Oggi vi è una diffusa e crescente tendenza a criticare la tecnologia, non solo per il suo effettivo o possibile cattivo uso, ma proprio in quanto tale. Pur cogliendo alcuni aspetti reali del problema, tali analisi rischiano però di essere troppo unilaterali.
In questo articolo Paolo Musso risponde a quello di Olivier Rey dal titolo:
Il Superuomo: Un sogno dell’uomo dimiuito, pubblicato in questo stesso numero di Emmeciquadro e che ben rappresenta questa tendenza.
Si apre così un confronto fecondo su una tematica di grande attualità, teso a individuare criteri di giudizio realisticamente equilibrati.



Pur essendo ormai diventata un luogo comune, la critica alla tecnologia in realtà è cosa recente. Benché in genere si identifichi la «fine dell’innocenza tecnologica» con lo scoppio dell’atomica di Hiroshima, la fiducia è infatti continuata ancora per diverso tempo, sia a causa del boom economico post-bellico, sia grazie a quella autentica «atomica alla rovescia» che è stato lo sbarco sulla Luna.



La critica alla tecnica e le sue cause

Almeno a livello di massa, il clima è cambiato solo negli anni Ottanta e, più ancora, Novanta del secolo scorso, cioè in concomitanza con la rivoluzione informatica.
Non credo sia un caso: evidentemente la fine (almeno per ora) delle esplorazioni spaziali e la commercializzazione della loro tecnologia ha innescato un processo di «spoetizzazione» che ha generato in molti una reazione di crescente fastidio, che si è poi trasformata in vero e proprio rigetto quando tale tecnologia è assurta a simbolo della globalizzazione e dei problemi che questa ha portato (che non sono cominciati con la crisi attuale, ma ben prima, anche se oggi tendiamo a dimenticarcene). Come dire: «Ci avevate promesso la Luna ed è finito tutto in un telefono cellulare» (in senso letterale: il processore degli odierni cellulari equivale all’incirca per potenza di calcolo ai computer utilizzati dalla NASA per le missioni Apollo e i satelliti per telecomunicazioni sono oggi il principale business delle Agenzie Spaziali).
Una controprova assai significativa è data dalla fantascienza, dove proprio negli anni Ottanta, col genere cyberpunk (guarda caso ispirato alla rivoluzione informatica, vista in chiave pesantemente negativa), finì l’era dell’ottimismo e iniziò la moda, tuttora dominante, della fantascienza distopica, segnata da atmosfere cupe, società disumane e una visione profondamente negativa del futuro e del progresso, la cui espressione più nota è probabilmente Blade Runner.
Le critiche di questi tipo (di cui quella di Rey è un caso paradigmatico) sono però in realtà fondate su un’analisi delle magagne della società tecnologica, di cui poi incolpano la tecnica in modo aprioristico, senza una riflessione seria sulla sua natura. Riflessione che invece è necessaria e che pertanto andremo ora a fare.



Tecnologia e intelligenza umana

Un primo punto da cui nessuna riflessione seria sull’argomento può permettersi di prescindere è costituito da un dato di fatto: almeno sul nostro pianeta, la tecnologia è tipica dei soli esseri umani.
I tentativi di certi etologi e filosofi di attribuire capacità tecnologiche anche agli animali (scimmie, ma non solo) si basano su un equivoco di fondo: una cosa è infatti immaginarsi un uso strumentale di un oggetto già esistente, tutt’altra è invece concepire il progetto di una macchina complessa che svolga funzioni nemmeno lontanamente simili a qualcosa di già visto in natura, giacché tale processo, non potendo appoggiarsi a immagini concrete, richiede la capacità di utilizzare concetti astratti, nel che consiste propriamente il pensiero, che è la caratteristica distintiva dell’uomo1.
Ma se è così, allora ben difficilmente si potrà sostenere che la tecnica sia «in se stessa» qualcosa di disumano, visto che è anzi una delle cose più propriamente umane che esistano. E ben difficilmente si potrà sostenere che è qualcosa di impersonale, dato che senza il contributo attivo di persone concrete non potrebbe neanche esistere.

Il principio tecno-antropico

Ma c’è di più. Infatti è facile dimostrare che esiste una stretta correlazione tra le condizioni che permettono lo sviluppo della vita e quello della tecnologia. Per questo tempo fa ho anche formulato una nuova versione del celeberrimo «principio antropico», parlando al proposito di un vero e proprio «principio tecno-antropico», il quale afferma che «il nostro universo è fatto in modo tale che le sue leggi permettono la nascita di civiltà tecnologiche»2.

Naturalmente, come anche nel caso del principio antropico originale, si può discutere su quale sia il suo vero significato. Tuttavia, almeno per chi, come Rey, si ponga in una prospettiva religiosa, diventa davvero difficile non vedere in ciò il segno di una precisa volontà del Creatore. Il quale peraltro nel libro della Genesi ha esplicitamente dato mandato all’uomo di «dare i nomi alle cose», cioè di imparare a conoscerne l’intima natura al fine di «dominare la terra», termine che, come risulta evidente dal contesto, va inteso nel senso di «governare con saggezza», ciò, appunto, «secondo» la natura delle cose e non «contro» di essa.

 

 

L’ubbidienza alla realtà

 

Ora, contrariamente a ciò che generalmente si dice, è proprio nella tecnologia che tale necessità di ubbidire alla realtà si esprime al massimo grado. Il motivo è molto semplice: si possono piegare alla propria volontà con la violenza o la lusinga gli uomini e gli animali, ma non le macchine.
[A sinistra: L’impronta di Neil Armstrong sulla Luna]
Se non ne siete convinti, la prossima volta che vi si guasta l’automobile provate un po’ a farla ripartire a forza di urlacci o promettendole un pieno di benzina di prima qualità! Non c’è niente da fare: bisogna rassegnarsi a portarla dal meccanico, il quale riuscirà a farla ripartire solo dopo aver capito qual è il problema e quindi quali riparazioni è necessario fare, cioè dopo essere «andato a scuola» dalla realtà.
Questo l’aveva già compreso perfettamente quattro secoli fa il fondatore della scienza moderna, Galileo Galilei, il quale nel 1624 ricordava a Francesco Ingoli che «nelle cose naturali, l’autorità d’uomini non val nulla; […] la Natura, Signor mio, si burla delle costituzioni e decreti de i principi, degl’imperatori e de i monarchi, a richiesta de’ quali ella non muterebbe un iota delle leggi e statuti suoi»3.
Ora, questo, che viene generalmente presentato come il rifiuto del principio di autorità da parte di Galileo, è in realtà, come si vede chiaramente già da questo passo e come risulta ancor più chiaramente dall’esame globale dei suoi testi al riguardo, soltanto un rifiuto dell’autorità umana, giacché nella scienza vi è un’autorità più alta a cui rifarsi, che è direttamente quella della Natura, ma indirettamente quella di Dio stesso, che della Natura è l’artefice.
Il modo in cui tale autorità superiore viene consultata è l’esperimento, che viene attuato attraverso opportuni strumenti, che sono a loro volta prodotti tecnologici: quindi vi è tra scienza e tecnologia una sorta di circolo virtuoso, o, se si preferisce, potremmo anche dire che si tratta di due aspetti di una stessa attività, distinguibili in linea di principio, ma mai separabili in pratica. In ogni caso, ciò che conta è che è proprio il «momento tecnico» della scienza che assicura la sua fedeltà alla realtà4.
Naturalmente è vero che la tecnologia, una volta «prodotta» in conformità alla natura delle cose, può essere poi «usata» in modo non conforme a essa e quindi violento, ma questo è un altro problema: resta il dato di fatto che nessuna tecnologia può essere prodotta senza il riconoscimento dell’esistenza nel mondo di un ordine oggettivo che ci precede e non è modificabile a nostro piacimento.
Tale riconoscimento non basta, di per sé, a garantirci contro i suddetti eventuali usi sbagliati, perché per questo è necessario che gli esseri umani prendano coscienza di ciò di cui esso è segno (ossia che il mondo non è una nostra proprietà privata di cui possiamo fare ciò che vogliamo), il che non è automatico: tuttavia tale presa di coscienza non è certo agevolata dal negare l’esistenza stessa di tale dato originario, pretendendo di ridurre la tecnologia a un mero strumento della volontà di potenza e il suo sviluppo a una logica puramente economica.

 

 

La vera molla del progresso

 

Questo, oltretutto, è anche un falso storico clamoroso. Nel suo articolo Rey afferma: «Ai giorni nostri si racconta sempre la storia al rovescio. Per esempio, scienziati, ingegneri, tecnici, si rivelano a un certo punto capaci di costruire motori estremamente potenti.

A cosa questa potenza potrebbe servire? Ci si accorge che essa dovrebbe essere sufficiente per far volare apparecchi più pesanti dell’aria, e ci si mette a costruire degli aerei. Ma ecco come si presentano le cose: da sempre l’essere umano ha sognato di volare e, finalmente, la tecnica moderna permette di realizzare il sogno di Icaro. Come se questo fosse l’obiettivo che aveva mosso i motoristi al loro lavoro».
Ma in realtà chi racconta la storia al rovescio qui è proprio lui: l’invenzione dell’aereo non è stata affatto dovuta alla creazione di «motori estremamente potenti», che certamente sono stati necessari per avere aerei efficienti, ma sono venuti solo «dopo» l’invenzione in se stessa (i fratelli Wright si fecero costruire un motore su misura proprio perché quelli esistenti non erano abbastanza potenti); e gli inventori dell’aereo sono stati proprio mossi dal desiderio di «realizzare il sogno di Icaro», tant’è vero che si era già cominciato a pensarci fino (almeno) dai tempi di Leonardo, quando non esisteva ancora nemmeno il concetto di motore.
[A destra: Il modulo Lunare (LEM) delle Missioni Apollo]
E questa non è affatto un’eccezione: tutte le più grandi scoperte scientifiche, che hanno poi permesso anche i più grandi avanzamenti tecnologici, sono nate dalla ricerca disinteressata della verità e non da motivazioni economiche o comunque utilitaristiche, tant’è vero che ogni volta si è ripetuto regolarmente lo stesso copione, con gli autori della scoperta che erano sempre i primi a dubitare che potesse mai avere una qualche utilità pratica. Questo dunque non è affatto un ingenuo «buonismo» da illusi, ma la pura e semplice verità storica: che poi, a ben vedere, non è affatto semplicemente storica, cioè contingente, ma nasce da una necessità intrinseca, per la semplice ma ottima ragione che non si può conoscere l’utilità di una cosa prima di scoprirla.
Purtroppo affermazioni del genere non sono soltanto false, ma anche estremamente pericolose, dato che finiscono per giustificare e rafforzare, sia pure involontariamente, la convinzione che da qualche anno a questa parte si sta facendo sempre più strada a livello politico, per cui in nome dell’utilità pratica si sta sempre più penalizzando la ricerca umanistica rispetto a quella scientifica e, nell’ambito di quest’ultima, la ricerca di base rispetto a quella applicata: il che, per quanto appena detto, è un autentico suicidio, non solo culturale, ma anche dal punto di vista dell’utilità pratica.
Ora, questa tendenza non verrà certo rovesciata enfatizzando ulteriormente, sia pur per criticarlo, l’aspetto utilitaristico della tecnologia, bensì, tutto al contrario, mostrando come la ricerca applicata si fondi su quella di base e questa, a sua volta, sia molto favorita (come dimostrano le biografie di quasi tutti i più grandi scienziati) da una cultura il più possibile ampia e variegata, per la semplice ragione che non può esistere un metodo preconfezionato per avere nuove idee e quindi l’unica cosa che può aiutare è allenare la mente a essere il più possibile elastica e poliedrica.
Si tratta insomma non di demonizzare l’utilità economica, bensì di far capire che, come ha detto Benedetto XVI nella Caritas in veritate, nulla è più economicamente vantaggioso della gratuità.

 

 

Benefici e rischi della tecnologia

 

L’altro aspetto inaccettabile dell’analisi di Rey è il completo disconoscimento del potentissimo contributo della tecnologia alla umanizzazione del mondo, tanto che arriva ad affermare che gli ospedali oggi sarebbero diventati, proprio per la loro natura ipertecnologica, «luoghi di umiliazione della persona».
Evidentemente Rey non ha ben chiaro cosa fossero gli ospedali pretecnologici, dove la gente aveva il terrore di entrare perché sapeva che era difficilissimo uscirne vivi e che proprio per questa ragione erano tutti gestiti da religiosi, perché erano gli unici che osavano farlo pur sapendo di lasciarci quasi certamente la pelle.

Poi è vero che proprio la sostanziale impotenza della medicina spingeva a una maggiore attenzione verso la persona del malato, visto che era spesso l’unico tipo di «cura» che si poteva fornirgli; così come è vero che oggi proprio il fatto di disporre di cure efficaci spinge spesso a concentrarsi solo sull’aspetto tecnico dimenticando quello umano: ma questo problema non si risolve usando di meno la tecnologia, ma usando di più (e soprattutto meglio) la nostra libertà.
[A sinistra: Il “Rover Curiosity” in azione su Marte]
Anche l’alienazione dell’uomo d’oggi (che comunque per fortuna non è così totale come Rey pretende) non può essere imputata automaticamente alla tecnica.
È fin troppo facile contrapporre il lavoro dell’artigiano a quello dell’operaio in catena di montaggio: facile, ma anche fuorviante, perché di lavori gratificanti ne esistono anche oggi, così come di lavori alienanti ne esistevano anche in passato, e non è affatto scontato che il saldo sia sfavorevole alla nostra epoca.
Ma soprattutto, benché certamente il tipo di lavoro influisca, ultimamente a decidere del fatto che uno sia o no alienato non è questo, bensì la «consistenza della persona», che non dipende dalle circostanze: altrimenti sì che saremmo davvero dei robot e allora la mentalità tecnocratica sarebbe pienamente giustificata.
Non per nulla l’articolo di Rey si conclude con l’affermazione che il Cielo esiste, ma solo «fuori da questo inferno», che sarebbe il mondo tecnologico: conclusione coerente con le sue premesse, ma non con la speranza cristiana, che è invece totalmente «dentro» alle circostanze.
In effetti critiche di questo genere possono a prima vista sembrare più «coraggiose» di quelle che cercano di tener conto di tutti i fattori del problema, negando ogni automatismo e sottolineando l’importanza decisiva della nostra libertà, ma in realtà sono solo più semplicistiche e, alla lunga, assai meno coraggiose, in quanto finiscono per essere deresponsabilizzanti. Se infatti la tecnica è intrinsecamente perversa, cosa possiamo farci? Nulla, ovviamente (a parte rinunciarvi del tutto, il che è impensabile): col che siamo liberi dalla scomoda incombenza di far seguire alle denunce delle proposte concrete e possiamo tornare a farci gli affari nostri in santa pace.
Con ciò non voglio dire che la tecnologia non ponga anche problemi realmente inediti.
In particolare, mettendoci in mano un grande potere senza fornirci anche, per così dire, le «istruzioni per l’uso», certamente essa tende a spingerci ad agire nel modo descritto così vivamente da Rey: e per questo articoli come il suo hanno comunque una loro utilità. A patto però che siamo consapevoli che solo di una tendenza si tratta e non di un destino fatale, e che cedervi o resistervi ultimamente dipende dalla nostra libertà.
Libertà che, grazie alla sua capacità di riconoscere e affermare l’infinito anche dentro il più finito e frammentato aspetto della realtà, è anche l’unico fondamento della nostra dignità, che nessuna tecnologia, per quanto pervasiva, ci potrà mai togliere.

 

 

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Paolo Musso
(Docente di Filosofia della Scienza presso l’Università dell’Insubria di Varese – Corso di laurea in Scienze della Comunicazione)

 

 

Note

  1. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Udine 2011.

  2. Paolo Musso, On the last terms of Drake Equation: the problem of energy sources and the «Rare Earth hypothesis», in Ehrenfreund Pascale, Angerer Oliver, Batrick B. (eds.) [2001], Exo-/Astrobiology. Proceedings of the First European Workshop, 21-23 May 2001, ESRIN, Frascati, Italy, ESA Publications Division, Noordwijk, pp. 379-382.

  3. Cfr. Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, Giunti Barbera, Firenze, 1890-1909, vol. VI, p. 538.

  4. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Udine 2011, § 1.13.

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 54 di Emmeciquadro

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