Una riflessione molto critica sulle conseguenze del progresso tecnologico porta alla luce questioni in genere disattese o ignorate. Secondo l’autore si è invertito il rapporto tra scopi e mezzi; le innovazioni tecnologiche vengono prodotte non come risposta a un bisogno, ma come sviluppo autonomo e il bisogno al più viene inventato a posteriori. Questa inversione provoca una dipendenza anche psicologica dell’uomo dalla tecnologia, con il rischio di una perdita di identità. Si tratta di un trans-umanesimo tecnologico, che l’autore paragona a un vero e proprio inferno.
Il lettore potrà confrontare questa posizione, con quella, alquanto diversa, che il filosofo della scienza Paolo Musso espone nell’articolo Chi ha paura della tecnica? Risposta a Olivier Rey, pubblicato in questo stesso numero della Rivista.
Comincerò con una citazione dei Sex Pistols, the definitive English punk rock band, che oggi viene considerato il gruppo di riferimento del punk rock inglese. Nel loro primo single, Anarchy in the U. K., uscito nel 1976, il cantante Johnny Rotten urlava «I am an antichrist» e subito dopo, precisava il suo pensiero: «Don‘t know / what I want, but I know how to get it» – «Non so quel che voglio, ma so come ottenerlo». […]
Abbiamo i mezzi, ma non lo scopo
Abbiamo qui, in breve, un’eccellente descrizione della nostra situazione: un mondo che rigurgita di mezzi («io so come ottenerlo»), ma che non sa quali fini perseguire («non so quel che voglio»). Nell’ideale, il divario tra fini e mezzi non è comune.
Certamente si potrebbe dire che l’umanità implica una certa dissociazione: è perché gli esseri umani sono capaci di prendere le distanze in rapporto ai fini che perseguono; è perché sono ugualmente in grado di elaborare i mezzi che permetteranno poi di raggiungere questi fini; è perché sono capaci di sviluppare mezzi per se stessi, che sono in grado poi di perseguire nuovi fini. Ben inteso. Ma, nello stesso tempo, un’autentica cultura umana esiste per superare questa dissociazione, per integrarla dentro un tutto.
La vera umanità comincia là dove «tanto i mezzi che gli scopi sono talmente impregnati di stile di vita e di etica che, al cospetto di singole porzioni di vita o di mondo, non si può distinguere, anzi non si affaccia nemmeno l’interrogativo se si tratta di “mezzi” o di “scopi”; soltanto là dove l’accostarsi alla fonte è altrettanto gradevole quanto il bere1». Tuttavia, dalla rivoluzione industriale, e dalla divisione estrema del lavoro cui ha portato, dalla supremazia dell’economia e, in particolare, dell’economia monetaria, l’allontanamento tra i fini e i mezzi da mettere in opera per raggiungerli è talmente aumentato che è diventato un baratro, una piaga aperta, della quale non riusciamo più ad avvicinare le labbra.
L’abitudine a perdere di vista i fini per meglio sviluppare e mettere in atto i mezzi è stata così bene assunta che i fini son divenuti fantomatici rispetto ai mezzi, e questi occupano tutto il posto. «La categoria “mezzi” ha acquistato al giorno d’oggi un valore universale che non le era mai spettato prima: noi vediamo il mondo in cui viviamo addirittura come un “mondo di mezzi” , un universo in cui, a dire il vero, non esistono altro che mezzi; e in cui paradossalmente persino gli scopi (dato che appaiono “senza scopo”, a differenza dei mezzi) sono relegati in secondo piano2».
Una tecnica autoreferenziale
Ciò è particolarmente vero riguardo alla tecnica. Essa si è resa autonoma, e non si sviluppa più in funzione dei fini da raggiungere, ma secondo la sua logica interna, secondo le sue possibilità di crescita. Successivamente essa fa appello ai fini per i nuovi mezzi che genera – mezzi che mette a nostra disposizione non perché li avremmo domandati, ma semplicemente perché si è trovata in grado di elaborarli. Jacques Ellul ha ben descritto questa situazione: «Dal punto di vista logico e scolastico siamo abituati a considerare che si inizia col porre i problemi prima di giungere alla soluzione. […] Nella realtà tecnica bisogna capovolgere l’ordine: l’interdipendenza degli elementi tecnici rende possibile un gran numero di “soluzioni” per le quali non c’è problema. La R&D (Recherche et Dévelopement) produce continuamente nuovi procedimenti per i quali l’utilizzo viene scoperto in seguito. Quando si ha lo strumento a disposizione ci si rende conto che può essere applicato a una data situazione, e chiaramente i considerevoli costi delle R&D fanno sì che si “debbano” trovare applicazioni utili a ciò che è stato scoperto. Perciò i problemi “individuati” sono automaticamente risolti perché la soluzione precede il problema. A queste condizioni non c’è posto per alcuna finalità3».
Ai giorni nostri si racconta sempre la storia al rovescio. Per esempio, scienziati, ingegneri, tecnici, si rivelano a un certo punto capaci di costruire motori estremamente potenti. A cosa questa potenza potrebbe servire? Ci si accorge che essa dovrebbe essere sufficiente per far volare apparecchi più pesanti dell’aria, e ci si mette a costruire degli aerei. Ma ecco come si presentano le cose: da sempre l’essere umano ha sognato di volare e, finalmente, la tecnica moderna permette di realizzare il sogno di Icaro. Come se questo fosse l’obiettivo che aveva mosso i motoristi al loro lavoro. E come se l’utente dei trasporti aerei di oggi fosse un nuovo Icaro.
Si mostra una particolare compiacenza a raccontare la storia in questo modo per non perdere la faccia, per aver l’aria di essere padroni di una situazione che, in realtà, ci sfugge sempre di più. Se si può trovare un mito greco per rivestire la nuova tecnica, va ancora meglio, ciò offre alla questione una vernice poetica, culturale e a-temporale molto apprezzata. Ma, sotto la vernice, la realtà è differente: la tecno-scienza lavora poco per soddisfare bisogni preliminari, essa progredisce là dove può farlo, e elabora nuovi mezzi per i quali si cercano poi i bisogni che sarebbero capaci di colmare, e spesso da inventare.
È così, che in larga misura, è emerso il trans-umanesimo. A cosa far servire tutte le tecnologie «innovative»? A fabbricare nuovi apparecchi? Certamente. Ma siamo già talmente attrezzati, sovra-attrezzati, che creare la domanda non è così facile. Resta ancora un luogo scandalosamente inesplorato: il corpo stesso. Ecco il nuovo mercato da investire, la nuova frontiera (nel senso americano della parola) da conquistare. Perciò, è necessario prima convincere gli umani che il loro corpo è deficiente, ridicolmente poco performante, che questi umani sono povere cose che reclamano urgentemente di essere migliorate. Per la fortuna di coloro che condizionano le opinioni, ciò non si rivela troppo difficile.
L’individuo contemporaneo infatti, pur proclamandosi volentieri superiore a tutti coloro che l’hanno preceduto da quando sulla Terra ci sono degli uomini, è meno sicuro di se stesso dell’insieme dei suoi predecessori.
Per chiarire questo punto, mi riferirò a un testo di Pasolini, che permette di cogliere bene, mi sembra, un aspetto della nostra situazione, molto importante e raramente preso in considerazione. Nel 1975 – lo stesso anno, detto en passant , in cui si formava il gruppo dei Sex Pistols che ho evocato cominciando, e la coincidenza indubbiamente non è del tutto casuale -, nel 1975, dunque, Pasolini ha scritto una lunga lettera indirizzata a Gennariello, un adolescente napoletano di sua invenzione.
A distanza di tempo, la lettera assume il valore di testamento, poiché Pasolini stava per essere assassinato qualche mese dopo, il giorno di Ognissanti, su una spiaggia ad Ostia. Per quanto vicino si sentisse al giovane Gennariello, Pasolini era cosciente del baratro che i quattro decenni che separavano le loro nascite (1922 per Pasolini, inizi degli anni Sessanta per Gennariello) erano bastati a scavare tra loro, per il semplice avvento della esplosione industriale, accaduta in Italia dopo la Seconda Guerra mondiale.
Pasolini sottolinea a quale punto quel che chiama «il linguaggio delle cose» sia cambiato nell’intervallo: «Io, nel parlarti, potrò forse avere la forza di dimenticare, o di voler dimenticare, ciò che mi è stato insegnato con le parole. Ma non potrò mai dimenticare ciò che mi è stato insegnato con le cose.
Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. Ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a me è assolutamente diverso da ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a te4».
Pasolini prende come esempio le tazze che il suo scenografo aveva preso per la ripresa di una scena, che si presumeva svolgersi nel 1944, in cui delle signorine borghesi prendevano il tè. Queste tazze, poiché erano esteticamente legate al periodo fascista, mettevano Pasolini a disagio. Ma a questo disagio si aggiungeva un altro sentimento: riconosceva loro anche «una misteriosa qualità, condivisa del resto, dalla mobilia, dai tappeti, dai vestiti e dai cappellini delle signorine, dalle suppellettili, dalle stesse carte dei parati» – una qualità che «dava … gioia. La loro misteriosa qualità era quella dell’artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. Le cose erano ancora cose fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. […] Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale5».
La «vergogna prometeica»
In questa cancellazione di ogni traccia dell’intervento umano negli oggetti di manifattura (solidale alla scomparsa, in questi stessi oggetti, di ogni traccia di forma naturale della materia che l’artigiano lavorava), nella loro assenza di legame tangibile con qualcuno che li avrebbe fabbricati sta una delle sorgenti di quel che Anders ha chiamato la «vergogna prometeica».
Si può tentare di definire la vergogna prometeica così: il sentimento di estraneità e di inferiorità, cosciente o incosciente, che si impadronisce dell’individuo davanti a certe produzioni che, pur essendo di origine umana, non hanno più nulla in comune con quel che un essere umano, per quanto abile e esperto sia, è in grado di realizzare.
L’oggetto si trova a essere molto più regolare, standardizzato, slegato da ogni forma naturale, «perfetto», o molto più sofisticato per emanare da una fabbricazione artigianale. Si dice che l’«uomo» sia oggi capace di manipolare la materia sulla scala del nanometro, di mandare sonde nello spazio, di modificare il genoma. Ma chi è questo «uomo»-titano capace di simili exploit? Un essere astratto, nel quale «gli» uomini, considerati individualmente, sono incapaci di riconoscersi. Le realizzazioni dell’«uomo» generano sia stupore o meraviglia – come l’attività umana può giungere a ciò? -, sia vergogna (che è un tormento dell’auto-identificazione) o disonore (che può esistere anche se la vergogna non è sentita): io non sono all’altezza.
Entusiasmarsi per le capacità della comunità? Ma resta un sentimento vuoto, poiché il marchio di questa comunità non è iscritto nell’oggetto o nella performance più di quella dell’individuo – non vi si reperiscono né dei «noi» né degli «io». Così davanti a un computer. Come lo fa notare Anders «lo spettatore che esce nella esclamazione: “Accipicchia, come siamo in gamba ad aver questo” è semplicemente un pagliaccio inventato6».
Pertanto una macchina, qualunque essa sia, non esercita il suo fascino se non attraverso un confronto ingiusto per le facoltà umane, perché sempre limitata a un ambito estremamente ristretto in cui questa macchina eccelle e, al di fuori del quale, è priva di mezzi. Il computer, che vince i più grandi maestri di scacchi, non sa fare altro che giocare a un gioco estremamente codificato, gli scacchi. Alan Turing, nel 1950, ha immaginato un test di cui stimava che, se fosse riuscito attraverso una macchina, quest’ultima avrebbe dovuto essere riconosciuta come pensante; pensava anche che cinquant’anni dopo questo passo sarebbe stato fatto. Succede che, malgrado i progressi spettacolari compiuti dall’informatica nell’ultimo mezzo secolo, nessuno si vanta più di fabbricare un computer capace di superare il test.
Il sentimento di inferiorità dell’uomo riguardo alla macchina, per quanto poco diffuso sia, riposa su un apprezzamento distorto della realtà. Ma questo sentimento si diffonde poiché, nella misura in cui la tecnica estende la sua padronanza, l’essere umano che si pensava di beneficare si disgrega.
L’anima dimezzata
Gunther Anders ha ben percepito questo fenomeno: «Nella sua seconda Meditazione, Descartes aveva definito assolutamente impossibile concevoir la moitié d’aucune âme. Oggi l’anima dimezzata è un fenomeno quotidiano. In realtà non c’è connotato altrettanto caratteristico dell’uomo odierno, almeno di quello che si svaga, quanto la sua tendenza a dedicarsi a due o più occupazioni disparate allo stesso tempo.
Il fatto che il fenomeno appaia naturale e che sia accettato come normale, non lo rende per questo meno interessante; tanto più, anzi, richiede una spiegazione. Se si domandasse a quest’uomo che prende il bagno di sole in che cosa consista “propriamente” la sua occupazione; su che cosa “propriamente” indugi la sua anima, non potrebbe rispondere, com’è naturale; perché ponendo la domanda su qualche cosa di «proprio» si partirebbe da un presupposto errato, cioè dal presupposto che “egli” sia il soggetto dell’occupazione e dell’indugio.
Se qui si può ancora parlare di “soggetto” o di “soggetti”, questi consistono meramente nei suoi organi: nei suoi occhi che indugiano sulle illustrazioni, le sue orecchie sulla partita sportiva, le sue mascelle sulla gomma da masticare; insomma: la sua identità è così compiutamente disorganizzata, che cercare “lui stesso” sarebbe ricercare qualche cosa di non-esistente. Non è dunque disperso soltanto (come dianzi) in una pluralità di luoghi del mondo, ma in una pluralità di funzioni singole7». E per ciascuna delle sue funzioni, una macchina tende a fare meglio di lui. Quello che fa, in quanto somma delle sue funzioni, è schiacciato dalla somma delle macchine.
L’atrofia della cultura personale
Non solo l’essere umano non giunge a inorgoglirsi del fatto che le macchine sono dei prodotti dell’attività umana, ma, che lo riconosca o no, sente che questa riuscita esteriore è stata acquisita a sue spese, al prezzo della perdita di una sostanza interiore, che l’ipertrofia della cultura oggettiva va di pari passo con un’atrofia della cultura personale. Dopo che l’essere umano si è smarcato dalla natura in quanto essere razionale, questa razionalità si è esteriorizzata e materializzata in un mondo che lo supera.
Ai primi inizi del XX secolo, dopo un secolo di modernizzazione galoppante dell’Europa, il sociologo tedesco Georg Simmel già lo costatava. «Se esaminiamo l’enorme cultura che si è incarnata da duecento anni in oggetti e in conoscenze, in istituzioni e in confort, e se le paragoniamo i progressi della cultura individuale in questo stesso tempo […], una differenza spaventosa di crescita si mostra tra le due, e in diversi punti anche una regressione della cultura individuale sul piano della spiritualità, della delicatezza, dell’idealismo.
Questa discordanza essenzialmente è il risultato della divisione crescente del lavoro: essa, infatti, reclama dal particolare una produzione sempre più unilaterale, la cui progressione estrema fa spesso indebolire la personalità globale. In ogni caso, l’individuo è sempre meno adatto a misurarsi di fronte all’invasione della cultura oggettiva. […] È ridotto a essere “quantità trascurabile”, un granello di polvere di fronte a un’organizzazione smisurata di cose e di forze, che gli carpiscono totalmente tutti i miglioramenti, tutti i valori spirituali e i valori morali, e conducono questi ultimi dalla forma della vita soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva. I palazzi e le istituzioni scolastiche, il miracolo e il confort della tecnica che domina lo spazio, le forme della vita sociale e le istituzioni visibili dello Stato presentano una ricchezza così proliferante di uno spirito cristallizzato e divenuto impersonale, che la personalità non può più per così dire star di fronte8».
En passant: è così che si spiega, come reazione, una certa valorizzazione contemporanea del pulsionale, contro la ragione che, un tempo, fu la gloria dell’uomo in rapporto all’animale: un tentativo di fuga davanti all’umiliazione inflitta dalla macchina.
Qui si vede il paradosso: esteriorizzandosi nella tecnica moderna, una certa forma di razionalità si mette a schiacciare la persona che avrebbe dovuto servire, al punto che la persona si mette, per resistere, a sbirciare dal lato animale. Chi vuol fare troppo il tecnico finisce per fare la bestia – il divenire robot fa al tempo stesso cantare i meriti del bonobo.
È così ugualmente che si può comprendere che – al contrario degli uomini di un tempo che offrivano alla rappresentazione dei volti calmi e controllati, riflesso della padronanza che avevano su se stessi – gli uomini di oggi preferiscono le immagini in cui i loro tratti sono deformati dal riso: contro le meccaniche di qualsiasi genere, intendono affermare, in un movimento in parte incontrollabile, la potenza vitale che li anima – con questo nuovo paradosso che il riso stesso glissa facilmente dalla parte del meccanico.
Un’involuzione della condizione umana
Tutti questi paradossi si riconducono a uno solo: con la modernità, si presumeva che gli uomini lasciassero l’autonomia per l’eteronomia, si liberassero dai loro antichi terrori e dai pregiudizi di un’altra epoca, si emancipassero da tutte le tutele per accedere finalmente alla maturità. E in fin dei conti, il risultato è estremamente deludente. In particolare, la modernità ha massicciamente rifiutato Dio, interpretato come una proiezione castrante, un’illusione della prepubertà da cui bisognava liberarsi per accedere, finalmente, all’età adulta. Tuttavia, la condizione umana superiore, che doveva giungere da un superamento della fede in Dio, si rivela piuttosto un’involuzione, un ritorno all’infantilismo e ai suoi fantasmi di onnipotenza. […]
Oggi, si tratterebbe, con la tecnica, di fare del corpo una cosa dello spirito, di assicurare il regno dello spirito sul corpo, attraverso l’impresa tecnica. L’impresa è assurda, poiché i mezzi messi all’opera contraddicono il fine che si persegue. Si tratta, infatti, di assicurare il regno dello spirito con procedure solidali a un pensiero che nega lo spirito.
Faccio un esempio. In seguito alle controversie suscitate dalla clonazione, un certo numero di personaggi eminenti dell’università, tra cui, Francis Crick, uno degli scopritori del DNA, un certo numero di personalità, dunque, membri della International Academy of Humanism, ha lanciato un appello solenne in favore di una libertà da lasciare ai ricercatori, i cui termini meritano di essere presi in esame9. «Quali problemi morali porrebbe la clonazione?», cominciano a domandarsi mellifluamente i nostri accademici. Dopo aver espresso il loro disprezzo per l’oscurantismo religioso, affermano: «Per quanto l’impresa scientifica possa deciderne, homo sapiens appartiene al regno animale. Le facoltà umane non differiscono che di grado rispetto a quelle che si osservano tra gli animali superiori. Il ricco repertorio dell’umanità nei pensieri, nei sentimenti, nelle aspirazioni e speranze sembra risultare da processi elettrochimici del cervello, non da un’anima immateriale, che opera per vie che nessun strumento può scoprire». E poiché tutto è questione di elettrochimica, si impone la conclusione: «Noi chiamiamo a uno sviluppo perseguito e responsabile delle tecnologie di clonazione, e a una larga mobilitazione per assicurare che concezioni tradizionaliste e oscurantiste non vengano indebitamente a ostacolare gli avanzamenti scientifici benefici».
In elettrochimica tuttavia, non ha alcun senso parlare di benefici. Perché, in particolare, sarebbe meglio che i processi elettrochimici siano piuttosto che non essere, continuino piuttosto che fermarsi? Ce lo si domanda. Essere o non essere, non è a questo livello che si troverà motivo a determinarsi. Gli argomenti sviluppati per reclamare una totale libertà di intervento tecnologico sono anche quelli che devono togliere a tali interventi ogni ragion d’essere.
Il trans-umanesimo: una concezione nichilista dell’uomo
Nello sforzo propriamente disperato per emanciparci tutti dissolvendoci nella materia, si riconosce una manifestazione caratteristica del nichilismo. E questo nichilismo è esso stesso un’emanazione della nostra attuale condizione di uomini diminuiti.
Con il trans-umanesimo, non si tratta tanto di incorporare la macchina, quanto di macchinare se stessi, di amalgamarsi ad essa, o di lasciarle il posto intero e scomparire10. A questo stadio tutto accade come se la promozione moderna dell’emancipazione non fosse stata che uno specchio per le allodole, un «argomento di vendita» per consentire agli esseri una certa forma di sviluppo, giusto il tempo che questo sviluppo divenisse sufficientemente importante affinché la persona da esso alienata non avesse altro ideale che il proprio reshaping, affinché si inserisse armoniosamente nel funzionamento della macchina globale e si riassorbisse nei suoi flussi.
Penso che le mirifiche predizioni dei sostenitori del trans- o post-umanesimo non siano destinate a realizzarsi. Tuttavia, non restano senza effetti. Il grande pericolo del trans- o post-umanesimo è di sviare l’attenzione dalle domande brucianti che meritano veramente ogni nostra attenzione, di alimentare i fantasmi di superpotenza nel momento in cui bisognerebbe accettare di porre limiti alla potenza e assumere una comunità di destino, di cullare delle chimere quando occorrerebbe confrontarsi con la realtà, di promettere all’umanità una fuga da se stessa quando innanzitutto dovrebbe riformarsi per continuare a vivere, e a vivere meglio.
Il grande pericolo del trans- o post-umanesimo è ugualmente, proprio per il suo nome, di voler rinchiuderci in una falsa alternativa attraverso un umanesimo estenuante, entrato in decomposizione sin dal momento in cui si è concepito come regno dell’uomo, e non come compimento – fioritura e fruttificazione – dell’uomo nel regno di Dio.
Comunque l’umanità, la più orribile vecchia tra tutte le vecchie, diceva Nietzsche, non esiste e non è mai esistita. Ciò di cui ha senso parlare è, da una parte, una certa specie di mammiferi chiamata homo sapiens, con i caratteri afferenti, dall’altra una divino-umanità, formata da creature a immagine di Dio, con la vocazione che ciò implica.
Diderot afferma nella sua Enciclopedia, alla voce «uomo»: «L’uomo è il termine unico da cui bisogna partire e al quale bisogna ritornare».
Secondo me, è una definizione abbastanza esatta dell’inferno. Sul soffitto di quest’inferno c’è il trans- o il post-umano. Ma fuori da questo inferno, non c’è più il soffitto, c’è il Cielo.
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Olivier Rey
(Matematico. Docente di Filosofia presso l’Università Panthèon – Sorbonne)
[Tratto da: Colloquio accademico, Istituto Philantropos, 28-29 marzo 2014 – Trans-umanesimo: un’idea cristiana divenuta folle? – Traduzione di Flora Crescini]
Note
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 124.
-
Ibidem, p. 260.
-
J. Ellul, Il sistema tecnico, Milano, Jaca Book, 2002, p. 330.
-
P. P. Pasolini, Lettere luterane, Milano, Garzanti, 2009, p. 56.
-
Ibidem, pp. 55-56
-
G. Anders, op. cit.,, p. 61.
-
Ibidem, p. 158
-
G. Simmel, Les grandes villes et la vie de l’esprit, Payot & Rivages, coll. Petite Bibliothèque Payot, 2013, pp. 67-68.
-
«Declaration in defense of cloning and the integrity scientific research», Free Inquiry magazine, vol. 17, 1997.
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In maniera premonitoria, il romanzo Crash di James Graham Ballard (1973), e il film di David Cornenberg, tratto dal romanzo (1996) mostrano delle persone la cui immagine e la libido sono state così ben colonizzate dalla macchina che tutta la loro vita diviene attesa e preparazione dell’incidente automobilistico nel quale la fusione tra il loro corpo e la macchina si effettuerà – nella morte.
© Pubblicato sul n° 54 di Emmeciquadro