L’avvento dell’agricoltura, che ha segnato una grande svolta nella storia dell’umanità, permettendo di sostituire il nomadismo con insediamenti sempre più stabili, e di fornire una riserva di cibo prima impensabile, ha richiesto fin dall’inizio forme anche rudimentali di invenzioni tecniche. L’articolo ripercorre la storia delle macchine agricole a partire dai primi strumenti manuali. In realtà l’avvento delle vere e proprie macchine agricole per la semina, la mietitura e la trebbiatura parte dal Settecento: dapprima si utilizzano macchine a trazione animale, poi nell’Ottocento si introduce l’uso delle macchine a vapore, infine nel Novecento si inaugura la vera e propria meccanizzazione dell’agricoltura con i moderni trattori. Un tema ignorato dai media che invece può interessare docenti e studenti in vista della ormai prossima Expo 2015.
La storia degli attrezzi e delle macchine, utilizzati dall’uomo in agricoltura, si intreccia fittamente, fin dalle origini, con quella delle tecniche più propriamente agrarie.
Fin da quando i nostri antenati iniziarono ad abbandonare la loro condizione di nomadi-cacciatori-raccoglitori e iniziarono l’avventura che li avrebbe lentamente trasformati in agricoltori sedentari, ci fu bisogno di qualche attrezzo, se pur rudimentale, per preparare il terreno alla semina (un semplice bastone appuntito, una zappa), per raccogliere quanto era cresciuto (falci, rastrelli), per separare i semi dagli steli e dalla pula (battitori, setacci), per trasportare, conservare e sfaldare i semi. Più avanti si imparò a concimare, irrigare, potare, aggiogare animali per l’aratura, macinare e vagliare le farine, tutte operazioni per le quali furono concepiti una miriade di attrezzi e di strumenti specializzati (pale, vanghe, zappe, aratri, attrezzi da taglio, finimenti, macine, vagli, eccetera), e si svilupparono le tecniche (in particolare le metallurgie del rame, del bronzo e del ferro) con le quali produrli.
Nonostante tale ricchezza e varietà di strumenti le uniche forze che li muovevano rimasero per millenni i muscoli degli uomini e degli animali. L’unica eccezione a questo millenario dominio dell’energia muscolare, furono i mulini azionati ad acqua o con il vento.
I primi, inventati e usati (anche se non molto estesamente) già in epoca romana, ebbero un lungo oblio al declino di questa civiltà, ma il loro uso riprese vigoroso a partire dal XII secolo, in coincidenza con il rifiorire e lo svilupparsi delle tecniche agrarie nel Medioevo. Fu in quest’epoca che in Occidente furono inventati, o meglio sviluppati, a partire da idee importate dal Medio Oriente con le Crociate, anche i mulini a vento. La molitura rimase peraltro, ancora per diversi secoli, l’unica operazione di tutto il complesso ciclo agricolo che venisse effettuata con un’energia diversa da quella muscolare, e il mulino fu in sostanza, per una lunghissima era, l’unica macchina vera e propria utilizzata in agricoltura.
Le cose sarebbero cominciate timidamente a cambiare solo a partire dalla cosiddetta «rivoluzione agricola» che avvenne fra il 1650 e il 1820, anche se l’era moderna della «agricoltura di potenza», nella quale con la forza del vapore iniziò ad affermarsi l’utilizzo di nuove potenti energie, si può far cominciare solamente attorno al 1851, l’anno della grande Esposizione Universale di Londra.
Il vallus, «macchina» agricola romana
Viene spesso citata come unica eccezione a questo stato di fatto una «macchina», sviluppata attorno al I secolo d.C., e utilizzata nelle provincie romane delle Gallie, della quale ci sono rimaste alcune labili tracce letterarie (nelle opere di Plinio il Vecchio e in quelle più tarde di Rutilius Taurus Aemilianus, detto anche Palladius) e iconografiche, alla quale vogliamo brevemente accennare.
Si tratta di una mietitrice per cereali, denominata vallus, montata su due ruote e spinta da un bue o da un asino, con la quale, a quanto sembra, si effettuava la raccolta delle sole spighe, mentre la paglia veniva lasciata sul campo, per una successiva raccolta manuale, o per essere bruciata.
Le spighe venivano recise da una serie di lame affilate montate, come una specie di pettine tagliente, sulla parte anteriore, e cadevano in un sottostante vano di raccolta, dal quale dovevano essere periodicamente rimosse a mano.
Almeno due assistenti, uno per condurre l’animale e guidare l’attrezzo con due lunghe stanghe, l’altro per controllare e favorire con uno speciale bastone il taglio delle spighe, erano necessari a contorno di questa mietitrice, la quale peraltro, non avendo parti in moto (le lame di taglio erano fisse), più che una vera e propria macchina era un intelligente assemblaggio di utensili da taglio.
Qualche studioso di archeologia sperimentale, basandosi su un paio di bassorilievi della macchina rinvenuti a Busenol e Arlon, in Belgio, si è cimentato nella ricostruzione del vallus, mettendone in rilievo una certa criticità di funzionamento.
Ciò forse spiega perché il vallus non ebbe una diffusione estesa nell’impero romano, nonostante questa «macchina» cercasse di dare una risposta a uno dei problemi maggiori del ciclo agricolo, quello della raccolta, che dev’essere ovunque effettuata in maniera efficiente e veloce, per non perdere qualità e quantità del prodotto, ma soprattutto nelle provincie del nord, più soggette ai capricci del clima.
I primi timidi passi della meccanizzazione agraria
Con la fine dell’impero romano il vallus cadde nell’oblio e se ne perse la memoria, ma non sembra un caso che l’intenso lavoro richiesto dalla raccolta e trebbiatura dei cereali sia stato di nuovo il primo ad attrarre l’attenzione degli inventori che fra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento diedero avvio all’avventura della meccanizzazione agraria.
In primo luogo citiamo le prime rudimentali seminatrici, sviluppate indipendentemente nella seconda metà del Settecento, in vari paesi europei, che avevano in genere una struttura simile a quella concepita ancora agli inizi del Settecento dal nobile e agronomo inglese Jethro Tull (1674-1741): una sorta di carriola (prima spinta a mano, poi trainata da un animale) dotata di un assolcatore per aprire il solco nel quale il seme veniva fatto cadere con regolarità da un semplice distributore rotante (una rotella dotata di cavità che prelevava il seme da una tramoggia e lo faceva cadere in un tubo) mosso con una cinghia o con ingranaggi dalla ruota della carriola; posteriormente una sorta di piccolo erpice provvedeva a richiudere il solco e ricoprire il seme.
Queste macchine precorsero le seminatrici a file multiple delle quali nella prima metà del XIX secolo comparvero una miriade di varianti, e nelle quali furono gradualmente introdotti vari perfezionamenti che permettevano di regolare facilmente la profondità di semina, il numero di semi rilasciati, la loro distanza, e di adattare agevolmente la macchina alla semina di differenti sementi. Per la loro semplicità meccanica e per la limitata potenza di traino che esse richiedevano, le seminatrici furono tra le prime macchine che comparvero in gran numero nei campi coltivati nel diciannovesimo secolo.
Altre macchine agricole basiche, in genere mosse dalla semplice forza muscolare umana, furono i trincia-foraggi a lame rotanti comparsi sul mercato inglese verso il 1764 [Immagine a destra], ma soprattutto la famosa sgranatrice per il cotone (cotton gin) sviluppata negli Stati Uniti da Eli Withney (1765-1825) che la brevettò nel 1794 [Immagine a sinistra].
Questa macchinetta (la prima versione, azionata manualmente, poteva produrre circa 25 kg di fibra di cotone pulita al giorno) era costituita da un cilindro dentato che «agganciava» i fiocchi grezzi di cotone e li forzava a passare attraverso una sorta di pettine, il quale tratteneva i semi, rimuovendoli dalle fibre; un secondo rullo controrotante, azionato da una cinghia o da semplici ingranaggi, provvedeva a «spazzolare» in continuazione il primo, in modo da rimuovere da esso le fibre pulite ed evitare che si intasasse.
La sgranatrice compiva in modo semplice, veloce (circa 200 volte più veloce che a mano) e sicuro un’operazione in precedenza fatta a mano con enorme dispendio di lavoro, e contribuì notevolmente allo sviluppo della coltivazione e della trasformazione industriale del cotone nel sud degli Stati Uniti.
La mietitrice meccanica e i suoi derivati
Ritornando alle macchine mietitrici, osserviamo che gli storici della tecnologia sono abbastanza concordi nel riconoscere che la mietitrice (reaper) dell’inventore americano Cyrus Mc Cormick (1809-1884), presentata pubblicamente a Lexington in Virginia il 25 luglio del 1831 e brevettata nel 1834, rappresentò la prima macchina di questo tipo di buona funzionalità e di uso pratico, a essere prodotta su scala industriale.
Qualche anno dopo questa macchina divenne ben nota anche in Europa, dopo essere stata una delle più ammirate e premiate protagoniste della prima Esposizione Universale di Londra del 1851.
Già il prototipo conteneva gli elementi meccanici essenziali a farne una macchina semiautomatica robusta, affidabile e di facile uso: aveva un robusto telaio metallico montato su due ruote, la principale delle quali trasmetteva il moto ai vari meccanismi, mediante una serie di ingranaggi e cinghie; la macchina veniva trainata da uno o due animali da tiro e veniva controllata dal solo guidatore con l’aiuto di un’alta persona; il taglio era laterale, quindi gli steli tagliati non venivano calpestati; la barra falciante era costituita da una sorta di pettine fisso su quale scorreva avanti/indietro una barra tagliente a denti triangolari, mossa dalle ruote (uno schema simile era già stato inventato dagli inglesi Ongle e Brown all’alba dell’Ottocento ed è stato utilizzato per oltre 150 anni da tutte le successive macchine da mietitura e da sfalcio); un aspo girevole tratteneva gli steli e li adagiava verso la barra falciante, evitando che fossero rovesciati in avanti dal moto della macchina; in tal modo gli steli tagliati cadevano all’indietro in modo ordinato su una piattaforma dalla quale venivano rimossi con un rastrello, pronti per essere legati in fasci, essiccati e successivamente trebbiati.
Le mietitrici di Mc Cormick furono tra le protagoniste della conquista delle grandi distese arabili che i pionieri americani cominciarono a mettere a cultura nella loro espansione verso Ovest.
Queste macchine subirono nel corso degli anni molti perfezionamenti e miglioramenti. Per esempio, già nel 1858 i fratelli americani Marsh svilupparono una mietitrice dotata di un «nastro» girevole di tela, che portava gli steli recisi fino a una piattaforma, dove due operatori, trasportati dalla macchina, provvedevano a legarli a mano in mannelli. Da qui il passo fu abbastanza breve per arrivare ai primi prototipi di mieti-legatrici, sviluppate da diversi inventori negli Stati Uniti dopo il 1867.
Queste macchine erano in grado di legare automaticamente con un cordino i fasci di spighe, dopo che erano stati tagliati e ordinati, senza l’intervento di alcun operatore; una macchina di questo tipo veramente ben funzionante e affidabile comparve però solo qualche anno più tardi, verso il 1874, a opera di Marquis L. Gorham (1821-1889) e fu perfezionata qualche anno dopo da John F. Appleby (1840-1917) che inventò un meccanismo annodatore particolarmente semplice ed efficace.
Verso il 1880 lo sviluppo delle mieti-legatrici si era ormai quasi concluso. Nel 1885 negli USA vennero prodotte circa 100.000 mieti-legatrici e 150.000 fra falciatrici e mietitrici: una nuova grande industria era ormai nata e consolidata (solo nel settore delle mietitrici impiegava più di 30.000 persone).
L’evoluzione ed il perfezionamento della mietitrice continuò comunque per vari decenni e possiamo considerare che il suo stadio finale siano state le mieti-trebbiatrici, cioè le macchine che compiono direttamente sul campo le due fasi della raccolta e della separazione dei semi da paglia e pula (trebbiatura).
Le prime macchine di questo tipo comparvero negli Stati Uniti già negli anni Settanta dell’Ottocento, ma ancora in mancanza di una adeguata potenza motrice il loro traino con cavalli o muli (erano necessari tiri fino a 36 animali) era assai complesso e fattibile solo in terreni pianeggianti di grandissima estensione; la loro diffusione fu quindi piuttosto limitata.
Le mietitrebbiatrici, del tipo trainato, cominciarono quindi a diffondersi estesamente (almeno negli USA) solo dopo la Prima Guerra Mondiale con l’avvento dei trattori a motore endotermico.
Infine, le prime mietitrebbiatrici semoventi, cioè dotate di motore proprio, dette anche combine, che sono il tipo tuttora in uso, furono costruite dalla Massey-Harris e utilizzate negli USA e in Canada verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il loro utilizzo si sarebbe poi gradualmente diffuso nel secondo dopoguerra.
La trebbiatrice meccanica e il suo motore
Lo sviluppo delle mietitrici ci ha trascinato molto avanti negli anni, ed è ora necessario fare un passo indietro per ritornare all’origine delle macchine per la trebbiatura dei cereali, la cui storia, come si è visto, si è intrecciata con quella delle mietitrici.
La trebbiatura (o battitura) è un’operazione volta a provocare il distacco dei semi dalle spighe e dalla paglia, tradizionalmente eseguita battendo a mano il raccolto con speciali bastoni articolati (correggiato) oppure facendolo calpestare dagli animali. A questo faceva seguito l’operazione di vagliatura, per rimuovere pula e sporcizia da quanto prodotto nella prima fase del lavoro.
Lo sviluppo del primo dispositivo trebbiatore meccanico avvenne in Scozia nella seconda metà del Settecento. Dopo i tentativi effettuati da altri inventori locali, nel complesso fallimentari, o perché i semi non uscivano integri dal trattamento meccanico, o perché la macchina era soggetta a usura troppo rapida, l’idea giusta venne nel 1786 a Andrew Meikle (1719-1811), di professione costruttore di mulini.
Egli sviluppò il tipo di «battitore» che nella sua sostanza possiamo ritrovare ancora nelle trebbiatrici moderne: un cilindro metallico munito di numerosi robusti spuntoni, che ruota a velocità elevata (almeno 600 giri al minuto) all’interno di un semi-cilindro cavo (controbattitore) di diametro un po’ superiore, dotato anch’esso di robusti spuntoni, disposti sfalsati rispetto a quelli del cilindro interno.
Il grano, o altro cereale, viene introdotto da un’apertura superiore, viene trascinato dagli spuntoni rotanti e sbatte contro quelli del cilindro cavo. Gli urti e il violento scuotimento delle spighe provocano il distacco dei semi, che cadendo verso il basso vengono separati dalla paglia da una griglia, e ulteriormente separati dalla pula e dalla lolla con un vaglio; quest’ultimo viene investito da una corrente d’aria, generata da un ventilatore a palette azionato dallo stesso battitore per mezzo di cinghie, in modo da favorire la rimozione dei residui leggeri.
Il battitore meccanico di Meilke poteva essere azionato a mano (se di piccole dimensioni), oppure da animali da tiro o da una ruota idraulica, e in seguito fu azionato da macchine a vapore o da motori endotermici. Fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, nelle campagne del Regno Unito il successo di questa macchina, fu tanto ampio da suscitare veri e propri moti di rivolta da parte dei salariati che perdevano il loro lavoro a causa della sua introduzione.
Inizialmente ci fu una forte disputa fra quanti ritenevano più conveniente realizzare grosse macchine fisse da trebbiatura, in genere azionate da ruote idrauliche, da collocare in impianti centralizzati dove far convergere i raccolti di zone piuttosto ampie, e quanti ritenevano preferibile non trasportare i raccolti su lunghe distanze. La contesa venne risolta con l’avvento di macchine a vapore montate su ruote (locomobili), facilmente spostabili: fu insieme a esse che le trebbiatrici meccaniche iniziarono a viaggiare di fattoria in fattoria, consentendo che le messi rimanessero vicine ai campi di raccolta.
Nel corso dell’Ottocento le trebbiatrici furono costruite in una miriade di varianti, e con un progressivo complicarsi del progetto, che vide l’aggiunta di vagli, vibrovagli, ventilatori, dispositivi di separazione e pressatura della paglia, eccetera.
La macchina migliorò notevolmente la sua produttività, e la qualità e pulizia del grano prodotto. La struttura portante delle trebbiatrici continuò a essere fatta per la gran parte di legno, e solamente dopo l’inizio del Novecento alcuni costruttori realizzarono modelli interamente metallici.
Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, la macchina a vapore si affermò gradualmente in tutta Europa come la motrice comunemente usata per azionare le trebbiatrici meccaniche.
La tipica locomobile era costituita da una caldaia a tubi di fumo, molto simile a quella delle locomotive ferroviarie, dotata di un focolare piuttosto ampio, in modo da poter bruciare facilmente legna o residui vegetali ingombranti.
La caldaia era montata su quattro ruote metalliche e portava sulla parte superiore il cilindro o i cilindri motori, che azionavano un grosso volano. La potenza prodotta variava, a seconda dei modelli dai 3 ai 20-30 Hp, e il peso dai 1800 ai 6-7000 kg.
Le macchine più leggere venivano in genere trainate verso le fattorie da buoi o cavalli, ma quelle più pesanti potevano essere semoventi, con un semplice sistema di trasmissione a catena, e in grado di trainare, a bassa velocità, anche le trebbiatrici. In Italia l’introduzione di queste macchine avvenne con qualche ritardo rispetto ad altri paesi (e con forti differenze fra Nord e Sud), ma verso il 1910 si può dire che le trebbiatrici a vapore erano ormai ovunque accettate, e prodotte anche localmente; rimasero poi in uso ancora per diversi decenni, almeno fino verso la Seconda Guerra Mondiale, quando le locomobili cominciarono a essere gradualmente sostituite dai trattori con motore endotermico.
Nella fotografia che segue, scattata in una delle tante rievocazioni storiche della trebbiatura meccanica a cui non è difficile assistere nelle campagne italiane, si può osservare una tipica locomobile che aziona con una lunga cinghia una mietitrice meccanica di tipo evoluto, dotata anche di pressa per la paglia.
Altri utilizzi della macchina a vapore in agricoltura
Nel corso dell’Ottocento gli utilizzi della macchina a vapore in agricoltura non si limitarono alla trebbiatura, ma riguardarono tante altre attività nelle quali la potenza del vapore poteva costituire un valido sostituto al lavoro degli uomini e degli animali.
Ricordiamo in particolare i numerosi tentativi d’uso di macchinari a vapore per l’aratura dei terreni, una operazione lunga e dispendiosa che sicuramente poteva trarre grandi vantaggi dalla disponibilità di potenze e velocità ben superiore a quelle di buoi e cavalli. Anzi, per essere più precisi bisogna ricordare che gli utilizzi per l’aratura precedettero quelli per la trebbiatura, in particolare grazie ai brevetti di John Fowler (1826-1864), che sviluppò i primi aratri a vapore attorno al 1850.
Egli concepì in particolare un ingegnoso «carro aratri» reversibile, che rendeva possibile sfruttare sia la corsa di andata che quella di ritorno dei cavi; questo carro era inoltre direzionabile mediante dei volanti, da parte di un operatore che vi sedeva sopra, e consentiva quindi di controllare con cura il movimento degli aratri.
Nonostante l’ingegnosità delle soluzioni messe a punto da Fowler l’aratura a vapore rimase un sistema complesso e macchinoso, adatto in particolare solo a campi di grande estensione e forma regolare; esso non raggiunse quindi mai una grande diffusione.
Un po’ più di fortuna ebbe l’utilizzo delle locomobili come «trattori a vapore».
I primi esperimenti furono fatti attorno al 1868 e lo sviluppo, il perfezionamento e la produzione di queste macchine proseguì con un certo successo fino a poco dopo la Prima Guerra Mondiale. Il trattore a vapore rimase però sempre una macchina pesante, lenta e poco maneggevole, non adatta in particolare ai terreni fangosi; la sua diffusione fu così abbastanza limitata. Si può così affermare che il trattore a vapore fu una «macchina di transizione», che comunque preparò il terreno all’avvento dei trattori con motore a benzina o gasolio, cominciando a rendere familiare al mondo agricolo l’idea che l’utilizzo della trazione animale era ormai agli sgoccioli.
La breve epopea di queste macchine non trascorse peraltro invano nemmeno dal punto di vista tecnico, permettendo di sperimentare soluzioni e configurazioni che in seguito sarebbero state trasferite anche in altri settori, con notevoli ricadute tecniche e industriali. Ne è un esempio il grosso trattore cingolato a vapore, costruito nel 1906 dalla ditta americana Holt, divenuta in seguito Caterpillar Tractor Co.
L’era dei trattori
Il motore endotermico a benzina/petrolio fu inventato negli anni Sessanta dell’Ottocento, fu perfezionato da vari inventori nel corso di un paio di decenni e cominciò a equipaggiare le prime rudimentali automobili e motociclette tra il 1885 e il 1890.
L’attenzione degli inventori non tardò molto a sperimentare i suoi possibili utilizzi anche in campo agricolo e i primi tentativi di realizzare trattori agricoli, in qualche modo in grado di fare concorrenza a quelli a vapore, risalgono all’incirca al 1892.
Fu però solamente nel 1901 che il primo trattore con motore a benzina di produzione industriale uscì da una fabbrica dello stato dello Iowa, la Hart-Parr Co., che fu la prima ad adottare il termine tractor per queste macchine. Altri produttori si affiancarono presto a questa società, compresa la Ford, che iniziò esperimenti in questo campo nel 1907. La produzione del suo celebre trattore Fordson da 20 Hp iniziò però solamente nel 1917.
I primi trattori a benzina prodotti in Inghilterra comparvero verso gli inizi del Novecento.
Nel 1902 il prolifico inventore Dan Albone (1860-1906) realizzò un prototipo a tre ruote denominato Ivel, della potenza di 8 Hp e negli anni seguenti ne produsse e vendette molte centinaia.
Nel 1908 la Saunderson Tractor and Implemente Co. introdusse un trattore a quattro ruote, che ebbe un buon successo di vendite, facendo diventare questa ditta il secondo produttore mondiale, dopo le fabbriche americane.
I trattori in Italia
In Italia la produzione industriale di trattori iniziò solamente dopo la Prima Guerra Mondiale per opera di storici marchi quali la Landini e la Fiat Trattori.
Sui trattori italiani di vari marchi nel periodo fra le due guerre mondiali prevalsero i motori due tempi «a testa calda», che potevano utilizzare combustibili meno raffinati e costosi della benzina, mentre dopo la Seconda Guerra Mondiale si affermarono gradualmente i motori diesel (introdotti per prima sui trattori agricoli dalla Benz, nel 1922).
L’era dei trattori iniziò veramente in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche grazie all’abbondanza di residuati bellici che l’inventiva di tanti meccanici agrari locali seppe trasformare in preziosissimo aiuto alla modernizzazione di una agricoltura ancora molto arretrata (venivano chiamati «carioche»).
Fino all’inizio degli anni Trenta tutti i trattori montavano ruote in ferro, e fu solo nel 1932, che una macchina Allis-Chamblers montò i primi pneumatici Firestone. Comparvero anche i trattori cingolati, e quelli a quattro ruote motrici, che in Italia ebbero un particolare successo vista la prevalente natura collinare dei suoli e la necessità di macchine di grande aderenza e tiro.
La disponibilità di trattori potenti, affidabili e relativamente economici, in grado di fornire potenza a una miriade di attrezzi e accessori, è stata il vero motore, nella seconda metà del Novecento, della intensa meccanizzazione agraria che ha trasformato il volto dell’agricoltura italiana e mondiale.
Il trattore, divenuto ormai potentissimo, efficiente, silenzioso, non faticoso da guidare, dotato di una comoda cabina ad aria condizionata, resta tuttora la macchina fondamentale dei campi meccanizzati, e promette di restarlo ancora a lungo nel futuro.
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Gianluca Lapini
(Ingegnere. Già ricercatore presso CISE e CESI Ricerca S.p.a.)
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© Pubblicato sul n° 54 di Emmeciquadro