Le riflessioni di un neurologo a commento del documento finale del Gruppo di Lavoro della Pontificia Accademia delle Scienze sulle nuove prospettive aperte dalle neuroscienze sulla comprensione delle attività umane. Nell’ampia panoramica delle questioni aperte è necessario esplicitare con chiarezza un punto cruciale: la coscienza non è riducibile al funzionamento cerebrale e la nostra capacità di osservare e giudicare tutta la realtà presuppone, ma supera ogni biochimismo cerebrale.



A leggere la sintesi finale dell’incontro di tre giorni su Neurosciences and the Human Person: New Perspectives on Human Activities tenuto presso la Pontificia Accademia delle Scienze nel novembre 2012 con la partecipazione di neuroscienziati, filosofi, antropologi, paleontologi, sociologi provenienti da tutto il mondo, sintesi redatta dal gruppo di lavoro che dirigeva l’incontro stesso, si è prima di tutto colpiti dalla pertinenza del tema proposto alle urgenze culturali dell’attuale condizione storica.
Il tema del convegno è affascinante e diritto al punto nevralgico della nostra cultura: «Le questioni ai confini tra neuroscienze e filosofia: che cosa sta al fondo dell’essere persone umane? Come si è evoluto il cervello dell’uomo? Quali i meccanismi della coscienza, della capacità di valutazione, di decisione, dell’autocontrollo, della formazione delle credenze in un gruppo sociale, del senso di sé, dell’importanza dell’educazione per lo sviluppo del cervello umano?»
Ciascuno di questi temi è stato affrontato in sedute separate con sintesi finale, qui di seguito brevemente riprese.



Le questioni in campo

L’evoluzione del cervello viene proposta come fattore fondamentale dell’evolversi delle specie umane, dalle scimmie e poi al proprio interno fino all’homo sapiens cui noi apparteniamo. Viene evidenziata la comparsa di una nuova forma di evoluzione accanto a quella biologica che aveva caratterizzato la vita sulla Terra fino a quel punto: l’evoluzione culturale.
La comparsa della cultura è messa in relazione all’evoluzione del cervello, ma senza poter precisare l’origine e la natura di questo cambiamento epocale. Viene anche evidenziata la stranezza e il limite della concezione di San Tommaso sul cervello.
La coscienza viene sottilmente manipolata in laboratorio sul versante sensoriale con varie tecniche che mostrano determinati livelli di stimolo perché accada la percezione conscia; la consapevolezza del proprio corpo, il proprio schema corporeo possono essere influenzati da manipolazioni sensoriali. Molti meccanismi cerebrali restano fuori dalla nostra coscienza, ma sono essenziali per l’esplicarsi completo e preciso di questa. Si esprime la speranza che queste conoscenze possano contribuire alla cura dei disturbi della coscienza compresi i comi (le perdite di coscienza) persistenti.
Il sistema valoriale, la capacità di decisione e il controllo di sé sono stati mappati nel cervello umano, con notevole variabilità interindividuale. La dipendenza da sostanze psicotrope viene interpretata come disfunzione di questi circuiti e si esprime la speranza di poter manipolare e variare la funzionalità di queste aree per risolvere la dipendenza.
Il sistema delle credenze è un dominio molto importante della cognizione nella specie umana che è alla base del comportamento sociale corretto degli esseri umani. Si cominciano a conoscere le aree e i circuiti implicati nella loro formazione e controllo. La schizofrenia viene interpretata come un’alterazione di questi circuiti. È precisamente questa la base del forte senso di appartenenza sociale che caratterizza la specie umana e dei comportamenti altruistici così frequenti tra gli umani.
L’educazione viene sottolineata come il grande e tipicamente umano strumento di sviluppo del singolo e della società e del cervello stesso. Anche qui l’analisi viene condotta sul duplice registro: quello filosofico tradizionale, dove viene sottolineata l’importanza della concezione aristotelica della potenza e dell’atto; e quello dello sviluppo cerebrale mediante la prodigiosa plasticità dei circuiti cerebrali. Si auspica che i fenomeni dell’apprendimento e dell’insegnamento possano essere finemente analizzati con metodologie quantitative al fine di poter migliorare le prestazioni cerebrali.
Infine viene discusso l’approccio ecumenico ai problemi più tipicamente umani. Viene sottolineato come per esempio la coscienza di sé è un tema privilegiato che richiede l’apporto di neuroscienziati, psicologi e filosofi che lavorino insieme cercando di uniformare le definizioni e i metodi di indagine per una proficua collaborazione e interazione. Emerge anche l’obiettiva difficoltà che nasce da concezioni di fondo diverse circa la natura dell’uomo e il suo modo di funzionare, la sua intelligenza, la natura della libertà.



Quale idea di uomo?

Esaminando l’ottimo documento sintetico dell’intero incontro, frutto di notevole lavoro e intelligenza del gruppo che dirigeva l’intero congresso, sono rimasto colpito dalla preponderanza quasi completa, anche se in gran parte sottaciuta e implicita, della concezione dell’uomo come ultimamente determinato dal suo cervello e quindi dall’evoluzione biologica che lo ha creato.

Nelle conclusioni si afferma che: «l’attuale conoscenza dell’organizzazione del cervello umano e di come esso dia luogo agli stati mentali fornisce già un contributo importante alla questione di ciò che la persona umana è». Ma qual è dunque il contributo delle neuroscienze così importante per capire che cosa sia la persona umana?
Si tratta del fatto che la persona umana ultimamente coincida col suo cervello! Il testo così procede: «le ricostruzioni dei concetti di coscienza e autocoscienza, mente e anima, forma e informazioni, possono aiutare a riunire le scienze naturali, le scienze sociali e quelle umanistiche. Grazie alla scoperta della centralità del cervello, fatta dalle neuroscienze, ora abbiamo un nuovo punto di partenza per il nostro riconoscimento della condizione dell’essere umano. Oggi possiamo essere sia attori sia spettatori delle nostre azioni e di noi stessi; la prospettiva in prima persona del sé soggettivo è completata dalla prospettiva in terza persona delle neuroscienze. Solo l’essere umano è in grado di creare tale circolarità osservando il funzionamento del suo cervello dall’esterno con strumenti sempre più potenti, ma anche interpretando questi dati dall’interno, sulla base della propria cosciente auto-riflessione».
Per tutta la sua storia l’homo sapiens, cioè la nostra specie, è vissuta, si è sviluppata, ha fondato civiltà, ha esplorato il mondo e poi anche lo spazio senza guardare dentro il suo cervello e adesso cosa si pensa che accada cominciando a guardarci dentro? La centralità non è il cervello, ma l’uomo come tale; solo le culture che pongono al centro la persona umana come tale sopravvivono e si sviluppano, le altre sono destinate a implodere e finire. E comunque non sono state le neuroscienze a scoprire la centralità del cervello nel corpo umano (non nell’uomo!), ma la neurologia clinica e la neurofisiologia che da essa è nata.
C’è un equivoco di cui è importante rendersi conto nelle affermazioni sopra riportate: quando noi studiamo «con strumenti sempre più potenti» quello che accade nel nostro cervello, noi non siamo «spettatori delle nostre azioni», noi non vediamo nulla delle nostre azioni, non abbiamo nessuna coscienza di esse, stiamo vedendo solo delle regioni del nostro cervello che si accendono e si spengono. Per essere attori e spettatori delle nostre azioni abbiamo un’unica via quella della nostra coscienza, della nostra esperienza.
E qual è la prospettiva ecumenica che può finalmente riconciliare le scienze fisiche, con quelle psicologiche e sociologiche e con il mondo della letteratura e della poesia e di tutte le arti? È la centralità del cervello; quello è il punto di comprensione totale, il punto unificante di tutte le conoscenze.
Perché dovrebbe essere conveniente accogliere questo nuovo modo di intendere la persona umana? Così prosegue il testo in esame: «oltre a contribuire a questa ricerca concettuale, i neuroscienziati cognitivi hanno anche un’importante responsabilità in relazione alle numerose sfide poste dal mondo contemporaneo. Nuove interfacce presto potranno collegare il cervello umano a computer e robot, alleviare la paralisi degli arti […]. Il sistema giuridico potrà beneficiare, ma anche essere messo in discussione dalla nostra migliore comprensione dei determinanti coscienti e non coscienti del comportamento umano offerta dalle neuroscienze. Molte istituzioni umane esistenti, come ad esempio il sistema carcerario, dovranno essere riconsiderate alla luce della nostra crescente comprensione del cervello umano e alla possibilità di cambiarlo e educarlo».
È impressionante notare che tutte queste affermazioni sono soltanto degli auspici, la proiezione di speranze, ma non è stata fornita alcuna prova che effettivamente le neuroscienze abbiano permesso interfacce efficienti tra cervello e computer per alleviare paralisi di arti, o offerto interpretazioni più realistiche del comportamento umano ai giudici, o provveduto una migliore educazione e cambiamento ai carcerati. O meglio, queste affermazioni riposano sulla concezione che il comportamento umano sia completamente comprensibile e dunque manipolabile agendo appropriatamente sul suo cervello. Sembra ritornare il mito scientista di poter modificare l’uomo depurandolo dei difetti che la natura non ha saputo evitare.
Se l’uomo è totalmente determinato dal funzionamento del suo cervello e questo è riconducibile ultimamente al determinismo fisico-chimico e biologico, allora il suo comportamento è ultimamente manipolabile dall’esterno intervenendo sul suo cervello. A questo punto il significato di parole comuni come cambiamento o come educazione cambia radicalmente, non è più accompagnamento della libertà della persona, ma diventa tecnica di manipolazione cerebrale. Ma chi sarà addetto a farlo? Non è anche lui un uomo con i suoi difetti? Non rischiamo di tornare a certe operazioni dittatoriali e razziste in nome della scienza?

 

 

L’io è una realtà incommensurabile

 

Vi è un unico punto nel documento riassuntivo finale dei lavori, dove viene data voce a un’altra concezione.
«La scienza ha confermato l’esistenza di migliaia di miliardi di connessioni tra miliardi di neuroni e circuiti neuronali che compongono il cervello umano, e le loro ramificazioni all’interno del corpo. Tuttavia, in generale i filosofi della tradizione socratica non sono d’accordo che l’intelligenza e la volontà umane siano solo eventi neurali che accadono nel cervello. Per i neuroscienziati, il cervello integra tutte le funzioni corporee. Dal punto di vista dei filosofi nel corso della riunione, questo non significa che esso dia al corpo la sua unità vitale ontologica, perché questa è data dall’anima […]. Per Tommaso d’Aquino (e i pensatori contemporanei della sua scuola), questo emergere di una unità vitale degli esseri viventi o questa indipendenza (libertà) degli atti, delle azioni rivela l’indipendenza dell’essere […]. Questa concezione filosofica, in particolare la questione centrale del rapporto tra il cervello e l’anima, ha generato intensi dibattiti tra gli scienziati e i filosofi che partecipano al gruppo di lavoro. È stato sottolineato dai filosofi che le funzioni del cervello da sole non sono sufficienti a sostenere dichiarazioni etiche e ontologiche circa lo stato della persona umana. Agli esseri umani con gravi menomazioni delle funzioni cerebrali non possono essere negati umanità e dignità. Pertanto, anche se gli scienziati e i filosofi hanno concordato sul fatto che il cervello contribuisce all’unità vitale di un organismo, la posizione dei filosofi afferma che l’anima è il principio di differenziazione tra gli esseri viventi ed è l’essenza unificante […]. Nella prospettiva dei neuroscienziati presenti alla riunione, autonomia di azione e coscienza di sé derivano unicamente dall’attività cerebrale che auto-organizza e fornisce modelli e motivazioni per agire, comprese le operazioni morali (comportamenti ed emozioni)».
Innanzitutto l’argomento viene presentato come lo scontro fra due modi di affrontare la medesima questione che sono fra loro incomunicabili e irriducibili. Di questi il metodo neuroscientifico è quello moderno, scientifico, oggettivo, mentre quello filosofico è quello antico, appunto «socratico» o medievale. Il secondo ricorre al termine «anima», termine del tutto desueto nella nostra cultura.
Inoltre il dibattito non riguarda solo il rapporto coscienza-cervello, ma coinvolge anche quello fondamentale ma distinto, di quale sia l’essenza dell’essere vivente, cioè se la vita sia completamente spiegata dal determinismo fisico-chimico e biologico o implichi un altro fattore, senza del quale non è comprensibile esaurientemente. Questo tema affascinante non è stato comunque l’oggetto del convegno.
Non emerge in tutto il documento in modo esplicito e chiaro il punto a mio parere fondamentale in questa discussione. L’affermazione che la coscienza sia riducibile al funzionamento cerebrale e dunque che la coscienza, l’io, la persona siano totalmente generati dal cervello e siano quindi il puro risultato dell’evoluzione biologica, viene data per ovvia e per scontata. Ma tale affermazione non è di natura scientifica!
Non lo è neppure come ipotesi di lavoro perché non è possibile pensare a una procedura sperimentale che possa verificare l’ipotesi, cioè vedere se è vera o falsa. Come tutte le affermazioni che pretendono di definire in modo totale l’essenza delle cose non si tratta di un’affermazione scientifica, bensì filosofica, ideologica. Non è possibile escludere per via scientifica che la persona umana sia costituita da due principi inseparabili fra loro, costitutivi entrambi della persona, ma irriducibili fra loro, senza dunque la possibilità di ridurre il principio non materiale a quello materiale.
Ma se l’affermazione che la coscienza è integralmente prodotta dal cervello non è di natura scientifica, come possiamo allora giudicare della sensatezza o meno di tale affermazione? Quando un’affermazione non è sottoponibile a verifica scientifica, sperimentale, per non cadere nel puro soggettivismo, in un giudizio basato esclusivamente sul proprio modo di sentire la realtà, occorre riferirsi all’esperienza umana nella sua totalità e concretezza. Faccio notare che il metodo scientifico non è altro che una esemplificazione, un aspetto del riferimento ultimo all’esperienza come supremo criterio di giudizio.
Che cosa ci dice l’esperienza che facciamo ogni giorno di noi stessi immersi nella realtà, in quella trama così complessa e affascinante che costituisce il nostro mondo, la condizione in cui viviamo e che abbraccia tutto l’Universo e tutta la scienza? Ci dice che noi siamo capaci di osservare e giudicare tutta la realtà, anche il nostro corpo, di prendere le distanze dal reale per poterlo comprendere, che tale capacità supera ogni biochimismo cerebrale, lo presuppone per potersi esprimere, ma lo supera. Anche se analizzassimo il cervello di una persona fino all’ultima molecola non troveremmo mai quella persona, la sua coscienza, il suo io.
Si tratta infatti di realtà irriducibili; l’io, il soggetto è una realtà incommensurabile, cioè, secondo l’etimologia della parola, che non si può misurare.

 

 

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Mauro Ceroni
(Docente di Neurologia presso l’ Università degli Studi di Pavia)

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 55 di Emmeciquadro