Secondo la mentalità utilitaristica con cui sempre più si tende a giudicare la ricerca, l’archeologia sembrerebbe l’esempio perfetto di «scienza inutile» da mandare al più presto in pensione. Due dei maggiori archeologi viventi, i coniugi Buccellati, scopritori di Urkesh, una delle più antiche città del mondo, ci mostrano invece come dallo studio apparentemente arido e futile di minuti frammenti di sigilli vecchi di oltre 5.000 anni si possano ricavare conseguenze che illuminano in modo sorprendente non solo il nostro passato, ma anche il nostro presente e la nostra stesa vita.
Anzitutto potete presentare brevemente voi stessi e il vostro lavoro?
Marilyn
Io adesso sono in pensione, ma prima ho insegnato Storia dell’Arte Antica e anche Archeologia per molti anni. Ora sono ricercatrice presso il Cotsen Institute of Archeology dell’UCLA (University of California, Los Angeles).
Noi abbiamo uno scavo da più di 25 anni nell’angolo Nord-Est della Siria, dove abbiamo trovato una delle prime città del mondo, il cui antico nome era Urkesh e che conosciamo ormai abbastanza bene, dopo tutti questi anni di lavoro. Tra le altre cose, abbiamo trovato il muro di cinta, il tempio di un dio e, intorno al 1995, dei testi impressi su sigilli: ne abbiamo trovati a migliaia ed è proprio da alcuni di questi che abbiamo saputo il nome antico della città.
Giorgio
Anch’io ho ormai lasciato l’insegnamento, ma continuo con Marilyn la ricerca sul campo. Abbiamo un laboratorio al Cotsen Institute, quindi di solito stiamo sei mesi all’anno a Los Angeles, ma adesso da tempo siamo in Italia. Tra l’altro ho fondato proprio io questo Istituto, negli anni Settanta, e oltre ad Archeologia insegnavo anche Lingue della Mesopotamia, soprattutto il babilonese, e la Storia della Mesopotamia.
Oltre allo scavo, mi interessa la storia (nel senso più pieno della parola) della Mesopotamia e la rilevanza che ha per noi, sia la religione sia la storia politica sia la letteratura, e sto mettendo insieme i vari pensieri che ho avuto lungo gli anni in una serie di volumi. Alla fine saranno quattro, tutti dedicati a questi diversi aspetti della Mesopotamia: i primi due, usciti uno l’anno scorso e l’altro quest’anno, sono sulla religione e la politica
Quindi il mio ideale è trovare le cose di maggiore importanza nel mondo della Mesopotamia e mostrare la rilevanza che tutto questo ha per noi oggi.
E quali sono queste «cose più importanti»?
Giorgio
Per quanto riguarda la religione, è abbastanza facile vederne la rilevanza, in quanto la Mesopotamia è la matrice culturale del mondo biblico, e il mondo biblico è ovviamente di grande importanza tutt’oggi, per l’Occidente in genere e per molte persone anche in maniera profondamente esistenziale.
Quindi capire bene la matrice mesopotamica è importante per capire meglio la cultura biblica, soprattutto per via del grande contrasto che emerge fra le due tradizioni. Sul piano politico è una cosa analoga, in quanto la Mesopotamia è come un primo «laboratorio», diciamo, dove nasce e si sviluppa lo Stato e quindi tutte le strutture politiche che governano la vita sociale e di cui troviamo tutt’oggi una traccia nel nostro mondo. Quindi la rilevanza è grandissima e mettendola in luce bene si capiscono meglio le condizioni che hanno contribuito a formare la nostra mentalità.
Marilyn
Tra le nostre scoperte ci sono delle cose veramente importanti, perché, come ho detto, si tratta di una delle prime città, che risale a 3500 anni prima di Cristo.
Tra le prime cose avevano costruito una terrazza artificiale su cui avevano messo un tempio, in modo che si vedesse non solo da tutta la città, ma anche da tutti i villaggi intorno e da tutte le persone in viaggio entro un raggio di moltissimi chilometri: era visto come un punto o di arrivo o comunque di riferimento per trovare la direzione. E credo che questa è una cosa stupenda da sapere per noi oggigiorno, che cioè il tempio è sempre stato un punto molto importante fin dall’inizio.
La cosa che mi ha colpito di più rispetto al discorso che avete fatto al Meeting sull’origine della politica (e che si trova anche nei vostri libri), è come attraverso l’evoluzione della scrittura si sviluppa l’idea delle categorie astratte e la loro ambivalenza. Potete approfondire un po’ questo aspetto?
Giorgio
Sì, il concetto è questo. Forse, come sfondo alla domanda, per chiarire poi meglio la risposta, si può dire che la preistoria della specie umana è stata lunghissima: è durata almeno tre milioni di anni, includendo i primi ominidi e poi lo sviluppo degli esseri umani veri e propri. Poi negli ultimi 10.000 anni c’è stato uno sbalzo enorme, perché di colpo si sono formati degli insediamenti permanenti con molte persone.
E la domanda che ci si pone è: com’è che ci è voluto così tanto tempo e poi di colpo tutto cambia («di colpo» per modo di dire, sono parecchie migliaia di anni, ma rispetto a milioni è di colpo). Di solito la risposta viene data solo in termini economici, cioè lo sviluppo di un surplus che dà quindi la possibilità a più persone di vivere nello stesso luogo. Ma in un certo senso questo rimanda indietro alla stessa domanda: perché c’è stata di colpo la possibilità di fare un surplus, perché non se ne sono accorti prima di come farlo?
E allora la mia risposta è che questo implica un enorme cambiamento: inizia con l’avvento del linguaggio articolato, il vero e proprio linguaggio, quindi non solo comunicazioni magari anche orali, ma che si limitavano a pochi segni o a pochi suoni.
Le indicazioni sono che questo linguaggio articolato inizia verso 50.000 anni fa, grossomodo, e quello che il linguaggio rende possibile è mettere fuori dal nostro cervello quello che abbiamo dentro. Quindi ci si rapporta l’un con l’altro con delle parole, con dei termini che si riferiscono a delle cose anche se non le si vedono.
Un modo di descrivere questo fatto forse è dire che nella nostra esperienza normale le cose sono contigue l’una all’altra, nello spazio o nel tempo. Con le parole invece, si possono rendere contigue cose che non sono contigue; quindi io posso parlare della pianta guardando al seme, la pianta verrà sei mesi dopo, e questo seme è quello che farà venire la pianta.
Questo tipo di possibilità è quella che ha reso possibile agli esseri umani di esercitare un controllo molto più differenziato sulla natura. Poi questo è stato esteso dal mondo naturale al mondo degli esseri umani e si sono create quelle che io chiamo delle «caselle funzionali», per esempio il concetto di vasaio, che ci dice che c’è qualcuno che lavora con la ceramica anche se non lo conosciamo di persona. Quindi fino al momento in cui iniziano i primi insediamenti, fino a 10.000 anni fa, se si aveva bisogno di un vaso bisognava conoscere un vasaio personalmente: le comunità erano basate sul rapporto faccia a faccia tra gli individui.
Dal momento in cui con il linguaggio si cominciano a creare delle caselle astratte, come si diceva prima, questo non è più necessario: si capisce che c’è un vasaio anche se non lo si conosce personalmente. E questo rende possibile un estendersi esponenziale dei raggruppamenti umani e poi anche degli insediamenti, e incrementa moltissimo da un lato l’efficienza e dall’altro la densità demografica, perché si può stare insieme in gruppi molto maggiori.
Questo si è poi riversato sulla scrittura, che inizia verso il 3500 a.C. e che fa sì che questa capacità già iniziale di mettere in una dimensione extrasomatica il pensiero del nostro cervello, invece di essere legata al contatto audiovisivo tra parlante e ascoltatore, venga reificata, trasferita in una realtà fisica concreta, che è la tavoletta. Il modo in cui si è arrivati a queste tavolette può essere interessante anche per la filosofia della scienza.
Ci spieghi allora come è successo.
Giorgio
L’idea è questa. Ci sono essenzialmente due tipi sostanziali di antecedenti della scrittura, che sono molto diversi. Uno sono le notazioni calendriche, che sono come delle notazioni della fasi della Luna, che venivano incise su ossa e che mettono quindi in chiave sintattica un processo: sono dei simboli, perché questi segni sono molto astratti (rappresentano la forma della Luna da un giorno all’altro), ma costituiscono un tutt’uno, e magari sono uno o due o poco più di due mesi che sono rappresentati.
Quindi permettono da un punto di vista pratico un maggior senso di controllo sul tempo, ma anticipano anche l’aspetto fondamentale della scrittura, che non è quello di avere soltanto rappresentazioni grafiche di una figura (per esempio di un albero o altro), ma di rappresentare in maniera sequenziale delle realtà che di per sé possono non essere in sequenza. Non è che nella realtà fisica, per esempio, ci siano 29, 30, 60 Lune: ce n’è solo una al giorno. Ma mettendole in questa sequenza si supera la mancanza di contiguità e si crea una contiguità artificiale che è quella che poi emerge con la scrittura. Quindi questo concetto di consequenzialità è fornito dai calendari.
L’aspetto invece più concreto, e in certo senso terra terra, ma fondamentale, della consistenza concreta dei segni viene da un altro tipo di documento, che sono dei contrassegni, come delle pedine da dama, le quali indicavano certe cose: una pecora, un uomo, un altro animale, il grano, checchessia.
Ognuno di questi aveva un contrassegno e mettendo insieme questi contrassegni si dava un’idea delle quantità che si potevano usare. Questo poi viene impresso sulla argilla e successivamente, invece di imprimere il contrassegno sull’argilla, si disegna con uno stilo il segno stesso e da lì si arriva al cuneiforme, e poi alle tavolette. Si parlava di astrazione, prima. Bene, una delle cose molto interessanti è questa: che con la scrittura si arriva ad avere una rappresentazione concettuale astratta che non esiste in natura.
Per esempio, ci sono delle tavolette che danno una descrizione accurata di grandissimi greggi che appartengono al palazzo: vengono descritti fino a 60.000 animali, che ovviamente non si trovano mai tutti insieme: sono insieme solo su questa tavoletta. Quindi anche questo è un passo avanti di grandissima importanza.
Ecco, a questo punto c’era il suo discorso, che poi si collega anche con la politica, circa l’ambivalenza di questa astrazione, che da un lato è un mezzo buono, perché ci permette di ampliare le nostre conoscenze, ma dall’altro ha questo rischio di portare invece al dominio, all’incasellamento…
Giorgio
L’aspetto più evidente di questo è la schiavitù, che inizia proprio con la civiltà: è l’estrema funzionalizzazione degli esseri umani.
Ora, che ci sia la schiavitù lo sappiamo; ma a pensare come sia stato concepibile che degli esseri umani siano arrivati a distorcere così completamente il loro atteggiamento verso degli altri esseri umani, che fino ad allora erano sempre stati visti come controparti umane e non come oggetti, ci si domanda come siano potuti arrivare a questo.
E un modo di capire questa grande aberrazione della psiche umana può essere proprio questo concetto dell’incasellamento.
Perché l’incasellamento vuol dire tante cose. Una è che la persona non ha più una sua realtà fisica: se io so che c’è un vasaio (non che il vasaio sia uno schiavo, ma voglio dire come concetto), se so che c’è un vasaio mi interessa poco sapere che sia alto, basso, buono, cattivo…, basta che faccia un vaso, è l’unica cosa che mi serve.
Quindi la funzionalità e l’efficienza di questa casella è quello che importa e questo mi allontana dal confronto con una persona. Ma questo incasellamento vuole anche dire che chi sta al vertice può controllare tutta una serie di caselle. E più in alto si è, più lontani si è dalla base della piramide. Ma la piramide, però, è sempre controllata, perché c’è tutta una serie di filamenti che scende dalla casella massima, che è quella del re, diciamo, fino a quelle più basse, che sono per l’appunto gli schiavi. E con questo si crea una distanza molto concreta e reale per cui è molto più facile ignorare la realtà umana di un essere umano.
È così che in nome dell’efficienza, della densità demografica e così via si perde in umanità: questo è l’aspetto negativo dell’incasellamento. L’aspetto positivo ovviamente è l’efficienza, perché se non fosse per questa grande densità noi non saremmo qui a parlarci fra di noi oggi, saremmo ancora poche migliaia di persone su tutto il pianeta.
Quindi è fondamentale avere questa efficienza che risulta dall’incasellamento, però dobbiamo non lasciarci noi controllare dal controllo che abbiamo instaurato.
A questo proposito c’è il paragone che lei fa con la realtà biblica di Israele e poi anche con il mondo moderno. Cosa può dirci al riguardo?
Giorgio
La realtà biblica è interessante perché esplicitamente prende posizione contro quella mesopotamica. Da un lato c’è una tradizione che potremmo dire intellettuale e concettuale, dall’altro una politica. Vediamo anzitutto quella concettuale.
Si pensi al mito della creazione: il mito della creazione babilonese dice che la città è per prima. Quindi la prima cosa che viene creata è una cosa astratta, poi all’interno della città viene creato l’uomo, che però non ha neanche un nome.
Quindi è proprio un emblema, molto preciso, di quello che dicevo prima, che quello che si crea è una casella, o un sistema di caselle, poi all’interno viene messo l’uomo. E sappiamo benissimo che la tradizione biblica è tutto l’opposto invece, perché viene creato un essere umano, che è l’uomo; l’uomo è solo, ha bisogno di compagnia, quindi viene creata la donna; hanno un rapporto umano intenso e poi solo dopo, in questa specie di genealogia molto iniziale, arriva la città. Quindi questo è un bel contrasto ideologico ed è esplicito, cioè il mondo biblico vuole mostrare una differenza.
E ora l’aspetto politico. Israele ha avuto una sua consistenza politica per almeno un paio di secoli prima della monarchia, che inizia verso il 1000 a.C. Quindi c’è una struttura tribale che anticipa la monarchia. Quando arriva il primo re, questo viene descritto esplicitamente dalla Bibbia come una richiesta che il popolo fa a Dio tramite il profeta. E il profeta, che è Samuele, presenta tutta una serie di possibili pericoli che verranno: ci sarà la tassazione eccessiva, la coercizione per il servizio militare, soprusi e cose del genere, porteranno via i terreni migliori, e così via. E il popolo dice: «Sì, sì, ma noi vogliamo comunque la monarchia». E la monarchia allora arriva. Questo è come viene descritto.
Come è stato esattamente il processo storico è un po’ più difficile da determinare, però questa è l’autopercezione biblica. Allora c’è un contrasto esplicito, nel senso che in Mesopotamia si dice che la monarchia è scesa dal cielo e poi rimane perché è l’unica struttura possibile; qui invece arriva tardi, è imposta, con delle obiezioni, e quando scompare non scompare Israele, anzi, l’identità del popolo rimane. Quindi è un contrasto dove l’aspetto più personale dell’interazione tra gli individui all’interno della società è messo in evidenza in un modo che invece in Mesopotamia non esiste affatto.
Quanto al mondo moderno, da un lato la cosa è analoga, in quanto tutt’oggi esiste questa tensione tra una società che tende a renderci tutti numeri, a renderci soltanto degli anonimi, delle caselle, in sostanza, all’interno di una burocrazia che ci può anche sfruttare; dall’altro però c’è anche la possibilità non solo di vivere, ma anche di arricchirci spiritualmente, perché la possibilità di leggere libri, di vedere degli spettacoli che ci edificano e tutto il resto, è una cosa che deriva anch’essa dall’efficienza.
Nel mondo politico è la stessa cosa: da un lato c’è la politica che ci soffoca, però dall’altro perlomeno ci sono stati dei movimenti che ci hanno portato a riconoscere i diritti dei lavoratori, ad avere dei governi di tipo democratico, che non saranno perfetti, lo sappiamo tutti, però certo ci sono stati dei miglioramenti, che riflettono il ruolo importante della persona.
Un’altra cosa che mi aveva colpito a questo riguardo è che quando nella Bibbia il popolo vuole il re la risposta di Dio non è di imporgli la sua volontà, dicendo: «No, qua si fa come dico io», ma dice: «Lo volete? Prendetevelo, peggio per voi! », e la sua risposta sono i profeti. Ora, al Meeting c’era anche una presentazione dell’ultimo libro di Massimo Borghesi(1), Critica della teologia politica, che diceva una cosa simile: attraverso una critica storica di questa idea di voler far coincidere la legge divina con la legge dello Stato, metteva in evidenza come anche oggi a volte c’è un rischio di pensare che per salvare il cristianesimo e quindi il valore della persona, questo si possa fare semplicemente attraverso una legislazione; il che invece è una pretesa irragionevole, utopistica, perché dimentica la realtà del limite umano, del peccato, per cui riproponeva anche la distinzione delle «due città» di Sant’Agostino.
Mi ha colpito questo rapporto tra le vostre due posizioni, perché lui citava esplicitamente anche l’esempio degli ultimi due Papi, con Ratzinger che ha lasciato volontariamente il potere e questa rivoluzione che sta facendo Papa Francesco che è proprio un po’ di questo tipo: non tanto di voler imporre attraverso delle leggi, ma più questa «profezia» intesa nel senso forte del termine, che credo sia proprio la cosa che dobbiamo fare anche noi, adesso.
Giorgio
È vero, e ci sono stati anche altri interventi che si riferivano a concetti analoghi, per esempio quello della Cartabia(2) che presentava il libro di Havel(3), Il potere dei senza potere, oppure quello di Weiler(4) sul processo a Gesù. Sono stati degli interventi interessanti perché hanno proprio sottolineato in un certo senso la vera dimensione della libertà, che insomma la libertà non si può imporre.
Può dire qualcosa anche su quel tema che mi aveva accennato prima e che mi interessa moltissimo, la «critica della ragion archeologica»?
Giorgio
La «critica della ragion archeologica» è molto complessa e forse non riusciamo a farla in due minuti. L’idea è soltanto questa, che gli archeologi hanno sviluppato moltissimo il concetto di una teoria dell’archeologia, che però è soltanto quella che io chiamo una «teoria dell’inferenza»: cioè, dato per scontato che le cose sono state scavate e che sono qui, allora parliamo dei sistemi sociali, dei sistemi politici, usando teorie che derivano dalla filosofia della scienza. Popper(5) è stato uno dei guru dell’archeologia, per esempio. E dopo di lui Hempel(6) Va un po’ a mode, un po’ a ondate.
Io invece dico che la cosa fondamentale che l’archeologia dovrebbe fare è di costruire una teoria di quello che fa l’archeologia e che non fa nessun altro, che è lo scavo. Perché ci sono degli aspetti epistemologici nello scavo, interessantissimi, soprattutto in due sensi. Uno è che i dati non sono mai isolati: in sostanza noi non abbiamo «dati», abbiamo soltanto un tale miscuglio, che nel momento stesso in cui estrichiamo il miscuglio roviniamo il contesto, e quindi la documentazione del contesto è un aspetto di altissima importanza scientifica.
L’altro è che queste tradizioni che noi portiamo fuori dal terreno sono quelle che io chiamo «tradizioni interrotte», cioè non c’è nessuno che è competente oggi, non c’è nessun mesopotamico che può dirci come la pensava lui: quindi dobbiamo ricostruire tutto dai frammenti che abbiamo e quello che è fondamentale è avere un metodo meglio articolato di quanto sia oggi. Ecco, quindi questa è la «ragione archeologica».
Questo è bellissimo, perché è proprio uno dei punti su cui anche io insisto e che nessuno dice oggi nella filosofia della scienza tranne il mio maestro Agazzi(7): che il metodo deve nascere dal rapporto tra la ragione e la realtà, non costruirlo a tavolino e poi volerlo applicare a prescindere dalla realtà. Spero che ci sarà occasione di riparlarne. Ora, per concludere, come vi sembra che si dovrebbe insegnare la scienza nella scuola? Dico in generale, non specificamente in Italia, visto che avete sempre lavorato all’estero…
Giorgio
Io invece vorrei fare un commento proprio sull’Italia, nel senso che noi abbiamo un team molto internazionale, che include degli italiani, e notiamo sempre come gli italiani sono molto più maturi, proprio quasi come sensibilità. E lo attribuisco al liceo, almeno come è stato finora (mi dicono che cambia, e questo non lo so).
Ma c’è una maturità, proprio di sensibilità scientifica, allo stesso momento di età, che è maggiore: quindi qualcosa di buono nella scuola italiana deve esserci.
A livello poi della ricerca, forse al di fuori dell’Italia si trova di più, anche perché ci sono più appoggi. Però, nonostante l’università italiana sia un vero disastro, a quanto vedo e a quanto mi raccontano, i colleghi sono tutti di primissimo ordine.
(Intervista rilasciata il 24 agosto 2013 a Rimini nell’ambito del XXXIV Meeting per l’Amicizia fra i Popoli)
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a cura di Paolo Musso
(Filosofia della Scienza – Università dell’Insubria – Varese)
Note
Massimo Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era Costantiniana, Marietti, Genova-Milano, 2013.
Marta Cartabia, giudice della Corte Costituzionale.
Vaclav Havel, leader del dissenso in Cecoslovacchia, dopo la «rivoluzione di velluto» e la caduta del comunismo fu eletto per due volte Presidente della Repubblica
Joseph H.H. Weiler, Direttore presso Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice e Co-Direttore del Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization presso la New York University
Karl Raimund Popper, filosofo della scienza, celebre per la sua teoria del falsificazionismo, secondo la quale non si può mai dimostrare che una teoria scientifica è vera, ma solo che è falsa
Carl Gustav Hempel, filosofo della scienza, celebre per il cosiddetto «modello nomologico-deduttivo», per il quale l’essenza della scienza consisterebbe nel dedurre i fenomeni osservati da affermazioni universali: tuttavia tale approccio esclusivamente logico-formale non permette di distinguere asserzioni che sono vere di fatto, ma non hanno alcun carattere di necessità, dalle autentiche leggi di natura
Evandro Agazzi, filosofo della scienza, attualmente docente alla Universidad Autónoma Metropolitana Cuajimalpa di Città del Messico, è uno dei pochi epistemologi che oggi difendono il valore conoscitivo della scienza.
© Pubblicato sul n° 52 di Emmeciquadro