La scuola, ambito privilegiato di formazione dei giovani, vive un tempo di transizione connesso ai cambiamenti che investono la società e in particolare il modo del lavoro. Roger Abravanel dalla sua multiforme attività lavorativa in contesti internazionali trae alcune riflessioni sulla richiesta formativa odierna, quasi una sfida alla mentalità funzionalistica ancora molto diffusa nella scuola e tra le famiglie. Spunti interessanti che potranno fare utilmente discutere i docenti non solo di discipline scientifiche.
Una prima domanda. Lei ha giocato la sue competenze di ingegnere laureato al Politecnico di Milano in contesti lavorativi internazionali. Può presentarsi ai lettori della rivista?
Mi sono laureato in ingegneria al Politecnico di Milano a ventun anni, dopo il servizio militare ho avuto due esperienze di lavoro molto diverse, una nella ricerca e l’altra nel mondo del business; poi un MBA e poi McKinsey dove ho lavorato per trentaquattro anni. Nel mio prossimo libro Il lavoro cambia ma la scuola no racconto perché la mia esperienza, assieme a quelle di tanti altri giovani che ho conosciuto in questi anni, può insegnare tre lezioni:
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Che non è importante il «pezzo di carta» ma piuttosto prendere una buona laurea in una buona università, prendere una laurea in una università mediocre non serve a nulla nel mondo del lavoro;
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Che la facoltà di ingegneria è stata molto utile non per le competenze tecniche che mi ha insegnato e che non ho mai usato, ma per avermi insegnato una competenza essenziale nel mondo del lavoro: risolvere problemi;
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Che un’esperienza internazionale è vitale per poter conoscere realtà diverse e conoscersi meglio; conoscere molto bene l’inglese è essenziale per sfruttare al meglio questa esperienza.
Quali sono secondo la sua esperienza i fattori di novità che caratterizzano oggi il mondo del lavoro rispetto a un passato abbastanza recente?
Il mondo del lavoro è cambiato profondamente ma non tutti se sono accorti. Una volta c’erano gli operai che eseguivano le procedure progettate dai dirigenti. Oggi il passaggio da una economia industriale a una post-industriale dei servizi, la digitalizzazione e la globalizzazione hanno cambiato tutto completamente.
Chi lavora deve essere in grado di farlo in piena autonomia, improvvisando e risolvendo problemi da solo. Per esempio, un addetto al check in dell’aeroporto, quando si cancella o ritarda un volo, deve prendere le decisioni da solo e non attendere il suo capo.
Oggi tutti devono essere dirigenti.
Soffermiamoci in particolare sui contesti tecnico-scientifici. Quali «capacità» deve sviluppare una formazione tecnica e/o scientifica già a livello di scuola secondaria di secondo grado, perché i giovani siano all’altezza della dinamicità e complessità delle realtà lavorative attuali?
Fermo restando naturalmente la necessità di una robusta conoscenza dei contenuti.
Qui c’è una confusione di fondo. Ciò che è importante per il mondo del lavoro è l’aver imparato a ragionare con la propria testa e questo si può fare sia con la matematica sia con una traduzione dal greco / latino sia con un dibattito su un tema di storia. Non è importante cosa si impara, ma come si impara e che persona si diventa grazie a ciò che si impara.
Queste che sono chiamate competenze cognitive si possano imparare non solo nelle facoltà come ingegneria. Solo che nelle università italiane, a parte appunto ingegneria e economia in ottime università, questo non avviene.
Questa è la ragione per cui molti ingegneri oggi fanno tutt’altro che costruire impianti per le strade, eccetera, ma si occupano di ricerche di mercato, di consulenze e di finanza.
I giovani e le loro famiglie spesso ritengono che per trovare lavoro oggi occorra una formazione fortemente specializzata e quindi un titolo di studio molto specialistico, si tratti di laurea o di diploma di istituto tecnico e istituto professionale. Fino a che punto questo è ancora vero in un mercato del lavoro che, soprattutto in Italia, è in continua e rapida evoluzione?
Questo è uno dei miti che attacco nel mio quarto libro.
Oggi la scuola italiana e le famiglie italiane stanno spingendo verso l’asse verticale dimenticando l’asse orizzontale e, come abbiamo detto, molto ricercata dal mondo del lavoro.
Alla fine le aziende dicono «ti insegniamo noi la specializzazione, quello che vogliamo è la materia prima in un giovane che è entusiasta del proprio lavoro, è capace di lavorare con gli altri, è pieno di iniziativa».
È qui che decade miserabilmente la nostra scuola.
Come giudica l’attuale situazione strutturale del sistema scolastico italiano, alla luce anche delle precedenti osservazioni?
La scuola italiana è rimasta una scuola per l’era industriale che vuole insegnare dei mestieri ma non le competenze della vita e il lavoro descritte prima.
Per farlo è necessaria una rivoluzione nella didattica che preveda per esempio molto meno lezioni frontali con l’insegnante che legge il libro di testo, e molti più dibattiti e progetti.
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L’intervista a Roger Abravanel è stata rilasciata nel mese di Giugno 2014
A cura di Maria Elisa Bergamaschini
(Redazione della Rivista Emmeciquadro)
Sullo stesso tema, La Redazione suggerisce l’articolo di Marco Martini: “La richiesta formativa oggi. Una sfida per la scuola: insegnare a pensare“, pubblicato sul n° 16-Dicembre 2002 di Emmeciquadro
© Pubblicato sul n° 53 di Emmeciquadro