In questi quindici anni, da quando è iniziata l’avventura di Emmeciquadro, il panorama dell’insegnamento scientifico in Italia ha registrato qualche segnale interessante, accanto a molte situazioni che permangono a un livello non adeguato rispetto all’evoluzione delle scienze ma soprattutto alle esigenze educative degli studenti.
Stenta a farsi strada l’idea del valore culturale e formativo delle discipline scientifiche e comunque non è a questo input che sembrano rispondere le iniziative più eclatanti.
Quattro scienziati tracciano le linee di un dibattito che dovrà proseguire.



Abbiamo radunato attorno a un tavolo per parlare dello stato e delle prospettive dell’educazione scientifica in Italia quattro docenti universitari che, unitamente all’attività di ricerca e di insegnamento accademico, rivolgono da tempo una particolare attenzione ai problemi della scuola italiana; sono: Dino Aquilano, Professore a contratto per Mineralogia presso l’Università degli Studi di Torino; Marco Bersanelli, Professore ordinario di Astronomia e Astrofisica presso l’Università degli Studi di Milano; Giorgio Bavestrello, Professore ordinario di Zoologia presso l’Università degli Studi di Genova; Giorgio Israel, Professore ordinario di Storia della Matematica presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.



Lei tiene un corso fondamentale alle matricole della laurea in Fisica.
Quali lacune riscontra nella formazione scientifica dei giovani che escono dalla secondaria di secondo grado?

Bersanelli Dico innanzitutto che sono bravi studenti. Dobbiamo andare orgogliosi della scuola secondaria superiore italiana, che è molto buona se non ottima a livello mondiale. È quasi commovente poter dire ancora così, nonostante il modo superficiale con cui la scuola è stata trattata dalla politica di casa nostra per decenni.

Detto questo, forse la lacuna principale è la disabitudine a prendere iniziativa, a porsi criticamente davanti ai problemi. In secondo luogo, vedo che nei licei classici la preparazione nelle materie scientifiche (in particolare la matematica) è troppo debole. È un peccato, perché sono convinto che gli studi classici sono un eccellente introduzione allo studio delle scienze naturali, e questa carenza temo allontani molti dei nostri migliori studenti da una brillante carriera scientifica.



In che cosa consiste la specificità dell’insegnare a «pensare in matematica» rispetto all’obiettivo generale di imparare a «pensare»?
È sufficiente richiedere di imparare formule, dimostrazioni, algoritmi per insegnare a «pensare in matematica»?

Israel Rispondere a questa domanda equivale a dire cos’è la Matematica e questo non è possibile in poche righe. Sinteticamente mi limiterò a dire che il pensiero matematico mette in gioco una complessa interazione tra logica e intuizione. Perciò sbaglia, e gravemente, sia chi riduce la Matematica a ragionamento logico-deduttivo sia chi la riduce a scienza «procedurale». Di qui gli errori nefasti che producono gli insuccessi nell’apprendimento della Matematica. Si seppellisce l’alunno sotto cumuli di formule, regole, ricette, calcoli (le dimostrazioni non si fanno quasi più). Dilaga una «precettistica» che non ha nulla a che fare con il pensiero matematico e che è fonte di noia immensa.

I pilastri della Matematica sono il numero e la forma, da cui l’Aritmetica e la Geometria che sono branche in certa misura indipendenti: peraltro la natura diversa dell’intuizione del numero e delle forme è un tema centrale che viene totalmente ignorato e che, per esperienza, affascina gli studenti. È assurdo sperare che un alunno possa capire qualcosa di Matematica se non viene introdotto alla «familiarità» con i numeri e se non perviene al pensiero geometrico partendo dalla riflessione sulle forme. Non soltanto questo permette di capire le connessioni della matematica con il resto del pensiero umano (studio del mondo fisico, filosofia, arte, eccetera), ma è l’unica via per rendere accettabile l’acquisizione delle tecniche facendone cogliere il senso, invece di propinarle come ricette da eseguire meccanicamente.

Nelle scienze, soprattutto nella Fisica e nella Chimica, c’è un uso importante del linguaggio matematico che nella prassi scolastica porta spesso a un insegnamento «assiomatico», cioè per deduzione da principi primi.
Non occorre forse rivalutare l’aspetto sperimentale, sia nell’insegnamento di queste discipline sia nell’esperienza diretta degli studenti?

Aquilano Il linguaggio matematico è indispensabile nell’insegnamento di qualsiasi disciplina scientifica che si fondi su supporti osservazionali e sperimentali. Dalle Scienze naturali, alle Scienze della Terra, dalla Biologia alla Scienza dei materiali, dalla Chimica alla Fisica, tutte queste discipline hanno bisogno, in ordine crescente, di espressioni matematiche per quantificare (e quindi comunicare in modo universale e non ambiguo) una legge che nasce dall’osservazione sistematica di un fenomeno.

Ma qui sta il nodo cruciale dell’insegnamento scientifico, in qualunque ordine di scuola. Nel paese che ha dato al mondo Galilei, Volta, Fermi, Natta, Rubbia e Levi-Montalcini, non si insegna più a osservare la realtà presente intorno a noi; il disastro incomincia dalla materna e prosegue fino all’università (e anche oltre…). Ovviamente se non si impara a osservare è assurdo pensare di poter imparare a sperimentare e quindi, ultimo anello della catena, imparare a interpretare un fenomeno ripetibile alla luce delle conoscenze teoriche già acquisite.

È evidente che, se non si rispetta questa successione di operazioni mentali, il senso di una legge (F=ma, ΔV=iR, eccetera) svanisce. Risulta allora inevitabile trasmettere le leggi come dogmi, o farle discendere in modo deduttivo, da principi primi. Meno fatica per chi insegna e scarsa adesione di chi deve imparare, con frequente insorgenza (nel discente) o del pensiero magico o del rifiuto…

Nel nostro paese esiste poi un ulteriore peccato originale. Quale percentuale di insegnanti di Fisica nella scuola secondaria sono laureati in Fisica? Quanti insegnano Chimica essendo laureati in Chimica? Se ci si è formati in università con il metodo deduttivo (della Matematica) come si può insegnare una disciplina eminentemente induttiva come per esempio la Fisica?. Si potrebbero portare altri esempi di «mala-docenza» dovuta a gravi errori di metodo di insegnamento.

La conseguenza ultima di queste inadempienze didattiche che durano da troppi decenni è che già oggi non abbiamo una classe dirigente formata scientificamente. Senza un’adeguata capacità di osservazione e di sperimentazione formeremo, nella migliore delle ipotesi, dei tecnici. E con la sola tecnica, senza una robusta scienza alle spalle, nessun paese ha davanti a sé un futuro culturalmente ed economicamente indipendente.

 

 

Per conoscere i fondamenti della Scienza della vita ci sembra necessario, a tutti i livelli scolari, «incontrare» il mondo della natura. Da sempre, la scuola italiana privilegia lo studio sui libri rispetto alla scoperta «sul campo».
Come questo «segna» gli studenti che vogliono intraprendere studi nell’area biologica? Si può ancora rimediare e in che modo?

 

Bavestrello I nostri antichi progenitori e i popoli primitivi che in vieppiù ridotti angoli del pianeta conducono ancora una vita organizzata sulla caccia e la raccolta hanno una sapienza della natura eminentemente empirica che consente loro di conoscere il territorio, le abitudini delle prede, le piante commestibili e quelle velenose.

Io credo però che il desiderio di conoscere dell’uomo abbia una sorgente diversa, non originalmente pratica, che possiamo immaginare sia sorta nella filogenesi della nostra specie così come misteriosamente sorge a un certo momento, nello sviluppo di ciascuno di noi. Questa sorgente della conoscenza è lo stupore che scaturisce dall’incontro con il reale semplicemente perché c’è e con il quale è possibile stabilire un rapporto. Credo che, in campo scientifico, non ci sia evento più emblematico di questa originale dinamica del conoscere di quello dello zoologo che descrive una nuova specie alla quale impone il nome. Il misterioso, ma reale rapporto intrattenuto con l’oggetto dello studio rappresenta lo snodo tra il sapere e il conoscere. A tutti i livelli gli educatori dovrebbero facilitare questa naturale dinamica insita nel cuore di ogni uomo.

Da un punto di vista pratico ritengo che lo studio delle scienze naturali rappresenti una perfetta opportunità perché questo fascino possa scaturire. In tutti i bambini, per esempio, gli animali suscitano uno straordinario interesse, partecipi come sono della nostra stessa vita, dei nostri stessi comportamenti eppure così misteriosamente diversi da noi…. Invece di essere coltivato ed educato questo sentimento stupito è precocemente bloccato dagli adulti, spesso dagli stessi genitori. Arrivando alle scuole medie e superiori la brevità del tempo dedicato ai programmi di Scienze naturali, imposto dalla riforma gentiliana, tende sempre più a rattrappire il fascino della natura rinchiudendolo nelle asettiche pagine dei libri. Le modalità per far fronte a questo stato di cose sono molte e dipendono dalla fantasia degli insegnanti.

Per conto mio faccio notare che la situazione dell’insegnamento scolastico delle Scienze della natura ha certamente avuto momenti di maggior fulgore. I licei ottocenteschi, informati dalla passione scientifica dei Gesuiti, erano dotati di laboratori scientifici di primo ordine forniti di collezioni zoologiche e botaniche di tutto rilievo. Moltissimi insegnanti di scienze, un po’ meno costretti dalla burocrazia che oggi domina, erano appassionati e competenti naturalisti che utilizzavano e ampliavano le collezioni del proprio istituto coinvolgendo nelle attività gli studenti interessati. Oggi questo patrimonio di attrezzature e collezioni è in grave stato di abbandono oppure è stato smantellato perdendo una possibilità concreta di un incontro più diretto dei ragazzi con la meraviglia della natura.

 

 

Nella scuola si sta diffondendo un modo di comunicare la scienza che si avvale di modalità e strumenti della divulgazione scientifica (teatro, ambienti virtuali, attività di natura ludica, festival eccetera).
La confusione di questi due piani, insegnamento e divulgazione, quali conseguenze comporta sulla formazione scientifica dei giovani ?

 

Aquilano Una simile tendenza non può che aggiungere confusione nella mente di chi dovrebbe vivere un processo di formazione e arricchimento della personalità. In questo modo si alimenta il fenomeno di trasformare in spettacolo un settore della conoscenza (il pensiero scientifico) che storicamente si è fondato sull’attenzione nei confronti della realtà che cade sotto i nostri sensi.

La bellezza intrinseca all’operare scientificamente (e quindi anche all’educare scientificamente) risiede nell’adesione del soggetto al reale; e questo vale a qualunque età e prescinde dal ruolo che si esercita. L’adesione genera «stupore e passione» per la realtà, e quindi capacità di sforzo e di sacrificio per meglio conoscerla; la dimensione ludica è esclusa da questo processo che esige impegno, rigore, accettazione della verifica e che non si esaurisce in se stesso in quanto il suo fine ultimo trascende la stessa conoscenza scientifica.

La formazione di un adolescente, e non solo quella scientifica, non si realizza senza l’apprendimento di un metodo che, solitamente, nella scuola viene trascurato. Ciò succede in parte perché gli stessi docenti (università compresa) lo ignorano e in parte perché stoltamente si ritiene che il metodo possa ostacolare la «creatività» dello studente. Di qui nasce lo scivolare verso il nozionismo e la divulgazione di basso profilo che dilagano nei mezzi di comunicazione; per cui, anche nella scuola, tutti parlano di tutto con grande sicurezza ed estrema superficialità. Lo stesso aggiornamento professionale del docente non è basato sull’approfondimento delle conoscenze di base, ma sull’acquisizione di un up to date che nella gran parte dei casi non è comunicabile agli studenti, in quanto essi non posseggono un uso collaudato degli strumenti conoscitivi di base.

In sintesi: la modernità tecnologica oggi offre strumenti eccezionali per una didattica molto più efficace di quella precedente all’era informatica ed elettronica. Oggi, se lo si vuole, si possono fare un migliore insegnamento e una migliore divulgazione. Teatro, ambienti virtuali, attività di natura ludica, festival, eccetera, vanno nel verso opposto, in quanto riducono e sovente ideologizzano la grandezza del pensiero scientifico, trasformando gli studenti da soggetti interattivi del loro processo di apprendimento a passivi ricettori di un’informazione disorganizzata e sovente superficiale e distorta.

 

 

Con una progressione impressionante si sono sviluppate nuove scienze che studiano la vita.
Le ricerche «iperspecialistiche» non rischiano di parcellizzare la conoscenza e di nascondere la bellezza, la varietà e la complessità della natura?
Anche tenendo conto delle particolari caratteristiche dell’indagine biologica, attorno a quale aspetto si può trovare un punto unificante?

 

Bavestrello Dalla metà del secolo scorso le Scienze della vita hanno raccolto una tale messe di conoscenze da rendere necessaria una specializzazione nelle competenze. Chi, come me, ha vissuto, almeno in parte, l’avventura della biologia negli ultimi trenta anni, si rende conto fisicamente di quanto è avvenuto semplicemente confrontando i programmi affrontati durante il proprio corso universitario con quelli degli studenti di oggi.

D’altra parte di fronte al continuo aumento di conoscenze che vengono sistematizzate in discipline sempre più specialistiche, esiste un forte rischio di perdere di vista l’insieme del fenomeno vita. La tensione a un’impossibile conciliazione tra riduzionismo e olismo rimane una costante nelle Scienze della natura sin dal loro sorgere. Se da questo dibattito non c’è una via di uscita filosofica ne esistono certamente di pratiche.

Sarà una deformazione professionale, ma io ritengo che possa essere di notevole aiuto una forte ripresa delle discipline naturalistiche di base, che utilizzano strumenti eminentemente descrittivi, come la Zoologia o la Botanica, ma che mantengono un angolo prospettico abbastanza ampio sul problema biologico generale. Purtroppo, oggi queste discipline vivono un grave stato di declino a livello sia di ricerca accademica sia di insegnamento scolastico.

Con la scoperta della struttura e dei meccanismi connessi al funzionamento del DNA, alla metà del secolo scorso, i biologi hanno potuto riscattare un complesso di inferiorità dovuto alla mancanza di una teoria unificante per la quale la Fisica aveva messo una formidabile base con tre secoli di anticipo. Così è iniziato un vorticoso e squilibrato processo che ha dirottato soldi e cervelli dalla ricerca descrittiva a quella funzionale con conseguenze gravi che stiamo pagando a diversi livelli. A livello di ricerca ambientale ci troviamo in un momento in cui tutti parlano di biodiversità e della sua erosione, ma sempre meno ricercatori sono in grado di identificare piante e animali potendo così realmente comprendere l’entità degli attuali mutamenti.

Da un punto di vista didattico gli insegnanti liceali, con la lodevole idea di mantenersi aggiornati, trascurano sempre più le tradizionali discipline descrittive per dedicarsi alla parte genetica e molecolare. Accade così che gli studenti arrivino a iscriversi al primo anno dell’università conoscendo tutto sugli enzimi coinvolti nella duplicazione del DNA, ma non hanno nessuna idea sui rudimenti dell’anatomia o della diversità biologica.

Un nuovo rilancio, a livello accademico, delle scienze descrittive, operato da ricercatori attenti agli sviluppi della Biologia moderna potrebbe rappresentare un buon punto di partenza. Permetterebbe una visione finalmente conciliata della «vecchia» e «nuova» Biologia; potrebbe fornire nuovi e più adeguati modelli per le indagini molecolari, potrebbe formare una nuova generazione di insegnanti con una più ampia prospettiva nell’insegnamento delle scienze della vita.

 

 

Che cosa, istituzionalmente, si dovrebbe mettere in atto per ottenere a largo raggio un aggiornamento culturalmente approfondito degli insegnanti dei vari livelli di scuola?

 

Israel Non si vede in quale altro contesto possa avvenire questo processo se non nel rapporto fra scuola e università, ma in forme libere dalle pastoie burocratiche e regolamentari in cui sono incastrate adesso. L’università è il luogo dove ci si tiene a contatto con la ricerca e con gli sviluppi delle discipline, nella fattispecie della Matematica, e quindi è giusto che un insegnante abbia un rapporto con essa. D’altra parte, è una grave colpa degli universitari disinteressarsi dei problemi dell’insegnamento, come se fosse una perdita di tempo (salvo poi lamentarsi quando si trovano di fronte a matricole che non sanno nulla). La tentazione è quella di delegare il rapporto con le scuole a una speciale categoria di docenti universitari (peraltro guardati con qualche supponenza, come matematici «falliti»), gli specialisti in «didattica», i quali, a loro volta, ne hanno tratto il vantaggio di creare delle consorterie chiuse.

Uno degli scopi principali del TFA era di rompere questa situazione culturalmente chiusa e povera, che era caratteristica delle SSIS. Purtroppo, le corporazioni hanno vinto, la riforma è fallita e le SSIS si sono clonate dentro il TFA, mentre d’altro lato l’amministrazione ministeriale ha fatto di tutto per depotenziarla e in fin dei conti annullarla. Credo che esistano molti docenti universitari (come noi che abbiamo scritto Pensare in Matematica) che hanno voglia e capacità di stabilire un dialogo aperto e paritario con i docenti delle scuole. Ma se questo viene impedito dal predominio di gestioni corporative e burocratizzate, parlare di aggiornamento «culturale» è derisorio. Si tratta piuttosto di un indottrinamento da parte di chi ha interesse a trasmettere le proprie ideologie, per esempio quelle visioni della matematica come dipartimento della logica o come scienza di procedure di cui si diceva prima.

 

 

Educazione e istruzione sono parole con significati specifici, da tenere distinte ma non separate, pena la confusione di metodi e di ruoli che caratterizza oggi la crisi della scuola.
Quale a suo parere il compito di ogni adulto che decida di insegnare, perché la scuola possa superare questo difficile momento storico?

 

Bersanelli Chi vuol fare l’insegnante a mio parere deve anzitutto mantenersi aperto e curioso nei confronti della materia che insegna. Un insegnante è uno che conosce bene la strada, tanto da essere guida ad altri che la percorrono per la prima volta, ma la conosce in un modo aperto, non scontato, cioè trova sempre qualcosa di nuovo anche nell’argomento di Matematica o di Latino che insegna da venti anni. E ciò che alimenta questa curiosità duratura non è tanto un «pallino» intellettuale, ma principalmente l’affetto per i ragazzi che ha davanti, il desiderio che quei ragazzi possano vedere il senso e la bellezza delle cose attraverso il contenuto che gli tocca di insegnare. Soprattutto, il desiderio che quei ragazzi diventino a loro volta curiosi e aperti verso tutto ciò che incontrano e incontreranno, e sappiano giudicare con libertà e ragione: questo è più importante della somma delle cose che potranno dire di aver imparato su qualunque disciplina particolare.

 

 

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© Pubblicato sul n. 50 di Emmeciquadro

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