giaccone di Gore-Tex piuttosto che un’appiccicosa giacca a vento di tela cerata?
Racconteremo in questo articolo come sono nate, fra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, le prime materie plastiche sintetiche, la celluloide e la bakelite e, in un successivo scritto esamineremo le origini di altri importanti materiali plastici.
Le resine e le gomme naturali
Prima di parlare delle plastiche sintetiche non si può fare a meno di dare un breve accenno ad alcuni materiali naturali dalla struttura polimerica, simile a quella delle plastiche, che l’umanità ha utilizzato fin dall’antichità.
In effetti già gli antichi Egizi utilizzavano delle resine naturali per verniciare i loro sarcofagi e i Greci sapevano lavorare l’ambra, che è una resina fossile. Per venire a tempi più recenti, già in epoca pre-industriale era ben noto l’utilizzo della «gommalacca» per verniciare oggetti di lusso o di pregio, come mobili, piccoli manufatti di legno e strumenti musicali.
La gommalacca deriva dalla secrezione resinosa che alcuni insetti depositano sugli alberi delle foreste della Thailandia ed è solubile in alcol.
[A sinistra: Alexander Parkes (1813-1890)]
Al suo tradizionale uso per la laccatura del legno si aggiunsero, nella seconda metà dell’Ottocento, crescenti utilizzi come materiale isolante per gli apparecchi elettrici, un campo nel quale prese piede anche l’utilizzo del «caucciù»(1) (gomma naturale) derivato dalla secrezione di un albero tropicale (Hevea Brasiliensis) e della «guttaperca», anch’essa una gomma naturale, ma derivata da un diverso albero (di queste gomme furono utilizzati in campo elettrico specialmente i derivati fortemente induriti con un procedimento esteso di vulcanizzazione, noti coi nomi di «vulcanite» o «ebanite»(2).
Ma la provenienza esotica della gommalacca e delle gomme naturali, e i loro complessi e costosi metodi di raccolta, posero molto presto un problema di scarsità e di costi. «Stiamo esaurendo le forniture di gomma indiana e di guttaperca, la richiesta delle quali è senza limiti, ma non la produzione», lamentava già nel 1865 il presidente di un congresso londinese della Royal Society of Arts. E in pronta risposta a questo allarme, nello stesso congresso Alexander Parkes(3) presentava una memoria sulla parkesine, una materia plastica sintetica che egli ricavava dalla nitrocellulosa, che fu la prima di una serie di tentativi di derivare materiali sintetici da questo pericoloso precursore chimico.
Sperimentando con la nitrocellulosa
Fra il 1845 e il 1846 era avvenuta la scoperta della nitrocellulosa e della nitroglicerina, rispettivamente ad opera del chimico svizzero Christian Friedrich Shönbein (1799-1868) e del chimico italiano Ascanio Sobrero (1812-1888). Questi due composti, che avevano suscitato un enorme interesse a causa dalle loro proprietà esplosive, negli anni successivi erano stati ampiamente studiati, alla ricerca di possibili utilizzi alternativi.
La nitrocellulosa, in particolare, che si otteneva per acidificazione con acido nitrico e solforico di varie fibre cellulosiche (usando fibre di cotone si otteneva per esempio il cosiddetto «fulmicotone») poteva essere sciolta in alcol ed etere ottenendo un liquido trasparente e vischioso, il collodion, che versato su una lastra di vetro, diveniva, quando i solventi erano evaporati, un sottile film trasparente.
Il collodion trovò varie applicazioni, per la protezione delle ferite, per l’impermeabilizzazione dei tessuti e come base di sostanze fotosensibili, ma era un materiale di scarse caratteristiche e molto infiammabile. Alexander Parkes trovò un metodo alternativo per l’utilizzo della nitrocellulosa: mescolandola con altri solventi (metanolo) e con agenti elasticizzanti (oli vegetali) ottenne un materiale duro, trasparente e brillante che poteva essere facilmente colorato per imitare materiali pregiati quali l’avorio e la «tartaruga», per produrre bottoni, medaglie, pettini, penne, eccetera, e anche utilizzato come materiale per l’isolamento elettrico.
Parkes fondò quindi, nel 1866, una società per la produzione di questa prima materia plastica, ma non riuscì a produrla industrialmente con caratteristiche stabili e ripetibili. Interi lotti del prodotto venivano così rimandati alla fabbrica perché la loro qualità non era costante e garantita; per tal motivo, e anche per gli alti costi di produzione, nel 1868 la fabbrica fu costretta a chiudere. Il business fu però ripreso l’anno successivo da uno dei soci di Parkes, Daniel Spill (1832-1887), che migliorò il processo produttivo e ribattezzò la sostanza col nome di Xylonite e successivamente di Ivoride, riuscendo a crearle una nicchia di mercato nella produzione di oggetti che imitavano l’avorio.
L’invenzione della celluloide
La sostituzione dell’avorio, in particolare nella produzione delle palle da bigliardo, fu anche lo stimolo che guidò l’americano John Wesley Hyatt(4) alla invenzione, verso il 1870, della «celluloide», una nuova materia plastica derivata anch’essa dalla nitrocellulosa con un nuovo processo produttivo, nel quale si dimostrò essenziale l’utilizzo della canfora, una sostanza cerosa, aromatica, estratta dal legno di un albero tropicale (peraltro già provata anche da Parkes e citata nei suoi brevetti(5)), oltre che di un opportuno uso della pressione e del calore.
[A destra: John Wesley Hyatt (1837-1920)]
In aggiunta alle palle da bigliardo, Hyatt cercò fin dall’inizio di promuovere la sua invenzione per l’utilizzo nelle protesi dentali, tanto che già nel 1870 fondò insieme a suo fratello la società Albany Dental Plate Company.
Le cronache riportano che per questo utilizzo il materiale era tutt’altro che perfetto, ma per certi versi comunque migliore della gomma indurita, parimenti usata dai dentisti in quegli anni. Gli affari di Hyatt riuscirono comunque ad andare avanti e il materiale fu gradualmente perfezionato.
La seconda società da lui fondata, la Celluloid Manufacturing Company, fra il 1872 e il 1880 ebbe un discreto successo, producendo semilavorati (barre, lastre, pellicole, tubi, eccetera) che erano poi utilizzati da altre aziende per produrre svariati oggetti, quali colletti e polsini rigidi da camicia, bigiotteria di basso costo, giocattoli, penne, occhiali, eccetera, sfruttando per la lavorazione le caratteristiche termoplastiche, cioè di rammollimento col calore, del materiale. In particolare la produzione di colletti e polsini, che erano molto di moda a fine Ottocento, consolidò il ruolo della celluloide come materiale a basso costo in grado di consentire anche ai ceti popolari alcuni «lussi» prima riservati ai ricchi.
I polsini e colletti di celluloide, che erano facilmente lavabili, erano infatti d’agevole uso, mentre i precedenti polsini e colletti di cotone inamidato, che si cambiavano tutti i giorni, erano complicati da gestire, e in genere usati da chi si poteva permettere una servitù domestica a cui demandare questo lavoro.
L’altro utilizzo nel quale la celluloide divenne indispensabile fu quello delle pellicole fotografiche e cinematografiche, che furono introdotte a partire circa dal 1888 da George Eastman (1854 –1932), fondatore della Kodak, e da altri. Si aprirebbe qui un vastissimo capitolo, che non abbiamo però lo spazio di affrontare, ma in sostanza possiamo affermare che verso la fine dell’Ottocento la celluloide, che fu la prima materia plastica di largo utilizzo, si era ormai affermata in vari campi industriali ed era entrata nell’uso comune, rimanendo poi in auge per molti decenni(6).
Dalla celluloide alla bakelite
Se Alexander Parkes era pervenuto alla invenzione della parkesine, che come abbiamo visto fu il preludio a quella della celluloide, anche sulla spinta di una incipiente penuria di resine naturali, cinquant’anni dopo la ormai affermata produzione di celluloide si trovò di nuovo di fronte a un problema di scarsità di materie prime, quando la guerra russo-giapponese del 1904 iniziò a creare seri problemi di rifornimento e di aumento del prezzo per la canfora, che proveniva da paesi orientali in qualche modo condizionati dal conflitto.
Fu in questo contesto che emerse la «bakelite», una nuova resina sintetica che cominciò ad essere disponibile industrialmente attorno al 1910. Essa era ricavata dal trattamento del fenolo, una sostanza disponibile in grande quantità e a basso prezzo come sottoprodotto dei catrami che derivavano della gassificazione del carbone (uno dei processi fondamentali dell’industria ottocento-novecentesca), e della formaldeide anch’essa prodotta in grandi quantità dall’industria chimica di quegli anni.
Similmente a quanto è successo per tante altre invenzioni, anche per quella della bakelite ci sono state molte controversie sulla sua attribuzione al chimico di origini belghe Leo Baekeland(7) che, in ogni caso, le diede il nome e che da molti storici è considerato il «padre delle materie plastiche moderne».
[A sinistra: Leo Hendrik Baekeland, (1863-1944)]
In effetti la scoperta che dalla reazione del fenolo e della formaldeide derivava una sostanza resinosa è ben anteriore agli anni in cui Baekeland, e altri, cominciarono a occuparsene; già verso il 1872 il chimico tedesco Adolf von Baeyer (1835-1917) aveva fatto esperimenti in tal senso e anche Arthur Michael (1853-1942), un allievo del famoso Robert Bunsen (1811-1899), una decina di anni dopo aveva rifatto una simile scoperta.
Entrambi questi studiosi non avevano però dato importanza alla scoperta perché essa non rientrava negli scopi principali delle loro ricerche(8).
Bisogna inoltre aggiungere che, a differenza del fenolo, la formaldeide fu disponibile come composto a basso costo solamente dopo il 1888, quando fu inventato un processo catalitico per la sua produzione. Ma neanche allora nuove ricerche condotte sulla reazione fenolo-formaldeide approdarono allo sviluppo di una resina sintetica in grado di sostituire i ruoli che la celluloide si era conquistata, in quanto gli obbiettivi principali dei chimici che la studiavano rimanevano altri e le sostanze resinose che si formavano continuavano ad essere considerate un sottoprodotto indesiderato. Va quindi sicuramente attribuito a Baekeland il merito di aver intuito che ciò che altri consideravano un sottoprodotto era invece un nuovo composto suscettibile di vaste applicazioni nei campi nei quali già si usava la celluloide, e ancor di più nel campo dell’elettrotecnica, che a fine Ottocento era in grande fermento.
[A destra: Baekeland nel suo laboratorio]
Baekeland condusse inoltre un lavoro lungo e complesso per chiarire tutti i fattori che condizionavano la delicata reazione fra fenolo e formaldeide, che doveva essere condotta in varie fasi e accuratamente controllata, applicando calore e pressione nei momenti opportuni, perché si potesse ottenere un prodotto finale di agevole uso. Si arrivò così ai suoi fondamentali brevetti del 1907, a partire dai quali si attivò il processo che condusse alla produzione industriale della bakelite, che fu introdotta da Baekeland gradualmente negli USA.
Inizialmente, piuttosto che fondare una azienda sua propria egli preferì mantenere i suoi brevetti e collaborare con poche aziende produttrici, proponendo sia accordi di produzione di massa, in particolare per l’utilizzo come isolante nell’industria elettrica (nella quale questa resina trovò vasto uso), sia per usi più specialistici, per esempio nelle mole abrasive. In questo modo egli delegò all’esterno del laboratorio che aveva impiantato a Yonkers, vicino a New York, e dove aveva condotto tutti i suoi esperimenti, gran parte del lavoro di «ingegnerizzazione» della produzione industriale della bakelite, riservandosi prevalentemente dei compiti di sviluppo delle diverse varietà della resina e di assistenza tecnica.
Nel seguire questa sua politica Baekeland si preoccupò di difendere il più possibile la sua invenzione, ottenendo una serie di brevetti su vari prodotti basati sulla resina e sui processi per produrla (in particolare il cosiddetto metodo «del calore e della pressione» con il quale si controllava la reazione fra fenolo e formaldeide). In una sua lettera dell’estate del 1910, diretta a potenziali investitori, affermava per esempio che «i brevetti sono congegnati in modo che è quasi impossibile portare avanti qualcosa di pratico senza infrangere tre o quattro brevetti contemporaneamente».
Alla fine del 1910 fu comunque formata la General Bakelite Company, il cui staff direttivo proveniva dalla Roessler&Hasslacher Chemical Company, una società tedesco-americana che produceva formaldeide in un impianto nel New Jersey e aveva ramificazioni in vari paesi.
Le precauzioni di Baekeland nel proteggere la sua invenzione non furono peraltro sufficienti a garantirlo dalla concorrenza di altre aziende e inventori. In America la Condensite Company of America, emanazione della Edison’s National Phonograph Company iniziò a produrre nel 1910 una resina fenolica simile alla bakelite, chiamata appunto «condensite», con un processo messo a punto dal chimico Jonas Aylsworth (1868-1916). In modo analogo si comportò la società Redmanol Chemical Products Company. Con queste due società Baekeland iniziò una lunga controversia legale che si concluse solo nel 1922-23, quando le tre società General Bakelite, Condensite e Redmanol si fusero per dar origine alla Bakelite Corporation.
In Germania Baekeland ebbe una controversia con il chimico Hans Lebach, della società Knoll & Co, che aveva anche lui inventato una resina fenolica e rivendicava la priorità temporale dell’invenzione.
Ma la disputa con Lebach si risolse abbastanza rapidamente e i due soggetti già verso la metà del 1910 vennero a un compromesso, fondando una società in comune, la Bakelite GmbH.
[A sinistra: Radio realizzate con la bakelite]
Successivamente, nel 1928, per la produzione della bakelite fu introdotto un nuovo processo, basato su urea-formaleide, più semplice e condotto a temperature inferiori che eliminava la necessità di riempitivi. I vari tipi di bacheliti erano infatti molte volte dei veri e propri materiali compositi, che oltre alla matrice plastica, contenevano diversi additivi: riempitivi quali farina di legno, o grafite, mica, farina fossile, nonché, per migliorarne l’aspetto, coloranti e altre cariche (per ottenere effetti superficiali di marmorizzazione, tartaruga, o altro).
Alla fine degli anni Trenta del XX secolo la bakelite era largamente usata, oltre che nell’industria elettrica, anche in campo elettronico, automobilistico, ferroviario e navale. Nel 1936 la produzione mondiale annua di bakelite superava le 90.000 tonnellate, ed ebbe un ulteriore picco durante la seconda guerra mondiale, per poi decrescere gradualmente, negli anni Cinquanta, per l’introduzione di nuove materie plastiche.
Epilogo
Se la celluloide fu il primo materiale plastico ad essere usato largamente, la bakelite ebbe usi assai più ampi ed estesi, costituendo la vera introduzione a quel «mondo della plastica», che si sarebbe poi affermato nella seconda metà del Novecento.
Si trattava indubbiamente di un materiale di caratteristiche migliori della celluloide, non infiammabile, resistente agli agenti chimici e di buone caratteristiche meccaniche anche ad alta temperatura. Trattandosi della prima resina sintetica termoindurente, cioè di un prodotto che una volta fuso, raffreddato in uno stampo e indurito, conservava con precisione le sue dimensioni, si prestava particolarmente per la produzione seriale. La bakelite poteva inoltre essere facilmente colorata e lucidata, e fu perciò utilizzata per la produzione di telefoni, elettrodomestici, giocattoli, scatole, gioielli, lampade, ma anche per i cruscotti e gli spinterogeni delle automobili, le bocce per vari giochi, le punte delle stecche per il biliardo, eccetera.
La produzione di oggettistica in bakelite date le caratteristiche del materiale fu intensa e copiosa investendo il mercato in una grande varietà di settori, e la bakelite divenne, negli anni Trenta un materiale particolarmente adatto a esprimere forme fluenti, continue ed eleganti tipiche delle linee «aerodinamiche» dell’Art Deco.
Soppiantata solo a metà del Novecento dall’impiego di nuovi materiali plastici, del successo della bakelite resta ampia traccia in negozi e mercatini, dove i collezionisti sono a caccia di radio, grammofoni, soprammobili, giochi e monili che la passione per l’antiquariato contribuisce a rendere ancora più ricercati e preziosi.
Gianluca Lapini
(Ingegnere Aeronautico. Già ricercatore presso CISE e CESI Ricerca S.p.a.)
Indicazione bibliografiche
Wiebe Bijker, Of Bicycle, Bakelite and Bulbs: Toward a Theory of Sociotechnical Change, MIT Press, Cambridge, Ma, 1995
Joris Mercelis, Leo Baekeland’s Transatlantic Struggle for Bakelite, Technology and Culture, vol 53, n.2, April 2012, pagg. 366-400
G. Lapini, Giovanni Battista Pirelli e la nascita dell’industria della gomma in Italia, in Nuova Secondaria, n. 5, Gennaio 2008, pagg. 101-105
Note
Questo termine è una rielaborazione del lemma cahuchu (alla lettera legno che piange) che gli indigeni sudamericani usavano per indicare il lattice biancastro di alcuni alberi che crescevano nella foresta amazzonica. Il termine divenne coutchouc in francese e fu italianizzato in caucciù. Fu lo scienziato inglese Joseph Priestly, a scoprire che la gomma era una sostanza ottima per cancellare i segni di matita; in effetti il termine inglese che indica la gomma, rubber, viene da to rub, cancellare
La gomma è un polimero, a molecole molto lunghe, con dei legami trasversali fra le molecole piuttosto deboli. Questo dà luogo alle sue proprietà elastiche, ma rende la gomma naturale un materiale di caratteristiche meccaniche piuttosto scadenti e molto variabili con la temperatura (molle col caldo, rigida col freddo), e di facile degradabilità nel tempo. La vulcanizzazione crea, tramite molecole di zolfo, legami trasversali fra le lunghe catene polimeriche, rendendo il materiale molto più stabile nel tempo e più resistente agli agenti atmosferici. La vulcanizzazione viene spinta più o meno a fondo a secondo delle caratteristiche che si vogliono ottenere; si riesce in tal modo a produrre un’ampia gamma di materiali, il cui limite estremo è costituito dalla dura e rigida ebanite
Alexander Parkes nacque a Birmingham nel 1813. Suo padre produceva lucchetti ed egli iniziò a lavorare in una fonderia di ottone. Passò in seguito ad una delle prime fabbriche elettrochimiche, e nel 1841 inventò e brevettò un metodo per la placcatura elettrochimica di oggetti piccoli e delicati. In seguito si occupò anche di metallurgia, gomma e resine sintetiche, accumulando durante la sua carriera più di sessanta brevetti. Morì e fu sepolto a Londra nel 1890
John Wesley Hyatt nacque vicino a New York nel 1837 e iniziò a lavorare a sedici anni come stampatore. Nel 1863 fu attratto da un premio di 10.000$ promesso a chi avesse inventato un materiale adatto a realizzare palle da bigliardo (allora costruite d’avorio). Da questo stimolo nacque la celluloide, che fu peraltro solo una delle sue tante invenzioni (durante la sua vita ricevette più di un centinaio di brevetti su svariate tematiche, compresi cuscinetti a sfera e macchine da cucire). Morì nel New Jersey nel 1920
L’utilizzo della canfora nella produzione della celluloide e di materie plastiche analoghe come xylonite e ivoride fu motivo di una lunga contesa legale fra Hyatt e Spill; quest’ultimo sosteneva di essere stato il primo a utilizzarla e brevettarla e accusava quindi Hyatt di aver infranto il brevetto, ma un tribunale americano diede torto a tutti e due sentenziando che la sostanza era già citata in uno dei brevetti di Parkes. Il salomonico giudizio fu in sostanza a favore di Hyatt, che poté proseguire indisturbato la sua attività industriale in America; Spill fu d’altro canto il principale produttore europeo di un materiale del tutto analogo alla celluloide
Uno dei punti deboli principali della celluloide era l’alta infiammabilità, per cui fu gradualmente sostituita da altri materiali non infiammabili, quali l’acetato di cellulosa; attualmente essa viene usata quasi esclusivamente per produrre le palline da ping pong
Leo Baekeland nacque nel 1863 vicino a Ghent, in Belgio, da una famiglia di modeste condizioni. Studiò scienze naturali nella locale università, e dopo essersi sposato, a 26 anni, nel 1889, si trasferì a New York dedicandosi inizialmente al campo delle emulsioni fotografiche (inventò la carta fotografica Velox), dal quale decise di uscire nel 1899 vendendo per un milione di dollari la società Nepera, da lui fondata, a George Eastman (Kodak). Nel 1939 vendette la società della bakelite alla Union Carbide. Negli ultimi anni di vita divenne assai eccentrico e morì nel 1944 in un ospedale psichiatrico vicino a New York
In effetti il primo cercava di sviluppare coloranti sintetici, e aveva considerato la resina né più né meno che un sottoprodotto fastidioso delle reazioni, il secondo cercava solo di capire il meccanismo di formazione delle resine naturali, per certi suoi studi biologici.
© Pubblicato sul n° 48 di Emmeciquadro