Oggi vi è una diffusa e crescente tendenza a guardare con sospetto la tecnologia per l’effettivo cattivo uso che in alcuni casi se ne fa o che se ne potrebbe fare. È possibile però imbattersi in testimonianze di uso positivo di tecnologie avanzate, in campi complessi e delicati come per esempio in ambito biomedico.
Allo scopo di far incontrare ai lettori esperienze del genere, abbiamo intervistato Raffaele Pugliese, responsabile del settore di Chirurgia video assistita e di Chirurgia robotica presso il Niguarda Cancer Center di Milano e Presidente e Fondatore dell’AIMS Academy (Advanced International Mini-invasive Surgery) per l’insegnamento della cosiddetta «chirurgia senza cicatrici». Si tratta di strutture di eccellenza, riferimenti d’avanguardia a livello internazionale.
Dottor Pugliese, come la sua personale storia lo ha condotto a costituire questo centro di avanguardia per l’utilizzo di tecnologie innovative in campo chirurgico?
Sono chirurgo ormai da quarant’anni e da oltre venti dirigo un reparto di Chirurgia generale. Posso dire di aver sempre svolto il mio lavoro con diligenza, serietà e passione seguendo le tecniche tradizionali, aperto alle innovazioni, disponibile a mettermi in gioco, a confrontarmi e a lavorare con gli altri, a offrire il massimo della competenza per creare una scuola e garantire ai collaboratori più giovani una educazione pari alla grandezza delle domande che vengono poste.
Alla fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta del secolo scorso una sorta di rivoluzione tecnologica ha cominciato a imporsi con forza: la Chirurgia mininvasiva.
Tale tecnica consente di effettuare interventi chirurgici senza ricorrere alle classiche incisioni, utilizzando appositi strumenti altamente tecnologici. L’obiettivo era ed è offrire ai pazienti un vantaggio dato da un minor trauma, una più rapida ripresa, minori dolori post-operatori e migliori risultati estetici (addirittura si punta alla Chirurgia senza cicatrici).
Fin dai primi anni Novanta, ho accettato la sfida che i primi pionieri avevano posto, ma non senza interrogarmi sulla reale utilità di queste tecniche innovative e valutandone i rischi per i pazienti. Infatti, gli indiscutibili vantaggi realizzati si accompagnavano a un aumento della complessità nell’esecuzione delle procedure, per la necessità di acquisizione di nuove capacità tecniche. Questo ha rallentato la diffusione della metodica perché mancava un percorso di sperimentazione e formazione idoneo, e c’era il rischio che l’apprendimento avvenisse direttamente sui pazienti, trasformando l’uomo in oggetto di sperimentazione.
Era evidentemente necessario che si realizzassero piattaforme idonee per la formazione, lo sviluppo e la diffusione di queste nuove tecnologie. Il primo a realizzare una simile piattaforma è stato Jacques Marescaux nel 1993 a Strasburgo.
Avendo avuto la possibilità di visitare questo Centro di formazione, ho visto in quest’opera non solo una risposta già consolidata alle necessità che emergevano, ma anche una realtà che le oltrepassava. Da qui l’idea di realizzare un centro simile in Italia.
Può dirci in breve quali tecnologie sono utilizzate nel Centro e con quali riscontri positivi e/o negativi? In particolare durante un intervento quali procedure sono eseguite dalle macchine e qual è l’intervento del medico?
Sono utilizzate tutte le tecnologie che permettono di eseguire la Chirurgia mininvasiva delle più diverse patologie benigne o maligne, di pertinenza della mia specialità (Chirurgia generale e oncologica) o di altre specialità, come Urologia, Ginecologia, Chirurgia toracica, Otorino, eccetera.
Si usano gli strumenti più moderni per la dissezione dei tessuti di emostasi, le suture lineari o circolari, tecniche di visione con telecamere d’avanguardia; in ultima analisi, tutti gli strumenti più moderni usati nelle sale operatorie per i più diversi interventi. Abbiamo inoltre la possibilità di evidenziare e insegnare le caratteristiche e i vantaggi di ogni strumento per le diverse circostanze.
La tecnologia è assolutamente indispensabile per eseguire con più sicurezza gli interventi, quindi il riscontro non può che essere positivo, bisogna imporne l’utilizzo per ottenere il massimo di efficacia.
Non c’è nessuna tecnologia che non ha bisogno dell’apporto dell’uomo. Non esiste il robot che conosce, decide ed esegue da solo. Noi usiamo il robot chirurgico, ma appunto lo usiamo come uno strumento, utile quando chi lo utilizza lo ritiene. Quindi l’intervento del medico è sempre centrale e indispensabile.
L’uso di queste tecnologie ha modificato il suo profilo professionale? Come ha affrontato il rischio di diventare un tecnico esperto?
Certamente lo sviluppo e l’uso delle tecnologie hanno modificato il mio profilo professionale, perché mi hanno permesso di eseguire molte procedure chirurgiche con una modalità che in passato non era possibile, offrendo ai pazienti vantaggi ormai universalmente riconosciuti, quali: una minore immunodepressione, un minor dolore, una ripresa più rapida delle attività, incisioni cutanee molto più piccole ed esteticamente più accettabili, minor possibilità di aderenze interne nel futuro e altro ancora.
Questo ha voluto dire per me un notevole lavoro di apprendimento e di esercizio sui diversi modelli formativi.
Essere un esperto nell’uso delle tecnologie non è un rischio, ma una opportunità, proprio perché mi permette di essere sempre più utile e più sicuro in ciò che devo fare. La tecnologia aumenta le nostre possibilità.
Quando affermiamo il concetto di un bene del nostro operare e cerchiamo la sicurezza nell’utilizzare la tecnologia, vogliamo affermare che ogni tecnologia è strumento per uno scopo e quindi la definizione della domanda sullo scopo deve essere costantemente ripresa e riposta, perché facilmente nell’azione dell’uomo si può attribuire allo strumento uno scopo in se stesso.
Questo vale anche per la ricerca. Se lo scopo è un bene per l’uomo, l’uomo va conosciuto nella sua verità e totalità. «Chi è mai l’uomo perché te ne curi?» (Salmo 8).
In questi anni si riscontra un venir meno della relazione medico-paziente come parte essenziale della diagnosi e della cura. Nella sua esperienza la tecnologia cambia in positivo o in negativo tale rapporto? Quali i rischi a questo riguardo e quali attenzioni devono essere tenute presenti?
La tecnologia in sé non cambia il rapporto medico-paziente perché, come ho detto, essa è solo uno strumento nelle mani dell’uomo e spesso molto utile. Chi cambia il rapporto tra gli uomini in generale, e tra medico e paziente in particolare, è la coscienza che si ha di sé e dei fattori che accomunano gli uomini.
Permettetemi di raccontare un fatto. In un congresso di chirurghi si è tenuta una tavola rotonda a cui partecipavano avvocati, giornalisti e magistrati con a tema il rapporto conflittuale tra medico e paziente e il suo deteriorarsi. Poiché non si veniva a capo della questione, il magistrato prendendo la parola ha dichiarato: «non si può in verità parlare di azione medica secondo scienza e coscienza, perché la scienza può ancora avere elementi di oggettività, ma la coscienza è totalmente soggettiva, quindi quello che occorre è poter normare i rapporti. Buone regole ci permetteranno di avere rapporti corretti».
Questa affermazione, a mio avviso, significherebbe obbligarci a costruire castelli di norme dei quali avvocati e magistrati sarebbero amministratori unici, castelli che non arriverebbero comunque a normare tutto, e nonostante i quali alla fine non cesserebbe la conflittualità dei rapporti, perché secondo questa visione saremmo accomunati da null’altro che dalla specie e dal costituirsi in società per necessità. Ogni rapporto sarebbe ultimamente opportunistico.
Io penso che per affrontare in modo serio la questione di ogni rapporto umano, qualunque sia la circostanza iniziale, è necessario mettere a tema ciò che costituisce l’uomo: la «coscienza di sé». La coscienza non è un fattore soggettivo ma oggettivo. L’uomo non la crea, al contrario gli viene donata, e come a lui anche ai suoi simili.
È un fattore comune grazie al quale ciascuno può riconoscere un valore anche nell’altro. Questo fa dell’essere umano l’unico essere cosciente di sé e che è in grado di fare dono consapevole di sé agli altri.
Solo per questa comunione l’uomo può riconoscere i pregi e i limiti suoi e degli altri e ripartire da questo dato per fondare rapporti realistici da cui si può rilevare la possibilità di un bene per sé. Quindi la domanda centrale da cui partire è «Chi sono io e chi è l’altro per me?», per creare una vera alleanza terapeutica in cui ognuno possa mettere la sua competenza.
La rivista Emmeciquadro si rivolge in particolare agli insegnanti. In base alla sua esperienza di docente dell’AIMS Academy, quale aspetto nella formazione di base dei giovani ritiene oggi significativamente importante?
Gli uomini naturalmente si percepiscono bisognosi di formazione e rilevano come una evidenza che questo avviene in una relazione con altri uomini. Perciò, fattore indispensabile all’educazione è riconoscere umanamente questa evidenza. Perché ciò accada è indispensabile essere coscienti della propria identità e della necessità di una strada alla maturità, sia umana che tecnica.
Questo sempre mette in gioco la libertà e una apertura mentale che cerca risposta alle domande e ai desideri più veri che ci costituiscono. Chi è più educato a essere aperto, accoglie le proposte di innovazione con intelligenza e capacità critica.
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a cura di Maria Elisa Bergamaschini
(Redazione della Rivista Emmeciquadro)
Raffaele Pugliese
(È direttore, dal 1998, della Struttura di Chirurgia Generale Oncologica e Mininvasiva dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda, e dal 2004 del Dipartimento Chirurgico Polispecialistico. È Presidente e Fondatore dell’AIMS Academy (Advanced International Mini-invasive Surgery) per l’insegnamento della chirurgia mininvasiva)
© Pubblicato sul n° 54 di Emmeciquadro