Un’ampia riflessione sulla crescente diffusione delle nuove tecnologie nella scuola, condotta secondo una precisa preoccupazione pedagogica.
I nuovi media vengono chiamati alla verifica lungo l’asse costituito dai tre momenti che segnano il passaggio dall’informazione alla conoscenza: scoperta, attribuzione di significato ed esperienza. Un esame che diventa ancor più impegnativo se si considera il passaggio dalla conoscenza alla saggezza.
I nuovi strumenti possono dare un contributo all’interno di un cammino educativo; tuttavia, per la loro insistenza su pensiero visivo, pensiero breve e multitasking delineano un orizzonte cognitivo limitato e chiedono maggior prudenza nelle applicazioni.



Nel mese di maggio, al festival del cinema di Cannes è stato presentato, fuori concorso e con molto successo, All is lost. Il film, interpretato da Robert Redford, racconta la vicenda di un velista che, a seguito di un incidente alla barca, si trova a lottare per la sopravvivenza, solo in mezzo all’oceano.
Tra i tratti distintivi della pellicola, i critici hanno messo in rilievo – accanto all’impegno, anche fisico, richiesto dal ruolo del protagonista e alle numerose avventure e disavventure che gli occorrono – il fatto che lo svolgersi della narrazione è dominato, più che dalle parole e dall’azione, dal silenzio e dalla logica degli eventi.



L’invasione tecnologica e mediatica della vita

Credo proprio che andrò a vedere il film, non solo per sapere come va a finire, ma anche per-ché m’interessa molto osservare come la natura, nei suoi elementi primordiali – sia ambientali sia umani – è in grado di riprendere il sopravvento sulla tecnica e sui suoi, peraltro utilissimi, apparati. Apparati di cui ci siamo a tal punto riempiti la vita (almeno nel mondo occidentale e nelle società avanzate: altrove le cose non stanno decisamente così), da percepire come inna-turale non tanto il mondo tecnologico in cui siamo immersi, quanto la situazione in cui un black out o un malfunzionamento possono improvvisamente scaraventarci.
Questa specie d’inversione del sentimento fondamentale dell’esistenza, per cui ci viene da considerare «naturale» ciò che, in verità, è piuttosto «artificiale», cioè prodotto della nostra attività manipolatrice o creatrice, la dice lunga sulle condizioni in cui ci troviamo oggi a vivere, istruire ed educare. Anche solo trenta o quarant’anni fa, la tecnica e la tecnologia erano ancora principalmente strumenti di cui l’agire umano, soprattutto in campi come la produzione, le comunicazioni e la medicina, si andava più o meno rapidamente dotando.
Oggi esse si sono sviluppate e ramificate fino a creare un vero e proprio ambiente di relazioni e di scambio, che da un lato ha vita a sé (si pensi ai social network o all’evoluzione continua delle tecnologie stesse), dall’altro si viene a porre come interfaccia tra noi e ciò che continua a essere la realtà nella sua elementare concretezza e fattualità.
Dal punto di vista pedagogico si apre, qui, una prima questione. Nel suo aspetto, diciamo così, di superficie, essa viene di solito identificata con il problema della modernizzazione dei pro-cessi d’insegnamento e d’apprendimento, innescato dalla crescente digitalizzazione dell’informazione e della comunicazione. Così intesa, la questione, nei suoi versanti anche critici (come le mode o i condizionamenti economici e sociali), viene di norma considerata di competenza della Media Education: perciò degli studi e delle ricerche sui consumi di media e di tecnologia nei giovani, sulla padronanza dei linguaggi e degli strumenti multimediali, sulle modificazioni del brainframe mentale dei «nativi digitali», sulle possibilità e i limiti dell’informatizzazione della didattica, sugli effetti che ne derivano per l’apprendimento, sui compiti per i docenti, la famiglia e la scuola(1).
Ma forse essa presenta anche un altro profilo, che la vicenda narrata nel film aiuta a cogliere. L’emergenza in cui viene a trovarsi costringe il velista a spostare il baricentro del proprio agire dal rapporto con la realtà mediato dalla tecnologia a un rapporto con essa più diretto e meno dominabile. Il problema con cui egli deve misurarsi non è più quello della conoscenza o dell’uso di una strumentazione – ma di cosa e come fare, quando la strumentazione non funziona più o resta utile solo in parte. Da un lato, la nuova situazione lo espone in maniera più faticosa e rischiosa al contatto con le cose, al confronto con le forze della natura e agli eventi; dall’altro, lo costringe a riscoprire tutte le potenzialità conoscitive e pratiche della mano, dei sensi e dell’intelligenza, e a rendersi conto che la posta in gioco è diventata ora l’esistenza tout court.
Che cosa suggerisce la parabola del navigatore? Forse, che la prima cosa importante, relati-vamente al rapporto fra nuovi media, istruzione ed educazione, non è il darsi da fare per stare al passo con la tecnologia o per colmare il digital divide tra la scuola e la società o tra le gene-razioni – problemi, certo, reali, e da prendere sul serio.
Ma è piuttosto il riflettere pensosamente sul fatto che la condizione di partenza in cui tutti ci ritroviamo oggi, dal bimbo piccolo all’adulto, è l’invasione tecnologica e mediatica della vita: un’invasione che avanza attraverso i giocattoli elettronici e la televisione, internet, i lettori digitali, gli smartphone e i tablet, i social network – e perfino il gioco on line. Essa comporta non pochi rischi per il modo con cui stiamo nella realtà e diamo forma alla nostra esistenza: in primis la prevalenza dell’artificiale sul naturale, cui siamo esposti senza farci troppo caso da quando ci alziamo dal letto a quando ci ritorniamo.
Rispetto a tale prevalenza, e all’inversione del sentimento di fondo dell’esistenza che essa può silenziosamente indurre, l’educazione a percepire e a riconoscere come significativo già il semplice «esserci» delle cose (dalle più grandi e belle, come il mare, le montagne, le stelle, alle più ordinarie, come le case, gli oggetti, gli animali, gli alberi, le persone sul bus o nel luogo di lavoro, le strade magari ancora vuote «alle prime luci del mattino»(2)) costituisce non solo una necessaria contromisura pedagogica e didattica, ma anche un atto di giustizia elementare rispetto a quello che siamo come uomini.



Dal linguaggio alla realtà – solo andata?

In Mondo e persona, Guardini cita un aneddoto riguardante Federico II di Svevia.
[A sinistra: Romano Guardini (1885-1968]
Toccato dall’interrogativo su quale fosse la lingua primordiale dell’umanità, l’imperatore diede ordine che alcuni neonati fossero tolti ai genitori e meticolosamente accuditi, senza però che si rivol-gesse assolutamente loro la parola. Spontaneamente si sarebbe visto, al momento opportuno, quale lingua avrebbero iniziato a parlare: se il latino, il greco o l’ebraico – le lingue più antiche, per i dotti del tempo. Ma i bimbi non cominciarono a parlare né l’una né l’altra né la terza, e nemmeno il dialetto dei genitori: morirono.
Guardini osserva che l’aneddoto «è molto profondo di significato e vuol dire che la lingua non è uno dei prodotti, ma uno dei presupposti della vita umana»(3). Lingua e linguaggio appar-tengono alla sfera non di ciò che è artificiale, ma di ciò che è inscritto nella natura delle cose e dell’uomo. Cosa significa questo per la nostra riflessione?

Viviamo in un’epoca caratterizzata da una grande varietà e mutevolezza di linguaggi – al punto che spesso si ricorre alla metafora della Torre di Babele per indicare la loro moltiplicazione quasi esponenziale. Non vi è solo la polarizzazione tra linguaggio analogico e linguaggio digi-tale, che attraversa il mondo dell’informazione e della comunicazione.
Il fenomeno delle migrazioni ha reso perlomeno parziale la definizione del nostro come il «bel paese là dove ‘l sì suona», non solo per l’impoverimento cui l’Italia e l’italiano sono andati incontro negli ultimi decenni, ma anche perché abbiamo sempre più di frequente occasione di ascoltare, senza però intenderle (questa è una cosa su cui bisognerebbe riflettere), lingue molto diverse dalla nostra. In terzo luogo, la velocità delle trasformazioni sociali e di costume fa sì che pochi anni siano sufficienti a creare notevoli differenze di mentalità, di lessico e di modi di fare tra una generazione e l’altra – tanto da rendere l’universo di vita, per esempio, della prima metà del Nove-cento lontano quasi come la preistoria dalla sensibilità media degli studenti e dei giovani d’oggi.
Di fronte a una situazione del genere, la risposta è solitamente di tipo funzionale. Si va cioè alla ricerca di un «linguaggio comune», che permetta il massimo possibile di comprensione e d’intesa nei vari campi: dall’economia alla tecnologia, dalla convivenza sociale alla politica. A ciò devono servire anche l’alfabetizzazione informatica e l’apprendimento di una seconda lingua – di solito l’inglese, già presente in ambito scolastico e accademico e ora proposto per-sino (non è troppo?) nei nidi d’infanzia. Sul piano storico si preferiscono indagare e illustrare le analogie, più che le differenze, tra presente e passato (a partire da quelle ideologicamente più simpatiche); nelle relazioni quotidiane s’afferma, tra telefonini e chat, un modo di comunicare pieno di simboli, modi di dire e abbreviazioni.
Questo pragmatismo potrà senz’altro tornar utile, entro certi limiti. Ma se ci fermassimo a esso percorreremmo la relazione tra linguaggio e realtà soltanto nella sua direzione più imme-diatamente strumentale. Considereremmo e adopreremmo le parole, e per estensione i lin-guaggi, solo come segni o codici puramente denotativi. La logica sottostante, però (che affio-ra, per esempio, dall’impianto di pensiero delle teorie costruttiviste) sarebbe una sorta di a-gnosticismo «anticipato» dal campo della metafisica a quello dell’esperienza: cioè una conce-zione della conoscenza, in sostanza, come negoziazione, alla quale il problema della verità delle parole, del linguaggio e delle cose resterebbe programmaticamente estraneo, perché escluso a priori dalle opzioni preliminari circa la consistenza e i fondamenti, tanto della realtà quanto del conoscere(4).
Cosa si perda facendo così, me lo ha fatto riscoprire (preparavo una lezione per il TFA) la pagina in cui Pennac descrive il laborioso processo di apprendimento delle lettere che compon-gono la parola «mamma», e il miracolo che accade nel momento in cui il bambino finalmente non solo la scrive, ma la pronuncia e ne intende il senso.
[A destra: Daniel Pennac (1944 – )]
Ecco la cosa più importante nel co-noscere: il suo accadere come manifestarsi, attraverso la lingua, del significato delle cose, cui contribuiscono insieme sia la padronanza del codice linguistico, sia il rendersi evidente – at-traverso la parola, il linguaggio e il loro contesto vivo di relazione, fatto di realtà e persone – della fisionomia propria del reale(5).
Ma questo è solo l’inizio. Sulla strada che va dalla realtà al linguaggio ci sono due altre espe-rienze preziose per la conoscenza, e perciò anche per l’insegnamento e per l’apprendimento. La prima è ciò che Agostino ha chiamato il gaudium de veritate(6). Esso attesta che l’uomo, in tutto il suo essere, è fatto per la conoscenza del vero e del bene.
La letizia che si produce nell’atto di conoscere la verità, fin dalla conoscenza sensibile e poi in quella intellettiva (e che perciò può accompagnare l’intero fenomeno dell’istruzione, nel teatro non solo della scuola, ma anche della vita(7)), rivela che in essa i fattori costituitivi della natura umana raggiungono un compimento molto più essenziale e profondo di quello, pur reale, che accompagna il riscontro della validità funzionale di un’idea o di una nozione(8).
La seconda esperienza consiste in quello che i medievali intendevano quando parlavano del conoscere come perfezione dell’essere. Perché la realtà, per l’uomo, non è tale se non quando viene «detta» e «nominata»? Perché quello che, nell’atto del conoscere, noi fissiamo nel nome non è un’aggiunta di cui potremmo anche fare a meno, o un’etichetta più o meno convenzio-nale, ma qualcosa di decisivo per la comprensione dell’oggetto che abbiamo davanti e, insieme, di noi stessi? (9) Quale contributo dà alla «nominazione» del reale il fatto di appartenere a una certa civiltà – e perciò di nascere e di essere istruiti e formati in un determinato universo linguistico e culturale, con tutte le sue peculiarità(10)? E infine: perché la realtà non è veramente conosciuta, se non quando – magari anche sbagliando – l’uomo non giunge ad affermarne un significato?
Una risposta analitica a questi interrogativi ci porterebbe lontano – molto lontano. Per esempio, sulle orme di una memorabile allocuzione di Giovanni Paolo II(11), a ripercorrere i tratti es-senziali della cultura come fenomeno distintivo dell’esistenza umana e come orizzonte ermeneutico della conoscenza; e a riflettere sull’intreccio di fattori e di piani che costituiscono la tradizione come medium in cui il sapere viene continuamente elaborato, conservato e comunicato in modo vivo: di generazione in generazione, nel dialogo anche dialettico fra le differenti culture, e secondo una profondità di campo proporzionale allo scorrere del tempo e della storia.
«Dov’è la saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza? / Dov’è la conoscenza che ab-biamo perduto nell’informazione?»(12): questo verso di Eliot potrà forse suonar male agli uomini della «società della conoscenza». Ma riassume bene la densità della strada a doppio senso di circolazione che unisce il linguaggio alla realtà e il pericolo maggiore che incombe su di essa.
I nuovi media, nel loro impianto e nel loro potere attrattivo dell’attenzione e dell’intelligenza, obbediscono a una logica che ha come forma «generativa» l’immagine e l’informazione. Lo si vede dai loro tipici format e dalle attitudini mentali che la loro utilizzazione tende a sviluppare(13). Ma che cosa occorre perché l’informazione divenga conoscenza, e la conoscenza saggezza?

 

 

Osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare …

 

Il passaggio dall’informazione alla conoscenza è un tema su cui, negli ultimi decenni, si è svi-luppata una letteratura molto ampia, nel quadro degli studi sulla comunicazione e sulla forma-zione. Quello dalla conoscenza alla saggezza non è stato, a dire il vero, altrettanto frequentato. Senza alcuna pretesa, provo un po’ temerariamente a dipanare il filo della questione.

Se ponessimo la domanda a Jerome S. Bruner (1915-…), forse lo studioso dell’apprendimento che ha esercitato finora maggiore influenza sulla pedagogia e sulla didattica contemporanee, egli ci risponderebbe che la chiave di volta del passaggio dall’informazione alla conoscenza sta nel momento della scoperta.
Partendo da una situazione problematica, relativamente alla quale possiede (da sé o tramite l’insegnante) le necessarie informazioni, e muovendosi (sempre stimolato e assistito dall’insegnante) in modo induttivo, il bambino arriva alla conoscenza quando scopre il nesso causale tra le cose, nesso che gli permette di trovare la soluzione del problema. Così facendo, giunge a processare le informazioni di partenza e quelle via via ac-quisite, costruendo un nuovo e più esteso bagaglio di nozioni e di schemi, da cui muoverà nelle situazioni problematiche che seguiranno(14).
Il bambino diventa ragazzo, poi adolescente. Dalla scuola primaria passa alle medie, e di qui alle superiori. Aumentano le materie, gli insegnanti, il carico di studio. Il campo dell’informazione si allarga, e di molto, man mano che egli entra nei distinti ambiti disciplinari e si familiarizza con i loro linguaggi e metodi. Ora la chiave di volta non è più solo la scoperta, ma anche e soprattutto, come sottolinea David P. Ausubel (1918-2008), l’attribuzione di significato. Da essa dipende che l’apprendimento delle nozioni, comunque estrinseco perché esse provengono perlopiù «da fuori», diventi per l’adolescente significativo e personale, attraverso l’esercizio metodico dei processi di analisi, appropriazione e sintesi. Per questa strada prende forma un sapere da un lato via via più strutturato e organico, dall’altro sempre più coerente con le inclinazioni e gli interessi individuali(15).
Man mano che insegnamento e apprendimento si sviluppano e si correlano, cambiano naturalmente le modalità, i tempi e i criteri d’azione dei docenti, così come gli strumenti e le me-todologie adottate, mentre il baricentro del processo tende a spostarsi gradualmente dall’iniziale dipendenza dal maestro all’autonomo procedere dell’alunno. Ma ciò non significa che scoperta e attribuzione di significato siano momenti di cui lo studente sarebbe, in linea di principio, perfettamente capace da sé – tanto da legittimare, in virtù della maggiore disponibilità d’informazioni alla portata, oggi, della Google generation(16), un’uscita di scena dell’insegnante più precoce che in passato.
A chi la pensasse così, riservando ai docenti il compito, al bisogno, solo più di «facilitatori» della costruzione della conoscenza, credo che persino Dewey, cioè il maggiore teorico del puerocentrismo novecentesco, obietterebbe.
[A sinistra: John Dewey (1859-1952)]
Egli osserverebbe che, in questo modo, verrebbe a mancare esattamente il terzo fattore decisi-vo per trasformare l’informazione in conoscenza, e cioè l’esperienza – che, come fattore pro-priamente pedagogico, cioè in grado di «dar forma» responsabilmente al processo d’istruzione e di educazione, può essere presente in maniera adeguata, come consapevolezza riflessa e progettuale, solo nella generazione adulta(17).
Non posso, qui, entrare più in dettaglio nelle teorie(18). Tuttavia, esse già suggeriscono una ri-sposta alla prima parte della domanda: il passaggio dall’informazione alla conoscenza avviene attraverso i momenti, egualmente essenziali, della scoperta, dell’attribuzione di significato e dell’esperienza. Naturalmente i nuovi media possono essere strumenti utili al loro realizzarsi. Ciò che però può rendere possibile e reggere il loro attuarsi mi sembra, nell’insieme, una disposizione intellettiva, un habitus cognitivo molto più ampio e profondo di quello che nasce dalla combinazione di pensiero visivo, pensiero breve e multitasking.
In linea di principio, questa disposizione o habitus deve comprendere una capacità di osservazione il più possibile diretta e in prima persona delle cose, comandata da quella che la Scolastica e la fenomenologia hanno chiamato intenzionalità del conoscere – cioè la messa fra parentesi degli schemi e delle idee già depositatesi nella mente per «tornare alle cose stesse». Poi una capacità di pensiero discorsivo e argomentativo, in grado di seguire l’invito al pensare che sorge nell’impatto con la realtà anche più in là dell’immediato scopo funzionale che emerge dall’interazione con le cose (anche questo è un punto su cui bisognerebbe riflettere). Infine, una capacità di attenzione in grado di stare davanti all’oggetto da conoscere per tutto il tempo richiesto dall’oggetto e dal processo conoscitivo, se necessario «disinnescando» sia la continua sollecitazione a passar oltre, che proviene dall’incessante streaming dell’informazione, sia l’ipoteca neopositivista, che vorrebbe blindare il conoscere nella sola sfera empirica(19).
«Osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare»: Alessandro Manzoni (1785-1873) non conosceva i nuovi media, quando tratteggiava così l’atteggiamento più adeguato a salvare l’uomo, prima che dalla peste, dal proliferare e dal rincorrersi delle notizie e delle opinioni – specie se non fondate sull’esperienza diretta o su cognizioni assodate, e comunque sempre esposte alla tendenza dell’individuo a enfatizzare l’uno o l’altro aspetto delle cose(20). Mutatis mutandis, mi sembra che questa regola aurea del conoscere abbia qualcosa da dire an-che oggi.
E siamo al passaggio dalla conoscenza alla saggezza.
[A destra: Jacques Maritain (1882-1973)]
Rispetto al quale, Maritain e tutta la tradizione umanistica occidentale ci direbbero che esso dipende anzitutto dalla capacità di visione d’insieme della realtà, cioè dall’attitudine a collocare le singole conoscenze nell’orizzonte di totalità loro proprio, e dalla consapevolezza e dall’esercizio della libertà come potere di o-rientamento di sé, basato sì sul sapere, ma in grado di dominarlo e di trascenderlo(21).
Indicazione che, con accento più laico, anche Edgar Morin (1921-…) farebbe sua, prospettan-dola come base di un’educazione all’altezza delle sfide dell’era «planetaria»(22). Il fatto che qualche anno fa uno dei più convinti sostenitori della novità introdotta dai nuovi media, il teorico dei nativi digitali, abbia cominciato a parlare di «saggezza digitale»(23); e che l’abbia de-scritta in chiave principalmente funzionale, come una competenza sintetica per il buon uso della tecnologia, cosciente delle sue implicazioni anche etico-morali – ci dà, mi sembra, da un lato, il polso dell’evoluzione in corso nella cultura digitale, dall’altro la percezione del pericolo che incombe sul significato delle parole e dei concetti, quando il contesto significante muta. Si rischia allora di perdere per strada qualcosa dello spessore riconosciuto loro, in passato, in altre culture, epoche o tradizioni.

 

 

Nativi digitali: il mito, la realtà

 

Da qualche tempo, gli studi e le ricerche sembrano aver imboccato la strada di un sano illuminismo rispetto al «mito» dei digital natives, affermatosi all’inizio del nuovo millennio (chissà che non vi abbia influito anche il pathos tipico della ricorrenza). Le sue prime conquiste sono state il ridimensionamento della «novità antropologica» di cui sarebbero portatrici le generazioni più giovani e una più attenta rilevazione della presenza e dell’uso delle tecnologie informatiche e multimediali nella società e nella scuola(24).

Che cosa autorizzano a dire le ricerche svolte o in corso – come quella illustrata sull’ultimo numero di questa rivista? (25). In termini generali, non mi sembra che offrano conclusioni riso-lutive; ci restituiscono piuttosto, nell’insieme, la fotografia di un cantiere dove si lavora a di-versi progetti, relativi – cito le macroaree – alla diffusione reale delle nuove tecnologie, ai loro effetti sull’apprendimento e sulla socializzazione dei discenti, alle questioni emergenti e destinate a produrre effetti futuri, tanto nella didattica quanto nella comunicazione (il Web 2.0, per esempio). In ciascuno di questi ambiti sono state accertate correlazioni significative tra diverse variabili, come il digital divide e la differenza di genere, oppure il numero di ore trascorse giocando al computer o ai videogiochi e il basso rendimento scolastico. Ma sulle questioni veramente topiche (come la possibilità di trasposizione in contesti di apprendimento delle abilità visuospaziali migliorate attraverso i videogiochi, oppure l’impatto dell’uso delle Tic sul rendimento scolastico) s’impone una sana prudenza, suggerita dal fatto che non si arriva a conclusioni univoche o universalmente accettate, se non con molte precisazioni e limitazioni, con un certo «beneficio d’inventario» e comunque con riscontri sperimentali che ri-chiedono attenta ponderazione(26).
In attesa di ulteriori risultati, una cosa mi sentirei di sottolinearla, come primo elemento per un giudizio complessivo, in chiave pedagogica, sul fenomeno delle nuove tecnologie. Sarò grato a chi vorrà riprenderla, condividerla o discuterla.
Nel loro far perno sull’immagine e sull’intuizione, cioè su modalità di conoscenza più immediate del concetto e della teoria, così come nel dare spazio e importanza all’interazione con la realtà, ancorché virtuale, le nuove tecnologie mi sembrano anche denunciare – in termini mi verrebbe da dire esistenziali, oltre che gnoseologici – una criticità di fondo del modello di conoscenza e di razionalità che l’epoca moderna ci ha lasciato in eredità.
Tale criticità consiste nel ruolo cognitivo pressoché esclusivo assegnato al concetto e al pensiero logico-deduttivo. Su di esso, poi, per un complesso di motivi e di istanze che qui non è possibile approfondire, ha potuto fiorire una filosofia che ha creduto di essere in grado, attra-verso la scienza e la tecnica, di dominare le leggi della natura e di ordinare razionalmente l’esistenza individuale e collettiva. È il progetto teorico e pratico del Positivismo, non solo nella sua classica forma ottocentesca, ma anche nelle successive ondate. Una verifica empirica dell’effetto di questo modello cognitivo, fin sul piano didattico? Chi ha almeno cinquant’anni, ricorda che i propri libri di testo, almeno fino a una certa classe, risultavano, perlopiù, sobriamente illustrati; di lì in poi, dominava la scrittura fitta – alle immagini erano riservati, quando andava bene, un paio di inserti, più spesso in bianco e nero che a colori. Se prende in mano quelli dei figli, noterà un considerevole aumento delle illustrazioni e degli apparati visuali e grafici. Tra poco, quelli dei nipoti avranno forse ancora veste tipografica, ma certo saranno anche in formato multimediale.
Forse, dietro l’evidente simpatia e attaccamento dei giovani per le nuove tecnologie c’è anche l’estraneità a una certa raffigurazione un po’ polverosa, diciamo pure pallida e inerte, del sa-pere e della cultura. Il protagonista di Bianca come il latte, rossa come il sangue tratta a pesci in faccia la letteratura, la poesia e gli insegnanti, salvo poi ricredersi quando s’innamora, e nega l’esistenza di Dio perché la scrittura veloce sul cellulare non ha quella parola nel vocabolario …
Ora, mi sembra che nel lasciarsi facilmente assorbire dal gioco sul computer, dagli sms e dai cinguettii, fino a perdere il senso della connessione con il resto della realtà circostante; oppure nel guardare e nell’inviare una bella foto digitale, scattata da un telefonino con fotocamera ad alta risoluzione o dall’IPad, s’esprima più o meno consapevolmente un desiderio di rapporto con una realtà più avvincente, più luminosa, più ricca, più aperta e fantasiosa della sbiadita routine quotidiana. L’interfaccia multimediale, magari amplificandola con una tecnologia e-voluta, lascia passare e risonare l’attrattiva della profondità e verità delle cose, che forse il fermarsi all’apparenza e la frequentazione ordinaria hanno perso di vista. La tecnologia, poi, spesso in proporzione alla sua maggiore o minore sofisticazione, può finire per trattenere su di sé questa attrattiva, dimenticando d’essere medium e catalizzando su di sé il processo conoscitivo (con effetti di sequestro e di fissazione dell’attenzione, della sensibilità e del pensiero che possono sfociare nella patologia(27)).

 

 

Sulle orme del primo Harry Potter …

 

Immaginate d’essere usciti in fretta da casa, al mattino presto, per recarvi al lavoro, e di aver dimenticato il cellulare – di fascia media, ma già ben dotato. Dopo una prima fastidiosa sen-sazione di nudità e una rapida indagine circa il motivo della dimenticanza, decidete di non tornare a recuperarlo, ma di avventurarvi coraggiosamente nella giornata, pensando che, in fin dei conti, la moglie o i figli, se ne avranno bisogno, sanno dove rintracciarvi, e che il collega più gentile sicuramente vi presterà, all’occorrenza, il suo.
Ma mettete anche d’esser fortunati: la giornata è bella, il vento primaverile ha spazzato via la foschia, la luce del mattino fa il resto, sia nel cielo che sulle facciate delle case e nelle vie. Po-trebbe allora capitarvi di vedere per la prima volta un particolare architettonico, cui non ave-vate mai fatto caso, o di accorgervi di una targa sul muro di un edificio, che ricorda un avve-nimento o una personalità del passato. Liberi dalla tirannide del display, delle vibrazioni e de-gli avvisi, potete camminare con lo sguardo un po’ più alto del solito: gli occhi potranno correre curiosi lungo una linea di prospettiva o scrutare più attentamente il marciapiede, gli alberi di un giardino, un animale a spasso con il suo padrone o la vetrina davanti alla quale transitate sempre frettolosamente.
Che cosa vedrà sul vostro volto, quando arriverete a destinazione, il collega gentile? Non sor-riderete forse insieme della dimenticanza? E, sedendovi al vostro posto, non vi verrà anzi da ringraziare il cielo che le cose siano andate così, fino a rallegrarvi del fatto che il vostro senso di autoefficacia, sempre tentato di sovrastimarsi un poco, per una volta dovrà fare i conti con l’esperienza del limite e dell’errore?
Per strada avete incrociato una donna con un bimbo piccolo e un fratello un po’ più grande. Il ragazzo, già con gli auricolari calzati; il piccolo, per mano alla mamma, cerca di tenere il loro passo. Poche parole, non c’è tempo da perdere. Dall’abbigliamento e dagli atti capite che vanno a scuola e all’asilo.
Vi viene da pensare a come anzitutto i due fratelli, ma anche la loro mamma potranno vivere l’esperienza di conoscenza che la giornata offrirà loro: con quale disposizione di fondo, con quale apertura mentale, in base a quali schemi, con quali strumenti – e con quali possibili esiti. Vi dite che, se mai ne esiste uno, cercherete un libro che parla dell’ontologia, dell’etica e della didattica del conoscere, e lo leggerete con attenzione.

Vi torna in mente la pagina di Pennac. Quando il bambino pronuncia e indirizza per la prima volta alla persona giusta, venuta a prenderlo alla fine delle lezioni, la parola «mamma», fa un’esperienza che lo scrittore non teme di chiamare la scoperta della «pietra filosofale». La realtà dell’essere viene incontro al bambino nella figura della mamma. La parola gliela dischiude e gliela fa pienamente godere, ricompensandolo generosamente della fatica fatta per imparare a scriverla.
Rapportato al nostro problema, forse questo vuol dire che, in un contesto in cui la tecnologia comincia molto presto a porsi fra noi e la realtà, con tutto il fascino e il dispiegamento del suo potere, e con tutti gli annessi e connessi, il richiamo di Gesù: «Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai», vale, oggi, nella società della conoscenza e della multimedialità, non solo per gli adulti, ma già anche per i ragazzi e gli adolescenti.

 

 

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Carlo M. Fedeli
(Ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Torino)

 

 

Note

  1. Per una visione d’insieme si veda B. Bruschi, Tecnologie e cultura digitale, in C. M. Fedeli (a cura di), Un’altra scuola. Quattro questioni aperte, un’unica sfida, SEI, Torino 2013, pp. 27-46

  2. G. Gaber, L’illogica allegria, in Id., Io non mi sento italiano, CGD East West, Milano 2003

  3. R. Guardini, Mondo e persona, in Id., Scritti filosofici, Fabbri, Milano 1964, vol. II, p. 91

  4. Sul costruttivismo e le sue opzioni di fondo, nell’orizzonte della sensibilità pedagogica odierna, si veda, in sin-tesi, G. Chiosso, I significati dell’educazione. Teorie pedagogiche e della formazione contemporanee, Mondadori Università, Milano 2009 – specie i capitoli primo (La realtà dell’educazione) e secondo (Le teorie dell’istruzione e della formazione)

  5. D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 31-33

  6. Agostino, Confessioni, X, 22

  7. La riduzione di senso indotta dalla mentalità più diffusa ci porta, quando sentiamo la parola «istruzione», a pensare alle nozioni impartite a scuola, oppure ai foglietti illustrativi allegati ai medicinali, ai giochi e alle appa-recchiature; a qualcosa, in sintesi, di circoscritto solo a determinati ambiti, e di valore solo funzionale, non veritativo.

  8. Sul limite di fondo del pragmatismo Maritain ha formulato un giudizio esemplare e risolutivo: «È un disgrazia-to errore quello di definire il pensiero umano come un organo di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali dell’ambiente, vale a dire in termini di conoscenza e reazione animali, poiché una simile definizione si applica esattamente al modo di pensare proprio degli animali senza ragione. Al contrario, è perché ogni idea umana – per avere un senso – deve attingere in qualche modo […] ciò che le cose sono o ciò in cui consistono; è perché il pensiero umano è uno strumento o piuttosto un’energia vitale di conoscenza o d’intuizione spirituale; è perché l’attività pensante comincia non solo con delle difficoltà ma con delle vedute (insights) o percezioni, e termina in vedute che sono rese vere dalla dimostrazione razionale o dalla verifica sperimentale, e non dalla sanzione pragmatica, che il pensiero umano è capace di illuminare l’esperienza, realizzare dei desideri che sono umani perché sono radicati nel desiderio primordiale del bene illimitato, e di dominare, controllare e foggiare di nuovo il mondo. Al principio dell’azione umana, in quanto umana, c’è la verità, conosciuta (o che si crede conoscere) per se stessa, per amore cioè della verità». (J. Maritain, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1969, p. 28 – ed. orig. 1943)

  9. Su questo punto cfr. ancora R. Guardini, Mondo e persona, op. cit. – in particolare i paragrafi Persona e altra persona; la lingua e Il carattere verbale delle cose

  10. In questa direzione mi sembra vadano le considerazioni svolte sul numero scorso da G. Gobber, Riflessioni sul progetto CLIL, Content and Language Integrated Learning, in Emmeciquadro, 48, Marzo 2013

  11. Giovanni Paolo II, Genus humanum arte et ratione vivit. Allocuzione all’UNESCO, Parigi, 2 giugno 1980

  12. T. S. Eliot, Cori da “La Rocca”, Rizzoli, Milano 1994, p. 36 (prima ed. 1934). L’originale inglese parla di wisdom, knowledge e information

  13. Per una descrizione essenziale rimando a P. C. Rivoltella, Nativi digitali, media e nuove tecnologie, in G. Chiosso (a cura di), Luoghi e pratiche dell’educazione, Mondadori Università, Milano 2009, alle pp. 87-105

  14. Cfr. J. S. Bruner, Il significato dell’educazione, Armando, Roma 1994 (ed. orig. 1971). Sullo sfondo s’intravvede la definizione-chiave, proposta da Dewey, dell’educazione come «una ricostruzione continua dell’esperienza» (J. Dewey, Il mio credo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1954, p. 18 – ed. orig. 1897)

  15. Si veda D. P. Ausubel, Theory and Problems of Adolescent Development, Grune and Stratton, New York 1954

  16. Come noto, così definita per la tendenza a dipendere dal motore di ricerca come principale, se non unica fonte d’informazione

  17. Scrive Dewey: «L’indirizzo che l’insegnante dà all’esercizio dell’intelligenza dell’alunno è un aiuto alla libertà, non una limitazione di essa. Talvolta pare che gli insegnanti temano persino di dare suggerimenti ai membri di un gruppo circa quello che dovrebbero fare. Ho sentito parlare di casi in cui gli alunni sono messi fra gli oggetti e i materiali e abbandonati interamente a se stessi, ripugnando all’insegnante di suggerire quel che si può fare coi materiali nel timore di violare la libertà. Ma allora, perché fornire materiali, dato che anch’essi non possono non suggerire qualcosa? Ma quel che più importa è che il suggerimento, da cui prende le mosse il lavoro degli alunni, deve pur provenire in ogni caso da qualche parte. Non si capisce perché un suggerimento che proviene da uno che ha una più larga esperienza e un più esteso orizzonte non debba essere almeno altrettanto valido quanto un suggerimento che provenga da una fonte più o meno accidentale» (J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1949, p. 62 – ed. orig. 1938)

  18. Scoperta, attribuzione di significato ed esperienza sono fenomeni e concetti troppo importanti, sia per la cono-scenza che per l’educazione. Spero di poter dedicar loro una riflessione più puntuale e articolata

  19. Sul peso di questa ipoteca e sulle sue contraddizioni si veda Realismo «versus» Positivismo. Intervista a Evandro Agazzi, a cura di N. Correale, in Emmeciquadro, 47, Dicembre 2012

  20. A. Manzoni, I Promessi Sposi, XXXI

  21. Su questi punti cfr. di Maritain, oltre a L’educazione al bivio, anche L’educazione della persona, La Scuola, Brescia 1970

  22. E. Morin, Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento nella condizione umana di errore e incertezza, Armando, Roma 2004

  23. Si veda M. Prensky, H. Sapiens Digitale: dagli Immigrati digitali e nativi digitali alla saggezza digitale, in TD-Tecnologie Didattiche, 50, 2010

  24. Offre una panoramica molto interessante della situazione, su scala internazionale, il volume Un giorno di scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile?, curato da N. Bottani, A.M. Poggi e C. Mandrile presso il Mulino, Bologna 2010. Il volume raccoglie gli studi presentati al convegno che portava lo stesso titolo, promosso a Tori-no dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo nel marzo 2009

  25. Il Progetto MOTUS – «Monitoring the Tablet Utilisation in School». Intervista a P. C. Rivoltella, a cura di N. Correale, in Emmeciquadro, 48, Marzo 2013

  26. Per un bilancio delle principali ricerche, aggiornato al 2010, si può vedere F. Pedró, I docenti del nuovo millennio: principali conclusioni, in Un giorno di scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile?, op. cit., pp. 47-76

  27. Su cui esistono, già da anni, studi specifici, come ad esempio K. S. Young, Presi nella rete. Intossicazione e dipendenza da Internet, prefazione di T. Cantelmi, Calderini, Bologna – Milano – Roma 2000

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 49 di Emmeciquadro

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