Il matematico Laurent Lafforgue, medaglia Fields (equivalente del premio Nobel per la matematica), docente presso l’École Normale Supérieure di Parigi, il 10 Aprile 2014 ha incontrato studenti e docenti del Liceo “Don Gnocchi” di Carate Brianza (Mi), accettando di sottoporsi alle loro domande sul suo lavoro.
Ne è emersa una riflessione a tutto campo sul senso della matematica e sulla ricerca della verità.
Nella sua vita, cosa le ha fatto capire con certezza che la sua strada era la matematica? Cioè, quale aspetto l’ha conquistata e continua a ritenere essenziale?
Non ho mai veramente scelto di diventare matematico. Da adolescente ero più interessato alla letteratura e alla filosofia. La matematica la studiavo, ma era meno interessante; al liceo la matematica era semplice, ottenevo buoni risultati senza studiare molto. Per questo ho intrapreso studi scientifici: potremmo dire «per pigrizia»; mi richiedevano meno lavoro rispetto a letteratura e filosofia.
Sono andato alla Scuola Normale Superiore e ho ottenuto da subito risultati piuttosto brillanti, ma la mia passione rimaneva quella di quando ero giovane, cioè lo studio delle lettere. Solo verso la fine del corso di studi, conoscendo il lavoro di un grande matematico contemporaneo, Grodenrick, ho scoperto nella matematica la stessa bellezza che intravedevo nella letteratura. Quindi son diventato ricercatore in matematica: non l’ho scelto, mi è stato dato. Non era il mestiere che sognavo da bambino, ma son contento di essere diventato un matematico.
Ora posso chiedermi se questo abbia un senso; tenendo conto che da piccolo ero più interessato ad argomenti che ponevano esplicitamente domande relative al senso della vita, questa domanda si fa ancora più grande. Possiamo chiederci se ha senso studiare la matematica, il cui oggetto non è l’uomo ma qualcosa di molto più astratto, e che è definita da regole che sembrano limitarne moltissimo il campo.
Che valore ha dedicare la vita allo studio di un ambito, la matematica, così capace di concedere una conoscenza profonda delle cose ma così particolare? Che rapporto hanno la ricerca in ambito matematico ma, potremmo dire, in qualunque ambito particolare, con la ricerca della verità?
Per me la matematica è interessante perché fa parte della verità. Certo, la matematica non è tutta la verità, ne è una piccola parte, ma dunque la verità contiene anche la matematica.
Quindi è interessante dedicarsi alla matematica, poiché gli altri aspetti della realtà non sono lasciati da parte, in quanto la ricerca della verità è comunitaria: mentre io e i miei colleghi ricerchiamo la verità nella matematica, siamo certi che altri studiosi la stanno ricercando percorrendo altre strade. Per me questo è molto importante: quando studio matematica, sono cosciente di esser parte di un’avventura che non ho cominciato io e che non terminerò, ma di cui sono parte.
La nostra è una ricerca della verità, che accomuna tutti gli uomini, e che noi realizziamo attraverso una strada particolare. Certo, occorre chiedersi perché valga la pena dedicare tante forze allo studio della matematica e, dentro la matematica, a questioni molto ristrette.
La risposta a tale domanda l’ho trovata nelle pagine vergate da Edith Stein, filosofa e santa, secondo la quale occorre tenere in mente due cose: non perder di vista l’essenziale e approfondire sempre la conoscenza del particolare. Per me, matematico, non perdere di vista l’essenziale equivale a non dimenticare che anzitutto non sono un matematico, ma un uomo, e quindi non perdere gli interessi della gioventù, che conservo e coltivo tuttora, e frequentare non solo accademici matematici e custodire gli amici. Il secondo punto è andare a fondo di un particolare in modo professionale, sacrificando altri ambiti cui potremmo interessarci.
La matematica permette questo approfondimento anzitutto perché è una storia iniziata duemila anni fa, vissuta da uomini, e vivendola tu ti rendi conto di esser parte di questa profondità. Far esperienza della profondità coincide col fare esperienza di una bellezza, e questo, oltre che in matematica, può servire anche in altri aspetti della vita.
Far esperienza di una bellezza risveglia il gusto per la bellezza: per voi che abitate in Italia, che noi francesi riteniamo il paese delle cose belle, questa è un’esperienza quotidiana. Così accade a chi, approfondendo una specifica questione matematica, si imbatte in una bellezza che allarga l’anima alla disponibilità ad accogliere la bellezza.
Studiando la matematica, si acquisisce questo senso di profondità, e allora uno decide di studiare quel dettaglio piuttosto che quell’altro, perché, magari parlando tra colleghi, coglie la possibilità di profondità nell’indagare quell’ambito. La profondità perciò spalanca all’esperienza delle cose.
Questa ricchezza della matematica è sorprendente anzitutto per noi ricercatori: sembrerebbe una disciplina rigida, pressoché immobile, e invece ogni anno si scrivono pagine nuove; è una esperienza affascinante. Tutti sospettiamo che la vita non abbia la capacità di soddisfarci; nella matematica sperimentiamo invece una continua ri-apertura.
Che cosa si prova quando si riesce, finalmente, dopo tanto lavoro, a «domare» un problema che ha occupato gran parte del proprio tempo e delle proprie energie? Cioè, che fisionomia ha l’esperienza del fare matematica e del sentimento di soddisfazione che sorprende quando finalmente si può dire: «ho capito!»?
La ricerca in matematica ha una durata indefinita; a volte si possono passare mesi o anni senza fare alcun progresso. Quando passa molto tempo nel tentare di risolvere un problema senza riuscirvi, un matematico soffre.
Quando trova la soluzione, anzitutto è sollevato dalla sofferenza, vede in questo una bellezza, prova la gioia di aver capito. Ma l’aspetto più impressionante è che, dopo aver trovato quella soluzione, non ci si accontenta, ma ci si rimette in moto per trovar la soluzione ad altri problemi, anche se si è coscienti che questo processo implica una sofferenza.
Può sembrare masochismo, ma io sono convinto che in questo processo risieda un significato filosofico profondo: la verità non consiste solo nei risultati, ma tutto il cammino che compiamo per giungere ad essa è già parte della verità.
È differente l’esperienza di scoperta del matematico di frontiera da quella dello studente che si sorprende capace di ricavare un risultato per lui nuovo?
Ci sono dei punti comuni. Per uno studente, che si imbatte in una soluzione già scoperta da altri, insorge comunque quel senso di soddisfazione e di stupore cui accennavo prima. Tuttavia, si tratta di due esperienze diverse. Per me il passaggio da studente a ricercatore è stato difficile.
Quando ero studente, avevo capito bene come studiare, ero brillante, avevo assimilato bene il sistema lezioni – studio – esami. Quando ho iniziato a fare ricerca ho dovuto cambiare vita, ho dovuto cambiare il mio modo di pensare. Per esempio, si avvia una ricerca senza sapere se con i metodi a disposizione si potrà pervenire a una soluzione.
Quindi non è necessario essere studenti brillanti per diventare ricercatori: senz’altro bisogna possedere bene la tecnica, non ci si può limitare a impostare un pensiero filosofico senza svolgere i calcoli necessari, ma d’altra parte non è necessario saper calcolare in maniera virtuosa, come pure non è necessaria una cultura generale ampia.
Quel che intendo dire è che anche in un ambito rigido come la matematica c’è posto per personalità molto diverse (virtuosi nel calcolo e lenti, colti e meno colti).
Nel 1997, il Grande fisico-matematico Vladimir Arnol’d scrisse: Mathematics is a part of physics. Physics is an experimental science, a part of natural science. Mathematics is the part of physics where experiments are cheap. The Jacoby identity (which forces the heights of a triangle to cross at one point) is an experimental fact in the same way as that the Earth is round (that is, homeomorphic to a ball). But it can be discovered with less expense. In the middle of the twentieth century it was attempted to divide physics and mathematics. The consequences turned out to be catastrophic. Questa frase ci interroga perché la più grande difficoltà dei ragazzi nell’affrontare la matematica è la scarsa convinzione che le cose che si trattano abbiano un senso e che siano conoscibili ed esplorabili, che gli oggetti della matematica siano reali tanto quanto un fenomeno. Cosa ne pensa?
Entrambe studiano cose che esistono realmente. Io lavoro in un istituto dove lavorano sia matematici, sia fisici teorici, e ogni giorno ci incontriamo e parliamo, scambiamo conoscenze e ipotesi.
A poco a poco mi son reso conto che matematici e fisici teorici son diversi non tanto per quel che studiano, ma per il rispettivo modo di pensare.
Immaginiamo che io senta parlare i miei colleghi fisici della loro ricerca, che impieghino parole che non comprendo: chiedo loro di spiegarmi di cosa si tratta.
In quanto matematico, mi aspetto che loro mi spieghino tutto mediante termini più semplici; infatti, noi matematici studiamo «cose» estremamente complicate, ma partendo da «cose» semplici, per cui procedendo per gradi si può ricostruire l’intero edificio. Invece, l’impressione avuta parlando con i miei colleghi fisici è che questo procedimento per loro non si pone: ogni elemento è collocato all’interno di una rete, e ha un suo senso all’interno di quella rete, nel suo posto.
Penso perciò che la diversità tra matematica e fisica sia relativa anzitutto al linguaggio. Pensiamo a quando abbiamo appreso la nostra lingua materna: pian piano abbiamo cominciato a utilizzare le parole che ascoltavamo; non siamo partiti dalle definizioni. Per noi matematici, invece, ogni concetto ha una definizione precisa: è la definizione del concetto che ne stabilisce il contenuto. Per esempio, se dico «cerchio», per un matematico questa parola ha una definizione precisa che contiene tutte le sue proprietà; tutte le proprietà del cerchio possono essere desunte dalla sua definizione. Se invece chiedo ai miei colleghi fisici di darmi una definizione di «atomo» o di «energia», cominciano a enumerare molti modi di ricavare l’energia, ma non mi danno quella che noi matematici consideriamo una definizione.
In conclusione, penso che la differenza tra matematici e fisici non stia nell’oggetto, ma nel modo di stare di fronte alla realtà. Un altro esempio: tutti sappiamo cos’è una «sedia» per l’esperienza che ne abbiamo avuto, e capiamo la definizione contenuta sul dizionario in quanto abbiamo un’esperienza previa di cosa sia una sedia. Invece in matematica la definizione contiene il concetto: il concetto è formato dalla definizione, che deve avere una precisione assoluta.
Nell’insegnamento della matematica ci accorgiamo che un ruolo fondamentale è rivestito dal linguaggio: non si raggiunge una comprensione veramente profonda se non si impara a disporre con precisione delle cose con cui si ha a che fare. Se ciò è vero, a che cosa non dobbiamo rinunciare da insegnanti? Che cosa bisogna privilegiare nell’insegnamento della matematica? E ancora, qual è il valore formativo dell’insegnamento della matematica nel percorso di crescita di una persona?
L’elemento più importante per divenire matematico è imparare il linguaggio. La conoscenza del linguaggio è strutturata; per far matematica occorre anzitutto imparare la grammatica della propria lingua madre; per voi italiani, la grammatica italiana, ma anche di altre lingue. Per me, per esempio, l’elemento che mi è servito di più nel mio futuro di matematico fu, da ragazzo, studiare il latino.
Quando studiamo qualcosa, le conoscenze che accumuliamo non vanno intese solo in termini di utilità immediata: quanto appreso contribuisce a formare una capacità di studiare, di apprendere, la cui utilità emergerà in seguito. Quando si frequenta il Liceo non bisogna pensare che quella certa materia non serva e quindi non la si studi: come per tutte le cose che la vita ci pone dinanzi, la scelta più ragionevole è prenderla sul serio. Io non ho mai sognato di essere un matematico, ma lo sono diventato: si può divenire felici mediante le cose che ci sono date.
Anch’io ho frequentato il Liceo, ricordo bene che in quel periodo dovevo studiare materie non scelte da me secondo tempi non fissati da me, ma il fatto che queste cose non fossero stabilite da me non implica che non fossero per me.
Ci può far intuire il contenuto del suo lavoro? Sappiamo che ha lavorato o lavora al Programma Langlands. Di che cosa si tratta?
Sono venti anni che mi occupo degli studi di Robert Langlands, un matematico canadese. Non l’ho deciso io: sono studi sviluppati da altri che mi sono stati assegnati, ma nella matematica accade che si lavori collettivamente per conseguire risultati grandi.
Nello specifico, si tratta di uno studio che riguarda i numeri interi. Negli anni, i matematici si sono accorti che la teoria dei numeri permette di porre problemi che sono i più semplici da enunciare, ma – paradossalmente – i più difficili da risolvere.
All’interno della teoria dei numeri c’è il programma di Langlands che dice che due teorie apparentemente opposte (quella analitica e quella algebrica) prendono in realtà la stessa via. Una comprensione matematica ci porta a mettere in relazione due cose, quindi un risultato matematico profondo mette in relazione due cose che sembravano profondamente scollegate.
Questo programma di Langlands è un caso estremo del cercare di mettere in relazione due cose estremamente lontane. Quando si lavora su un problema di cui non si è ancora trovata la soluzione, non si ha bisogno di porsi la questione della profondità: è una dimensione oggettiva, evidenziata dal numero di persone che si sono occupate del problema senza reperire una soluzione. Però, quando si scrive una nuova teoria, occorre partire da cose semplici: tutto sta allora nella ricchezza delle cose semplici. Insisto su questo non a caso.
Intravidi una bellezza nella matematica quando lessi per la prima volta gli scritti di Grodenrick, che aveva la capacità di porre in rilievo la bellezza e la grandezza individuandola nelle cose semplicissime.
Non bisogna pensare che in matematica la grandezza stia in risultati difficili, come se si trattasse di una competizione sportiva. In matematica le cose più importanti sono semplici, talmente semplici che a volte occorrono molti anni per riuscire a formularle. In altri termini, la matematica ci insegna che bisogna cercare le cose semplici: è questo il difficile!
Lei ha parlato della ricerca matematica come parte della ricerca della verità. Ciò implica aver in mente qual è la fisionomia della verità nel suo complesso. Qual è la sua immagine della verità?
Quel che posso dire è che noi abbiamo una esperienza della verità. Noi conosciamo questa parola da quando siamo piccoli; è come se questa parola ci chiamasse continuamente lungo il corso di tutta la nostra vita, e a poco a poco facciamo esperienza delle caratteristiche della verità.
Il suo primo carattere è l’esattezza: ci sono affermazioni vere e altre false. Un’altra caratteristica è esser profonda e non superficiale, essenziale e non secondaria.
Facendo matematica si scopre che non tutte le cose esatte sono vere allo stesso modo: ci sono cose più importanti di altre e la matematica ha una struttura gerarchica. Per esempio, se un matematico si pone la domanda se la matematica sia il cuore della realtà, percepisce che sta compiendo una riduzione. Questa è un’altra differenza rispetto alla fisica.
Sto pensando alla frase di Galileo, secondo il quale «il mondo è scritto in un linguaggio matematico»; noi matematici non la pensiamo così! Per noi è la matematica a esser scritta in modo matematico, ma il mondo non è scritto solamente in linguaggio matematico. Se per esempio pensiamo a noi in quanto persone, non siamo descritti da una legge matematica. Se abbiamo in mente questa ricerca dell’essenziale, dobbiamo ammettere che il cuore delle cose non è sola matematica. La verità è qualcosa che ci tocca, ci riguarda.
Noi matematici siamo abituati a scrivere i risultati – la verità – in termini impersonali: hanno valore per me e per tutti. Tuttavia, quei risultati impersonali sono frutto di una ricerca collettiva, di una storia vissuta da persone.
La verità dunque ha un aspetto personale, ha l’aspetto di una storia, di un incontro.
Uno studioso, a seguito di una scoperta, riparte subito per una nuova ricerca, anche se questo implica sofferenza. Da dove trae la certezza per riprendere il cammino?
Non c’è una certezza: quando parti per una ricerca non sai se raggiungerai un risultato, sai che puoi fallire. La certezza che sostiene il nostro lavoro è che, se noi non capiremo fino in fondo, altri potranno compiere a fondo il percorso dopo di noi.
Ancora una volta, importante è l’aspetto «collettivo».
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Diego Mansi
(Docente di matematica e fisica presso il Liceo scientifico “Don Gnocchi” di Carate Brianza (Mi))
© Pubblicato sul n° 53 di Emmeciquadro