“for their discoveries of cells that constitute a positioning system in the brain“
Come sappiamo dove ci troviamo? In che modo riusciamo a memorizzare le informazioni che ci permettono di orientarci e di ritrovare la strada per tornare a casa? Per essere riusciti a trovare una risposta a queste domande il settantacinquenne neuroscienziato angloamericano John O’Keefe (1939-…), dell’University College di Londra, e i cinquantenni coniugi norvegesi May-Britt Moser (1963-…) e Edward I. Moser (1962-…), dell’Università di Trodheim, si sono aggiudicati il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia di quest’anno.
L’identificazione delle cellule di posizione nei topi
Le ricerche di John O’Keefe sul ruolo di orientamento da parte di alcune particolari strutture del cervello iniziano quasi cinquant’anni fa, durante i suoi studi presso il Dipartimento di Psicologia della McGill University di Montreal sotto la guida del neuroscienziato canadese Ronald Melzack (1929-…), noto per i suoi studi sulla neurofisiologia del dolore (gate control theory).
Il brillante allievo del famoso algologo identificò nell’ippocampo dei topi un tipo di neuroni (place cells) che si attivavano quando gli animali entravano in una parte a loro già nota dello stabulario nel laboratorio in cui vivevano. Era come se queste cellule nervose avessero imparato a riconoscere gli ambienti abituali e le vie per arrivarci, segnalando agli animali il percorso corretto da compiere.
Esse agiscono – si è poi scoperto – realizzando una mappa cognitiva in grado di rappresentare una specifica posizione nello spazio con un meccanismo diverso (anche se talvolta complementare e integrato) da quello sviluppato da altre aree cerebrali, come per esempio dalla corteccia visiva. È la loro modalità di «sequela di accensione temporale» che determina la realizzazione di queste fondamentali informazioni cognitive.
Nei topi le place cells codificano i luoghi, la direzione e la velocità di movimento anche se non vi è nessuna relazione tra la loro disposizione topografica anatomica dentro l’ippocampo e la struttura dell’ambiente di cui devono ricordare le «coordinate». Queste cellule hanno anche dimostrato di avere una grande capacità di cambiare rapidamente il loro schema di attivazione quando si esplorano ambienti nuovi. Questo fenomeno, noto come «rimappatura», rende ragione del fatto che gli animali possono apprendere con facilità nuove vie per raggiungere ambienti noti o imparare facilmente i percorsi per ritrovare ambienti nuovi.
Sebbene questi neuroni, benché situati nell’ippocampo, entrano a far parte di un sistema corticale non sensoriale, le loro modalità di funzionamento sono strettamente correlate agli stimoli sensoriali che ricevono dall’esterno. I «campi di orientamento» realizzati da queste reti nervose danno luogo a circuiti neuronali che hanno importanti implicazioni per la memoria, in quanto forniscono il contesto spaziale per i ricordi e le esperienze del passato. Le place cells, nel creare le rappresentazioni visuo-spaziali dei luoghi, non agiscono da sole, ma si interfacciano dinamicamente, attraverso un attivo processo di neuroplasticità che coinvolge questi circuiti con le parti del cervello che sono alla base della memoria a lungo termine e della consapevolezza.
L’ippocampo svolge un ruolo estremamente importante in entrambi questi processi: ecco perché non deve stupire che proprio in questa profonda struttura dell’encefalo esistono queste specifiche cellule deputate a favorire l’adattamento nello spazio e la consapevolezza della propria posizione. Le informazioni sensoriali che le cellule di posizione ricevono vengono classificate come elementi di misura rispetto una distanza fissata, come per esempio quella esistente tra due o più pareti (se ci si trova in un ambiente chiuso) oppure tra due o più punti di riferimento (se ci si trova in un ambiente aperto).
Questi confini geometrici rappresentano precisi indizi spaziali in grado di fornire informazioni puntuali alle cellule di posizione. Recenti studi dimostrano che l’attivazione di queste cellule è matematicamente determinata: esse rispondono alla somma di due o più curve gaussiane, ciascuna delle quali è probabilmente identificata dalla loro direzione allocentrica rispetto all’animale da esperimento.
Questa precisione «geometrica» è veramente strabiliante e rende ragione dei raffinati meccanismi di funzionamento del nostro cervello, assolutamente precisi pur nella loro capacità di adattamento dinamico di fronte a nuove «esperienze territoriali».
Anche gli stimoli olfattivi contribuiscono a formare il set di informazioni in grado di attivare le strutture predisposte all’orientamento. Si è scoperto recentemente che le percezioni olfattive possono essere efficacemente utilizzate per integrare e compensare la perdita di informazioni visive. Oltre che negli animali, anche nell’uomo l’ippocampo è coinvolto nei processi di navigazione spaziale, sia reale sia virtuale. Esso inoltre è in grado di memorizzare «visite» in tempi differenti di luoghi specifici e/o diversi, permettendo in tal modo di monitorare tali eventi spazio-temporali in maniera da consentire il formarsi di una memoria episodica da parte dell’individuo.
Le mappe trigonometriche della navigazione cerebrale
Per avere un sistema di navigazione completo ed efficiente (simile a quello tecnologico del Gps, oggi tanto utile e preciso da sembrare quasi ormai insostituibile) si doveva però ipotizzare che, insieme alle place cells, ci fossero anche delle reti neuronali in grado di «triangolare», come fanno appunto le coordinate satellitari, posizione e rotta di un soggetto, in modo da formare una vera e propria mappa a due dimensioni dell’ambiente. È quanto hanno dimostrato pochi anni fa – completando così le pionieristiche ricerche di O’Keefe – gli altri due vincitori del Nobel 2014 per la Fisiologia e la Medicina.
[A sinistra: John O’Keefe (1939-…) – University College, London, United Kingdom]
Gli studi di May-Britt ed Edward I. Moser, entrambi allievi del grande fisiologo norvegese Per O. Andersen (1930-…), si sono concretizzati nel 2005 con la scoperta delle grid cells, una classe di neuroni che spiega la possibilità del cervello di realizzare una «griglia metrica» dello spazio.
[A destra: May-Britt Moser (1963-…) – Norwegian University of Science and Technology (NTNU), Trondheim, Norway]
Esse sono in realtà delle place cells particolari, che modulando le informazioni che ricevono dalle cellule di posizione, sono in grado di creare una matrice triangolare dell’ambiente. Esse, grazie a un sistema di coordinate metriche interne, formano nel cervello una «mappa trigonometrica» che fornisce informazioni per orientarci e spostarci nello spazio: una vera e propria rete neuronale computazionale per navigare.
Le grid cells furono trovate in una regione particolare dell’encefalo, la corteccia entorinale, nella parte inferiore della circonvoluzione paraippocampale, situata nella regione mediale dei lobi temporali, in stretta correlazione con l’ippocampo.
[A sinistra: Edward I. Moser (1962-…) – Norwegian University of Science and Technology (NTNU), Trondheim, Norway]
Esse si «accendono» in relazione alla posizione dell’animale nello spazio, con modalità di attivazione che cambiano nei vari strati (cinque) della corteccia interinale, a seconda che l’animale abbia la testa rivolta in avanti o indietro, a destra o a sinistra. Si creano in tal modo griglie neuronali esagonali che formano una mappa mentale precisa dello spazio circostante.
I meccanismi neurofisiologici che sottendono il funzionamento integrato dei «neuroni di posizione» e dei «neuroni griglia» hanno aiutato a capire meglio non solo come avviene la rappresentazione neuronale dello spazio, ma consentono anche di fornire una finestra che ci permette di osservare alcuni dei meccanismi più intimi del cervello relativi ai processi di «astrazione» mentale. Infatti, come ha scritto lo stesso Edward I. Moser commentando la sua scoperta, non vi è alcun modello di griglia nel mondo esterno: questo viene costruito solo nel cervello. E lo è in modo così affidabile che possiamo analizzare in dettaglio le modalità matematiche che la corteccia usa per costruire questo modello.
L’incredibile cervello dei taxi drivers di Londra
Le osservazioni fatte sugli animali sono valide anche per l’uomo. Molti studi confermano questa asserzione. Forse l’indagine scientifica più curiosa e spettacolare (ma non per questo meno rigorosa) è quella che riguarda i tassisti di Londra.
Per superare il severo esame che consente di diventare guidatore autorizzato di taxi a Londra ogni tirocinante deve memorizzare nome e itinerario delle venticinquemila vie della capitale della Gran Bretagna.
[A destra: I coniugi norvegesi May-Britt e Edward I. Moser dell’Università di Trodheim]
Questa formazione richiede tra i tre e i quattro anni, periodo durante il quale la severa selezione operata dai frequenti esami dimezza il numero dei tirocinanti che arrivano ad avere l’agognata licenza. Questa difficile e lunga procedura è unica tra i tassisti di tutto il mondo.
La singolare ricerca effettuata nel 2000 da Eleonor A. Maguire (1970-…) dell’University College di Londra (allieva e collaboratrice di John O’Keefe) e dalla sua equipe, attraverso l’uso della Risonanza Magnetica Encefalica, ha permesso di dimostrare nei tassisti che avevano superato l’esame un ippocampo più grande (maggior volume di materia grigia nella parte posteriore di questa struttura) rispetto a guidatori d’automobili non tassisti.
Integrando questi dati morfologici con test neurocognitivi sulla memoria e confrontando i tirocinanti all’inizio e al termine del loro apprendistato superato con successo, gli studiosi londinesi sono stati in grado di dimostrare come acquisite la «conoscenza» del complesso layout delle venticinquemila strade londinesi e delle migliaia di punti d’interesse del centro-città aveva modificato non solo la loro memoria ma anche il loro cervello.
La plasticità del cervello umano – e nel caso specifico delle aree e delle strutture deputate all’orientamento temporo-spaziale – appare quindi un dato consolidato, che non solo conferma le osservazioni sperimentali di O’Keefe sulle place cells, ma che da queste scoperte inizia anche un possibile percorso in grado di portare a realizzare positive ricadute riabilitative dopo un danno cerebrale e a ipotizzare nuove capacità neuromodulative di potenziamento mentale.
Ricadute mediche
Questi dati sperimentali hanno aperto, negli ultimi anni, importanti prospettive in ambito clinico. Diversi studi in animali da laboratorio hanno dimostrato come l’esposizione cronica all’etanolo sia in grado di alterare sia la memoria spaziale a lungo termine sia di provocare gravi deficit nei compiti di apprendimento ambientale.
Ciò è determinato da un’alterazione delle reti di connessione dell’ippocampo, anche se non è ancora chiaro se ciò è dovuto a un rimodellamento neuroanatomico e una modificazione dei neuromediatori chimici implicati nei processi di trasmissione. Analoghi deleteri effetti sono stati riscontrati anche con uso di sostanze stupefacenti. Tali osservazioni potranno servire per chiarire alcuni dei meccanismi che determinano disorientamento temporo-spaziale nei soggetti in stato di ebbrezza alcolica o durante l’assunzione di droghe. Anche lesioni del sistema vestibolare, parte del labirinto situato nell’orecchio interno, incide negativamente sulla memoria spaziale, creando un deficit nella sintonizzazione tra cellule ippocampali di posizione e cellule vestibolari di accelerazione.
L’invecchiamento cerebrale sia fisiologico, come nelle persone anziane, sia patologico, come nei malati di Alzheimer, incide negativamente sul funzionamento delle cellule di posizione e sulle cellule griglia, creando problemi più o meno marcati della memoria spaziale. Le loro connessioni si modificano sostanzialmente e sembra che i messaggi chimici non riescano più a raggiungere i loro target, determinando di fatto l’interruzione delle comunicazioni che permettono di stabilire l’orientamento temporo-spaziale.
In diverse di queste condizioni sono stati effettuati studi sperimentali negli animali da laboratorio (e anche iniziali sporadici protocolli terapeutici nell’uomo) nel tentativo di «resettare» le cellule di posizione per consentirne una «rimappatura» in grado di ripristinare, almeno in parte, la loro capacità di riconoscimento ambientale e cronologico.
È una prospettiva nuova – e si spera promettente – per affrontare uno dei più incombenti problemi sanitari che affliggerà una importante fetta dell’umanità nei prossimi anni: il deterioramento cognitivo ingravescente.
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Vittorio A. Sironi
(Neurochirurgo e Storico della Medicina e della Sanità, Direttore del Centro studi sulla storia del pensiero biomedico, Università degli studi di Milano Bicocca – [email protected])
© Pubblicato sul n° 55 di Emmeciquadro