In questo contributo l’autore propone un doppio percorso di lettura. Da un lato (in corsivo) la traduzione originale dal latino di quella parte dell’Astronomia Nova di Keplero che tratta del rapporto tra astronomia matematica ed esegesi scritturale – fino ad ora disponibile solo per un pubblico di specialisti. Dall’altro il commento puntuale alle varie parti del passo, con uno sguardo attento a cogliere il pensiero dello scienziato Keplero di fronte ai dilemmi posti dai progressi della scienza. Una posizione umana profondamente religiosa e profondamente moderna, che certamente non viene presentata in nessun testo di astronomia, per specialisti o per studenti, ma che offre una nuova occasione per sottolineare lo spirito di ricerca e l’onestà intellettuale che caratterizza le personalità scientifiche più eminenti del passato.
Nel periodo della Rivoluzione Scientifica Moderna, le nuove teorie astronomiche si sono dovute confrontare con i contenuti di alcuni passi biblici. Questi ultimi, se interpretati alla lettera, si accordavano con i due cardini della cosmologia tradizionale, cioè la stabilità della Terra e il moto del Sole. La maggior parte dei sostenitori delle nuove impostazioni confidava nel cosiddetto «principio di accomodazione». In base a questo principio, Dio si sarebbe rivelato in modo comprensibile agli esseri umani, e, di conseguenza, i contenuti scritturali non avrebbero alcun significato scientifico. In epoca moderna l’espressione più famosa di questo principio è stata quella illustrata da Galileo Galilei (1564-1642) nelle Lettere Copernicane (1).
Di particolare importanza è stata anche l’opinione espressa da Keplero (1571-1630) nell’Introduzione all’Astronomia Nova (1609), l’opera che contiene le prime due leggi del moto planetario.
L’astronomo tedesco, infatti, si è totalmente affidato al principio di accomodazione, escludendo completamente la possibilità che i testi sacri possano contenere nozioni di scienza, data l’estrema specializzazione matematica conseguita dalla disciplina astronomica. Questa visione kepleriana rientra in una più ampia concezione del sapere, per cui la natura e la mente umana sono state create da Dio secondo gli stessi archetipi geometrici. Proprio la razionalità matematica e divina dell’Universo ha indotto l’astronomo tedesco a vedere il cosmo strutturato sul modello della Trinità: il Sole rappresenta il Padre, la sfera delle stelle fisse il Figlio e lo spazio, attraverso cui il Sole trasmette la capacità di movimento ai pianeti, lo Spirito Santo.
L’Universo, concepito da Keplero come finito e sferico, diviene così l’immagine più perfetta possibile dell’essenza divina. In questo modo gli astronomi sono «sacerdoti del Dio Altissimo in rapporto al Libro della Natura» (2). La ricerca scientifica diventa così il modo per esaltare la bellezza della creazione divina e viene equiparata, in quanto valore e profondità, alla teologia.
In questo contributo si commenta quella parte dell’Astronomia Nova che tratta proprio del rapporto tra astronomia matematica ed esegesi scritturale. I passi riportati sono la traduzione dell’originale latino presente nelle pagine 28-33 del Vol. III dell’edizione completa degli scritti kepleriani (3). La traduzione del passo è stata già da me pubblicata sul sito della Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede (4).
Da ora in avanti, come è consuetudine tra gli studiosi dei testi di Keplero, i riferimenti a quest’opera saranno indicati in parentesi con la sigla G.W., seguita dal numero del volume in numeri romani e da quello delle pagine.
Linguaggio scientifico e linguaggio comune
Keplero inizia ad affrontare il problema dal punto di vista del linguaggio. Il comune modo di esprimersi, dunque, deve necessariamente accordarsi con l’immediata esperienza sensoriale: Tuttavia vi sono parecchie persone che sono mosse dalla devozione religiosa a non dar fiducia a Copernico, temendo che la falsità possa essere attribuita allo Spirito Santo che si rivela nelle Scritture se abbiamo detto che la Terra si muove e il Sole resta fermo. Costoro allora valutino questo argomento; poiché noi acquisiamo moltissime nozioni, e anche le più importanti, attraverso la vista, è impossibile per noi separare il nostro discorso dall’esperienza visiva. Perciò ogni giorno accade che molte volte noi ci esprimiamo in accordo con il senso visivo, sebbene sappiamo con certezza che la stessa cosa di cui parliamo ha una diversa realtà. (G.W. III, 28)
Per supportare la sua tesi, Keplero riporta due noti testi: uno tratto dal Vangelo di San Luca e uno ripreso dall’Eneide 3,72. Quest’ultimo è stato citato da molti studiosi del tempo che spiegavano il moto diurno del Sole come semplice apparenza sensoriale(5): Un esempio in tal senso si trova in quel verso di Virgilio: lasciamo il porto, le terre e le città si allontanano. Allo stesso modo quando usciamo dalla parte stretta di una valle, diciamo che una grande pianura si apre dinanzi a noi. Così disse Cristo a Pietro: vai in alto mare (Lc 5,4): come se il mare sia più in alto rispetto al litorale. Così infatti appare alla vista; e gli studiosi di ottica dimostrano le ragioni di questo errore. Cristo in verità usa un’espressione molto comune, che tuttavia è il risultato di questo tipo di ingannevole apparenza visiva. (G.W. III, 28-29)
L’uso di un linguaggio non specialistico, inoltre, sarebbe proprio anche degli esperti di scienza, che a volte vi ricorrono nei loro trattati o nelle loro discussioni. Questa metodologia era stata adoperata, infatti, da Copernico (1473-1543). Nella parte iniziale del secondo libro del De Revolutionibus Orbium Coelestium, l’astronomo polacco precisa che, nella sua stessa opera, si fa riferimento a fenomeni come la nascita e il tramonto del Sole e delle stelle per voler esprimersi con quelle comuni espressioni che possono essere comprese da tutti (6).
Keplero, dunque, adotta la stessa procedura e, per eventuali altri dettagli, rimanda ai contenuti di una sua opera. Pertanto definiamo sorgere e tramontare delle stelle la loro ascesa e discesa, anche se, mentre diciamo che il Sole ascende altri dicono che discende. Per questo argomento vedi l’Astronomiae Pars Optica cap. 10 p. 327. Così ancora oggi gli astronomi tolemaici affermano che i pianeti sono stazionari, quando sono osservati sostare vicino alle stesse stelle fisse per diversi giorni, sebbene ritengano che gli stessi pianeti poi realmente si muovono in linea retta verso il basso o verso l’alto in allontanamento dalla Terra. Così tutti gli scrittori usano la parola solstizio, anche se di fatto negano che il Sole stia fermo. Allo stesso modo non ci sarà mai nessuno tanto legato a Copernico da non dire che il Sole sta entrando nella costellazione del Cancro o del Leone, sebbene voglia dire che la Terra sta entrando nel Capricorno o nell’Acquario. E ci sono molti altri esempi di tal genere (G.W. III, 29).
Dal momento che non solo gli uomini comuni, ma anche gli scienziati si servono del linguaggio ordinario, anche i testi sacri non sfuggono a questa consuetudine, tanto più che il loro fine non è quello di comunicare concetti di scienza: Per l’appunto le Sacre Scritture parlano con gli esseri umani di argomenti comuni (in relazione ai quali non è loro compito istruire il genere umano), secondo le abitudini degli uomini, affinché tali argomenti siano compresi dagli uomini stessi; esse adoperano quei concetti che sono ritenuti molto chiari presso gli esseri umani, per introdurne altri più elevati e di contenuto religioso (G.W. III, 29).
La citazione del Salmo 19(18),6, (7) uno dei più citati dai sostenitori della tradizione, anticipa la trattazione propriamente esegetica di Keplero. Anche in questo caso lo scienziato tedesco fa riferimento a un noto passo dell’Eneide: Non c’è nulla di strano, dunque, se anche la Scrittura parla in accordo con la percezione sensoriale degli uomini quando la verità delle cose contrasta con i sensi, che gli uomini ne siano consapevoli o meno. Chi ignora che l’allusione nel Salmo 19 è poetica? In quel caso, sotto l’immagine del Sole, sono lodate la diffusione del Vangelo e anche il percorso intrapreso da Cristo Signore in questo mondo per causa nostra; si narra che il Sole esce dal tabernacolo dell’orizzonte, come uno sposo dalla stanza nuziale, esulta come un eroe che percorre la via. Virgilio imita questo versetto quando scrive: “Aurora lasciando il giaciglio di color zafferano di Titone” (8) (G.W. III, 29).
Il vero senso delle Scritture
Secondo l’astronomo tedesco, non solo la Bibbia è stata scritta per «accomodarsi all’intendimento dell’universale»(9), ma gli stessi autori dei sacri testi erano consapevoli che la realtà scientifica fosse ben diversa dalle loro sommarie descrizioni: Naturalmente il versetto biblico era antecedente. Il salmista sapeva che il Sole non esce dall’orizzonte come da un tabernacolo (anche se così potrebbe sembrare all’apparenza): d’altra parte pensava che il Sole si muovesse perché così appare agli occhi. In entrambi i casi, egli ha scritto in questo modo perché così sembra all’apparenza visiva. Egli non deve essere accusato di aver detto una falsità in entrambi i casi; infatti l’esperienza visiva ha anche la sua verità, ben adatta allo scopo recondito del salmista, cioè la raffigurazione del Figlio di Dio e della diffusione del Vangelo. (G.W. III, 29).
Keplero analizza poi quei versetti direttamente coinvolti nella discussione sul rapporto tra le nuove teorie astronomiche e il significato delle Scritture. Il primo di questi passi è quello di Giosuè 10, 12-14 (10).
La vicenda galileiana e il fatto che lo stesso Galilei abbia attribuito ad esso una rilevanza essenziale, hanno indotto molti, a mio giudizio erroneamente, a vedere questo passo come quello sul quale i sostenitori della tradizione avrebbero maggiormente fondato le loro tesi. Riportare nel testo biblico una descrizione scientificamente corretta, secondo Keplero, avrebbe precluso a tutti la sua comprensione.
L’arresto del Sole oppure della Terra, inoltre, rappresenta un elemento che non avrebbe di certo intaccato la portata del miracolo divino e lo scopo della richiesta a Dio avanzata da Giosuè: Anche Giosuè cita le valli sullo sfondo delle quali il Sole e la Luna si muovono, poiché così gli sembrava quando era nei pressi del Giordano. In ogni caso entrambi raggiungono il loro intento: Davide (e con lui Siracide), ha esposto queste cose per la manifesta magnificenza di Dio, affinché si presentassero agli occhi, o anche per un significato mistico espresso attraverso questi fenomeni visibili. Giosuè voleva dire che il Sole si sarebbe trattenuto nel suo posto nel mezzo del cielo per un giorno intero con riferimento alla sua apparenza visiva, poiché per altri uomini durante lo stesso intervallo di tempo sarebbe rimasto sotto la Terra. Ma gli ignari guardano alla sola opposizione dei termini: il Sole si è fermato, cioè, in verità, la Terra. Non così fanno coloro che vedono che tale opposizione nasce solo all’interno dei contenuti dell’Ottica e dell’Astronomia. Né sono questi talmente contro i modi di pensare degli uomini, da non voler vedere che Giosuè chiedeva nella preghiera solo che i monti non gli togliessero il Sole; che egli espresse tale preghiera con parole conformi al senso della vista, in quanto sarebbe stato del tutto inopportuno in quella circostanza ragionare di astronomia e degli errori visivi. Infatti se qualcuno lo avesse ammonito del fatto che il Sole realmente non si muove sullo sfondo della valle di Aialon, ma soltanto che sembra ai nostri sensi che faccia così, forse Giosuè non avrebbe richiesto l’allungamento del giorno, per qualunque ragione ciò avvenga? Egli avrebbe pertanto agito alla stessa maniera se qualcuno lo avesse corretto con argomentazioni relative alla perenne stabilità del Sole e al moto terrestre. Dio immediatamente ha capito dalle parole di Giosuè ciò che egli richiedeva e ha agito di conseguenza fermando il moto terrestre, così che il Sole potesse sembrargli che si fermasse. Tutto ciò affinché tutta la richiesta di Giosuè fosse esaudita e che così potesse apparirgli, qualsiasi cosa fosse realmente accaduta nel frattempo. Infatti, che tale apparenza visiva si verificasse, non è stata cosa vana e senza scopo, ma strettamente legata all’effetto desiderato (G.W. III, 29-30).
Keplero rafforza la sua opinione citando nuovamente una sua opera, per richiamare altri fenomeni astronomici che appaiono in maniera diversa dalla realtà delle cose, e per ribadire che solo chi conosce a fondo le discipline matematiche potrebbe capire una descrizione scientifica degli stessi: Ma vedi il cap. 10 della Astronomiae Pars Optica; troverai ragioni per cui a tutti gli uomini certamente sembra muoversi il Sole e non la Terra; sicuramente capirai perché il Sole appare piccolo e la Terra grande; e anche perché, a causa della sua apparente lentezza, il moto del Sole è percepito non dalla vista, ma soltanto dal ragionamento, a causa della mutata distanza dalle montagne dopo un certo periodo di tempo. È pertanto impossibile che una ragione non precedentemente formata pensi qualcosa altro tranne che la Terra, con l’arco di cielo collocato sopra di essa, sia come una grande casa, immobile, sopra la quale il Sole, piccolo di statura, viaggi da una parte all’altra come un uccello vola nell’aria. (G.W. III, 30).
Dopo questo breve elenco di esempi naturali, il discorso torna sui contenuti biblici. In questa circostanza lo scienziato tedesco riporta il significato di altri noti passi riguardanti, anche se in senso più generico, aspetti dell’astronomia (11)
Le cose che certamente tutti gli uomini immaginano, la prima frase della Sacra Scrittura ha annunciato: “All’inizio”, disse Mosè, “Dio creò il cielo e la terra”, perché queste due sono le parti principali che si presentano al senso visivo. È come se Mosè dicesse all’uomo: “Dio creò tutto questo edificio universale che vedi, illuminato sopra, buio e ampiamente disteso sotto, sul quale sei collocato e dal quale sei coperto”. In un altro passo biblico, si chiede all’uomo se ha imparato a misurare i cieli in alto ed esplorare in basso le fondamenta della Terra: questo poiché alla gente comune sembra che entrambi ugualmente si estendano su spazi infiniti. Tuttavia, non c’è nessun uomo saggio che, ascoltando queste parole, le userebbe per limitare la capacità degli astronomi, o nel dimostrare la disprezzabile piccolezza della Terra rispetto al cielo, o nell’investigare le distanze astronomiche. Perché queste parole non riguardano la misurazione colta dalla ragione; esse riguardano l’investigazione reale che è del tutto impossibile per l’essere umano, fissato sulla Terra e che respira l’aria libera. Leggi tutto il cap. 38 di Giobbe, e paragonalo con le argomentazioni disputate in astronomia e fisica. Se qualcuno affermasse, dal Salmo 24, che la terra è fondata sopra dei fiumi, in modo da sostenere la nuova e assurda conclusione filosofica che la terra galleggia sopra i fiumi, non sarebbe corretto dirgli che dovrebbe giudicare lo Spirito Santo come un messaggero divino e evitare di trascinarlo per forza e in modo ridicolo nelle dispute di fisica? Perché in quel passo il salmista intende solo ciò che gli uomini già sanno e constatano quotidianamente, cioè che i grandi fiumi scorrono attraverso la terra, innalzata in superficie dopo la separazione delle acque, e i mari la circondano. Per l’appunto lo stesso tipo di discorso si trova in un altro passo, quando gli israeliti cantano di essersi seduti sopra le acque di Babilonia, cioè sulla riva, o sulle sponde dell’Eufrate e del Tigri (G.W. III, 30-31).
Immagine 04 giostra kepler5-1.jpg Dida Dopo questa illustrazione di alcuni versetti che possono riguardare questioni astronomiche, ma solo in maniera indiretta, Keplero continua a esaminarne altri che, invece, erano pienamente coinvolti nel dibattito riguardante la compatibilità tra la nuova astronomia e l’esegesi scritturale. Il primo è l’Ecclesiaste 1, 4-5 (12).
Quest’ultimo ha assunto una rilevanza particolare, in quanto descrive sia la stabilità della Terra che il movimento del Sole. L’importanza della sua interpretazione supera quella di altri passi, seppur significativi, come quello sopra menzionato del libro di Giosuè.
Keplero resta fedele alla credenza, successivamente smentita dalla moderna esegesi, secondo la quale l’autore dell’Ecclesiaste fosse Salomone. Anche per quanto riguarda questo libro, comunque, il messaggio biblico non ha alcun significato astronomico, ma esprime solo un contenuto sapienziale.
Che la prima parte di questo passo (Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat.) non si riferisca all’immobilità della Terra, ma alla costanza delle sue caratteristiche fisiche nel corso del tempo, era una possibilità ammessa anche da alcuni sostenitori della cosmologia geostatica.
Tra questi vi era, per esempio, il gesuita Jean Lorin (1559-1634) che nei suoi Commentarii in Ecclesiasten, in riferimento al versetto 1,4 afferma: «il significato non si riferisce alla quiete di per sé, cioè quella che si oppone al moto locale, ma, in certo qual modo, ad un certo tipo di incorruttibilità, per la quale non si corrompe nella sua totalità, ma come un comune ricettacolo, o insieme di realtà diverse, include le cose generabili così come quelle corruttibili, quelle che se ne vanno e quelle che tornano»(13). La tesi di Lorin è stata poi comunicata dal cardinale Carlo Conti (+ 1615) a Galileo Galilei in una lettera del 7 luglio 1612, un documento della massima importanza che ha influenzato la posizione dello stesso Galilei sul rapporto tra scienza ed esegesi biblica: «perché, se bene quei luoghi dove se dice che la Terra stii stabile et ferma, si possono intendere della perpetuità della Terra, come notò Lorino nel luogo citato»(14). Più difficile, per tutti gli autori che hanno partecipato a questo dibattito, era ammettere il senso figurato della seconda parte (Oritur sol et occidit, et ad locum suum revertitur)(15).
Keplero, tuttavia, ribadisce l’assoluta neutralità del testo biblico e per affermare la sua tesi prende in considerazione i primi undici versi del primo libro dell’Ecclesiaste.
Se si accetta ciò senza problemi, per quale motivo non può essere accettato che in altri passi, che di solito si esprimono contro il moto terrestre, allo stesso modo dovremmo invertire la nostra attenzione dalla fisica alle finalità della Scrittura? Generatio praeterit (dice l’Ecclesiaste) et generatio advenit, Terra autem in aeternum stat. Forse che in questa circostanza Salomone sta disputando con gli astronomi? O piuttosto non istruisce gli uomini sulla mutabilità terrestre, poiché la Terra, culla del genere umano, resta sempre la stessa e il moto del Sole si ripete continuamente? Il vento si muove in circolo e ritorna allo stesso posto. I fiumi dalle fonti sfociano nel mare e dal mare ritornano alle fonti. E così altri uomini discendono da quelli che muoiono e sempre la stessa è la favola della vita; niente vi è di nuovo sotto il Sole. Non vi è alcuna dottrina relativa al mondo fisico. Il messaggio è morale, una cosa di per sé manifesta e che viene vista con gli occhi di tutti, ma che viene poco meditata. Ciò pertanto insegna Salomone. Chi infatti non sa che la Terra è sempre la stessa? Chi non vede che il Sole sorge ogni giorno, che i fiumi perennemente confluiscono nel mare, che le periodiche vicissitudini dei venti si ripresentano, che gli uomini si avvicendano gli uni agli altri? Ma chi davvero crede che la stessa favola della vita si attui continuamente, con protagonisti diversi, e che nulla nelle vicende umane sia nuovo? Così Salomone, narra ciò che è evidente a tutti e ci ammonisce di ciò che viene negato quasi da ognuno erroneamente (G.W. III, 31).
Stesso discorso vale per il Salmo 104 (103),5 (16), un altro di quei testi che, preso alla lettera, avrebbe dichiarato l’immobilità terrestre: Si dice che nel salmo 104, nella sua totalità, sia contenuta una trattazione fisica, in quanto tutto incentrato su aspetti fisici. E in esso si annuncia che Dio ha fondato la Terra sulla sua stabilità e che essa non potrà mai vacillare. Ma in questo caso il salmista è molto lontano dall’aver fatto una disquisizione relativa a cause fisiche. Infatti tutto il significato del salmo confluisce nella grandezza di Dio che ha fatto tutte queste cose: il salmista ha scritto un inno a Dio come Creatore, nel quale presenta il mondo come ordine delle cose, così come appare agli occhi (G.W. III, 31).
Keplero si dilunga particolarmente sul significato generale di questo salmo che, oltre a non includere alcun contenuto scientifico, costituirebbe un approfondimento del racconto della creazione in sei giorni. Alla fine viene specificato che l’autore del salmo, se avesse voluto annunciare un contenuto scientifico, avrebbe menzionato i pianeti.
Tale obiezione è stata avanzata anche da Galilei che, nelle sue Lettere Copernicane, così si esprime:«Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti»(17).
Se si valuta bene la cosa, è un commento sull’Esamerone della Genesi. Infatti in questa sezione della Bibbia i primi tre giorni sono stati dedicati alla separazione delle regioni: il primo, della regione della luce dalle tenebre esterne; il secondo, delle acque dalle acque attraverso l’interposizione del firmamento esteso; il terzo, della terra dai mari, quando la terra viene rivestita con piante e germogli. Gli ultimi tre giorni sono stati poi dedicati al riempimento delle regioni così distinte: il quarto del cielo, il quinto dei mari e dell’aria, il sesto della terra: così in questo salmo ci sono lo stesso numero di parti distinte, analoghe alle opere dei sei giorni. Nel secondo verso, infatti, descrive il Creatore in termini di Luce, prima tra le creature e opera del primo giorno. La seconda parte inizia con il terzo verso e riguarda le acque sopra i cieli, l’estensione del cielo, e i fenomeni atmosferici che il salmista sembra attribuire alle acque sopracelesti, cioè nuvole, venti, turbini, lampi. La terza parte inizia dal sesto verso e celebra la terra come fondamento delle cose che qui esamina. Il salmista riferisce tutte le cose alla terra e agli esseri viventi che in essa si trovano, perché, secondo il giudizio della vista, le parti principali del mondo sono due: cielo e terra. Egli pertanto considera che, come avvenuto per così lungo tempo, allo stesso modo ora la terra non affonda né si dissolve, né precipita; tuttavia a nessuno è noto con certezza su cosa sia fondata. Egli non vuole insegnare cose che gli uomini ignorano, ma richiamare alla mente ciò che essi negano, cioè la grandezza di Dio e la potenza nella creazione di un’opera tanto grande, così solida e stabile. Se un astronomo insegna che la Terra è trasportata attraverso i cieli, egli non annulla ciò che il salmista qui afferma e neanche va contro l’esperienza umana. È inoltre vero che la Terra, opera dell’Architetto Divino, non crolla come sono soliti fare i nostri edifici consunti dall’età e dalla corrosione, non si inclina da una parte, che le sedi degli esseri viventi non sono sconvolte, che le montagne e le coste sono stabili, ferme contro la forza del vento e delle onde, così come erano all’inizio. E il salmista aggiunge anche un bellissimo racconto della separazione delle acque dai continenti; inoltre abbellisce la narrazione con l’aggiunta delle fonti e delle utilità che le fonti e le rocce apportano ad uccelli e quadrupedi. Egli non tralascia l’abbellimento della superficie terrestre, ricordato da Mosè tra le opere del terzo giorno, ma il salmista lo desume dalla sua causa precedente, cioè da una pura umidificazione nel cielo e abbellisce la descrizione ricordando i benefici derivanti da quell’abbellimento per la sopravvivenza e la felicità dell’uomo, e per i rifugi degli animali. La quarta parte inizia al verso 20 e celebra l’opera del quarto giorno, il Sole e la Luna, ma principalmente il beneficio per l’uomo e per gli altri esseri viventi proveniente dalla divisione del tempo. È questo beneficio che è il suo oggetto in questo caso: come appare con evidenza, qui lo stesso autore non scrive come un astronomo. In caso contrario non avrebbe omesso di citare i cinque pianeti, rispetto al cui movimento nulla vi è di più ammirevole, nulla di più bello, nulla che dimostri in modo più evidente la sapienza del Creatore, per coloro che sono in grado di comprendere. La quinta parte, al verso 26, riguarda l’opera del quinto giorno, quando riempie il mare con il pesce e lo adorna con i viaggi marini. La sesta è stata aggiunta in modo non chiaro al verso 28 e riguarda gli animali viventi sulla terra, creati nel sesto giorno (G.W. III, 31-33).
Questa sezione dell’Introduzione all’Astronomia Nova si conclude con l’esaltazione della creazione divina, vale a dire uno dei punti essenziali della cosmologia kepleriana che ha sempre ispirato la metodologia di ricerca dell’astronomo tedesco: Alla fine egli afferma generalmente la bontà di Dio che sostiene tutte le cose e ne crea di nuove. Così, ogni cosa il salmista abbia detto del mondo si riferisce agli esseri viventi. Egli non riferisce nulla che non sia chiaramente conosciuto, perché la sua volontà è di esaltare le cose conosciute, non di cercare quelle sconosciute, e di invitare gli uomini a considerare i benefici che ad essi provengono da queste opere dei singoli giorni della creazione. Anche io imploro il mio lettore, quando allontanatosi dal tempio avrà intrapreso la dottrina astronomica, affinché non dimentichi la bontà divina conferita agli uomini, alla cui considerazione il salmista invita particolarmente; gli chiedo anche che con me lodi e celebri la grandezza e la sapienza del Creatore, che gli presento basandomi su una spiegazione più approfondita della forma del mondo, sulla ricerca delle cause e sull’individuazione degli errori dell’apparenza visiva. E sia così, affinché ammiri il dono di Dio e i suoi benefici per tutto il genere dei viventi, non solo per ciò che concerne la fermezza e stabilità della Terra, ma anche riconosca la sapienza del Creatore nel moto della stessaTerra, tanto difficile da scoprire quanto stupefacente nella sua bellezza. (G.W. III, 33).
Conclusioni
Dal testo di Keplero emergono chiaramente i fondamenti del suo pensiero che, se guardati attentamente, possono essere inquadrati all’interno di una visione unitaria del sapere. La netta presa di posizione, secondo la quale i testi rivelati non hanno valore scientifico, infatti, è legata alla finalità delle Scritture e alla specificità matematica dell’astronomia.
Questa specificità, a sua volta, è parte integrante del progetto divino incentrato sulla creazione. La conoscenza dell’astronomia matematica, pertanto, permette allo scienziato di cogliere la straordinaria bellezza dell’Universo e di rendere grazie al suo Creatore.
Keplero ha assunto questi principi come cardini della sua ricerca. Partendo dal presupposto di un Universo modellato da Dio attraverso quegli archetipi matematici, dei quali è partecipe la mente umana fatta a immagine e somiglianza di Dio stesso, egli è riuscito a enunciare le sue leggi che hanno poi aperto la strada al lavoro di Newton (1642-1727).
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Alessandro Giostra
(Insegnante di filosofia e storia, svolge le sue ricerche nel campo della storia del pensiero filosofico e scientifico. Socio della Stanley Jaki Society, collabora come recensore e saggista per il portale della Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede e per alcune riviste del mondo Accademico Americano)
Note
- G. Galilei, Opere, Edizione Nazionale a cura di Antonio Favaro, Firenze, Giunti-Barbera 1890-1909, V 261-370
- Questa frase dell’astronomo tedesco è stata ripresa da: J. Casanovas, Johannes Kepler, Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede
- M. Caspar-W. Von Dyck, Johannes Kepler Gesammelte Werke, Monaco 1938
- www.disf.org/Documentazione/203.asp
- Per un approfondimento del significato di questo versetto nel contesto della Rivoluzione Scientifica rimando al mio lavoro L’interpretazione dell’Eneide 3,72 tra i primi sostenitori del moto terrestre, Giornale di Astronomia, Vol. 31, n. 3 (2005)
- «…consueto sermone loqui qui possit recipi ab omnibus». Per il contenuto dell’intero passo di Copernico rimando alla traduzione del De Revolutionibus effettuata da C.G. Wallis (Great books of the western thought Vol. 16 by Encycloapedia Britannica, Chicago 1952, p. 557)
- [6] Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via
[7] Egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore - Virgilio, Eneide, IV 585
- Galilei, Opere, cit., V, p. 282
- [12] Allora, quando il Signore mise gli Amorrèi nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: “Sole, fèrmati in Gàbaon e tu, luna, sulla valle di Aialon”
[13] Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto: “Stette fermo il sole in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero
[14] Non ci fu giorno come quello, né prima né dopo, perché aveva ascoltato il Signore la voce d’un uomo, perché il Signore combatteva per Israele?» - Gn 1,1; Gb 38,4-5; Sal 24(23), 2; Sal 137(136), 1-6
- [4] Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat. [5 ] Oritur sol, et occidit, et ad locum suum revertitur
- «Non est per se de quiete sermo, quae motui locali opponitur, sed de quadam quasi Incorruptione, qua secundum se tota non corrumpitur, ac veluti commune receptaculum, sive diversorium, abeuntes, redeuntesque res generabiles, & corruptibiles excipit». Ioannis Lorini Avenionensis Societatis Jesu, Commentarii in Ecclesiasten. Accessit expositio eiusdem in Psalmum LXVII. Nunc Primum in lucem typis mandati. Cum duplici Indice, locorum S. Scripturae uno, & rerum sententiarumque simul altero, nec non & verborum, etiam Graecorum & Hebraicorum, quae Latinis nominibus adiuncta sunt. Lugduni, Sumptibus Horatii Cardon 1606, p. 27
- Galilei, Opere, cit., XI, p. 355
- Per un’esposizione dettagliata del dibattito intorno all’Ecclesiaste 1,4-5: A. Giostra: “Accomodar i pronunciati delle Sacre Lettere”: l’interpretazione dell’Ecclesiaste 1,4-6 tra i primi sostenitori della teoria copernicana, Studia Patavina, anno LIII 2006, Maggio-Agosto, pp. 391-423
- «Hai fondato la terra sulle sue basi,mai potrà vacillare» (Qui fundasti terram super stabilitatem suam, non inclinabitur in saeculum saeculi)
- Lettera a Don Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613, Galilei, Opere, cit., V, 284.
© Pubblicato sul n° 51 di Emmeciquadro