Cosa si intende con il termine «laboratorio» nell’insegnamento della matematica? Come potrebbe il laboratorio diventare inizio e fonte di un cambiamento positivo?
L’autore suggerisce un insegnamento della matematica che solleciti l’attività di chi impara, una didattica attiva, per far riconoscere proprietà e relazioni, per acquisire il metodo della matematica, prima di introdurre il linguaggio formale.
Ma la conoscenza è prodotta automaticamente? È utile anche per gli allievi che hanno qualche difficoltà?
Niente in questo campo è assoluto e automatico. Una iniziale riflessione sulle condizioni che spingono verso un insegnamento attivo della matematica e quelle che ne assicurano l’efficacia.



La proposta dell’uso del laboratorio nella didattica della matematica interroga sulla funzione dell’esperienza nell’apprendimento di questa disciplina.
Cosa si fa infatti in un laboratorio? Si agisce, si lavora, si costruisce, si mette alla prova una teoria, si verifica, si osserva e intanto si pensa. È ovvio parlare di laboratorio per le scienze sperimentali o per le lingue straniere, come luogo o momento didattico dotato di opportuni strumenti per riprodurre situazioni significative, di cui non si riuscirebbe altrimenti a fare esperienza diretta.
E per la matematica?



Esperienza come conoscenza

Ricordiamo che quello che caratterizza l’esperienza come momento formativo non è il fare come fatto meccanico, ma capire una cosa, un fatto, scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica l’intelligenza del senso delle cose, è fonte di conoscenza a patto di porsi domande e verificare le risposte.
È diverso parlare di «esperienze scientifiche» e di «esperienza»; le esperienze scientifiche rientrano nella sfera dell’esperienza, in quanto conoscenza che muovendo dalla percezione sensibile, organizza i dati mediante la riflessione e la successiva verifica. La parola esperienza deriva dal verbo «esperire», che ha il significato etimologico di provare, sperimentare.
L’esperienza è molto più generale del sapere scientifico ed è fonte di conoscenza se contiene un giudizio, anche se provvisorio e rivedibile.



Gli oggetti ideali

La matematica non ha l’aspetto di una scienza sperimentale, si esprime in un linguaggio fatto di simboli e di parole, e parla di oggetti «astratti», cioè oggetti ideali della nostra mente. Numero, punto, retta, eccetera non sono elementi che si trovano in natura.
L’attività tipica delle classi tradizionali è l’esercizio, in cui non si lavora sugli oggetti matematici, ma su loro rappresentazioni simboliche e il lavoro è normalmente decontestualizzato. La matematica diventa un gioco fatto di regole rigide su simboli di cui non trapela il significato.
Per esempio, per rispondere al quesito «1325:17» non è indispensabile immaginare un testo in cui si chiede di suddividere 1.325 pacchi di riso in 17 parti uguali o di distribuire 17 caramelle fino a esaurire quelle disponibili. Si può eseguire la divisione pensando a un quoziente (q) e a un resto (r) che permettono di trasformare la relazione data nell’altra: «1.325 = 17q + r».
Non esiste una «matematica concreta», esiste invece la possibilità di contestualizzare calcoli e formule attraverso problemi che danno significato ai numeri ed esiste la possibilità di riconoscere proprietà e teoremi come schemi che sostengono situazioni reali, attraverso l’ipotesi del «teorema in atto» [Vergnaud, 1995].
Si restituisce così un significato ai simboli.

Teorema in atto

Nella ricerca di Gerard Vergnaud esiste un’idea che descrive il processo di contestualizzazione e decontestualizzazione del sapere matematico, su cui mi sono soffermata a lungo in [Longo, 2005] e che qui sintetizzo. «Teorema in atto» è il nome con cui egli indica un’idea matematica (definizione, proprietà, teorema) presente come elemento organizzatore di una situazione.
[A sinistra: Gerard Vergnaud (1933- )]
Può essere un’operazione concreta, un gioco, un problema, una serie di esercizi, attraverso i quali quell’idea matematica può essere incontrata dagli allievi e trattenuta «in modo implicito», cioè senza essere conosciuta nel suo aspetto formale. Quando l’idea in questione viene riconosciuta esplicitamente, attraverso il lavoro scolastico, e formulata con il linguaggio proprio della matematica, diventa una conoscenza matematica, non più implicita ma «esplicita».
Talvolta è possibile apprendere una nozione incontrandola in situazioni e problemi, che la contengono come schema organizzatore, la si afferra prima in modo implicito e la si elabora successivamente fino alla forma esplicita, utilizzando il linguaggio proprio non all’inizio, ma nella fase finale in cui è significativo.
Questo percorso appare come una via privilegiata per l’apprendimento, poiché produce schemi mentali che si trasformano facilmente in conoscenze stabili e significative. In questo caso la conoscenza matematica affonda le radici nell’esperienza personale del soggetto, condizione che favorisce l’apprendimento. La domanda essenziale è se sia possibile che una conoscenza matematica si presenti «in atto», in modo da poterla fare propria in modo implicito.

Propongo un esempio di «teorema in atto» per focalizzare cosa l’autore intenda sintetizzare con questo nome e afferrare la portata che tale idea può avere nell’insegnamento della matematica.

 

 

Esempio del contare

 

Nel procedimento del contare gli elementi di un insieme, sono contenute idee matematiche implicite: relazione d’ordine, corrispondenza biunivoca e cardinalità. Vergnaud illustra come l’esistenza (o la mancanza) del concetto implicito di cardinalità si possa inferire dal comportamento dei bambini, osservando se la possiedono come conoscenza implicita. Naturalmente la possibilità di osservare le idee possedute implicitamente da un allievo è importante al fine della progettazione didattica.
«Quando conta un insieme di sei elementi, la maggior parte dei bambini di cinque o sei anni conta: uno, due, tre, quattro, cinque, sei…sei! Non solo essi devono stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli oggetti da contare, i gesti delle dita, i movimenti degli occhi e le parole-numero, ma sentono anche la necessità di dire la parola “sei” due volte».
La prima si riferisce al sesto elemento dell’insieme (questo che tocco è il sesto), la seconda si riferisce al cardinale di un insieme (gli elementi che ho contato sono sei). La doppia espressione significa che il concetto di cardinale è stato ben riconosciuto.
I bambini più grandi non ripetono «sei», ma lo pronunciano con più enfasi rispetto agli altri numeri. Ma ci sono bambini che non ripetono «sei» e quando gli si chiede quanti oggetti ci sono, non sanno rispondere e cominciano di nuovo a contare.
Per i bambini che sanno cardinalizzare, quell’unico «sei» riassume tutte le informazioni ottenute sull’insieme sottoposto alla procedura del contare. Non è così per i bambini che non sanno cardinalizzare. «Quindi si può inferire l’esistenza o la non esistenza del concetto di cardinale dal comportamento dei bambini». [Vergnaud, 1995, p.146].
L’attività di osservazione che deve svolgere l’insegnante non è banale, la domanda di chiarimento rivolta a parole potrebbe restare senza risposta, perché un bambino non è sempre in grado di giustificare a parole un proprio comportamento intuitivo. Il comportamento dei bambini è ricco di informazioni per gli insegnanti che non si aspettano spiegazioni a parole, ma sicuri che ogni gesto ha un motivo, fanno ipotesi esplicative che poi verificano con ulteriori atti di osservazione.
Ugualmente complessa è l’attività che svolge l’insegnante per inventare attività da proporre, nelle quali si possano sperimentare schemi, modelli, relazioni collegati con l’obbiettivo didattico scelto. Il laboratorio è un fare finalizzato a un contenuto di cui l’insegnante è consapevole.

 

 

Nasce il pensiero matematico

 

Dopo esserci soffermati sulla possibilità di incontrare idee matematiche in contesti di cui si può fare esperienza (teorema in atto), ricordiamo che esistono buoni modelli matematici che ci aiutano a comprendere la realtà, come quelli che usa la fisica o che noi stessi usiamo quotidianamente.
[A sinistra: Hans Freudenthal (1905 – 1990)]
Passiamo subito alla domanda fondamentale: come nascono nella mente le idee che consideriamo «oggetti matematici»? E come si impara la matematica? Secondo Giorgio Bolondi (professore ordinario di Matematiche complementari a Bologna): «La matematica non si impara per contemplazione.
Il fatto che il coinvolgimento attivo del discente sia una componente essenziale di ogni sano processo di insegnamento-apprendimento è dato oggi per scontato, qualunque sia l’insieme di conoscenze con cui ci si sta confrontando. In matematica, però, questo è anche strettamente legato alla natura stessa della disciplina» [Bolondi G., 2006].
Affermazione densa di significato e rimandi, che richiama alla posizione di Hans Freudenthal, il quale afferma che la matematica è azione, legata alle nostre azioni e alle nostre rappresentazioni, opera di un soggetto che si pone in attività con tutta la sua persona [Freudenthal, 1994]. Da qui parte per l’insegnante la ricerca sulle attività da proporre.

 

 

Matematica e realtà: sintesi

 

È solida tra i ricercatori, ma non altrettanto tra gli insegnanti, la convinzione che la matematica sia un’elaborazione che avviene nella mente umana sollecitata da fatti reali, da azioni, da situazioni che ciascuno vive con il corpo e con i sensi, che si descrivono e si trasformano in immagini mentali e modelli. Gli oggetti matematici e le loro relazioni si studiano poi come «oggetti reali», ponendosi domande collegate alla loro natura e ai loro rapporti.
Marco Bramanti (professore associato di Analisi Matematica al Politecnico di Milano) racconta: «Quando seduto al mio tavolo in ufficio sto ragionando sulle proprietà di una certa equazione differenziale, l’oggetto astratto “equazione differenziale” è più reale e più interessante per me di quanto non lo siano molti degli oggetti concreti che si trovano chiusi nell’armadio del mio ufficio, e che in quella giornata non toccherò, non guarderò e non penserò neppure» [Bramanti, 2013].
Tra le situazioni che generano il pensiero matematico, George Lakoff (professore di Linguistica all’Università di California- Berkeley), affermando l’unità di mente e corpo [Lakoff, 2005], segnala come privilegiate quelle che si vivono attraverso il corpo, fatto non sconosciuto prima di lui, se si pensa a Freudenthal e a Vergnaud.
Legame però oramai imprescindibile dopo l’opera di Lakoff.

Il legame tra la matematica e la realtà è complesso, con un’andata e un ritorno, dall’esperienza alle teorie astratte e di nuovo dalle teorie alla realtà, quando si scopre che una teoria costituisce un efficace modello per un campo di fenomeni.
Un bell’esempio è proposto da Alfred Whitehead, quando afferma che nei secoli sedicesimo e diciassettesimo la teoria della periodicità assume nella scienza un posto fondamentale, tanto da poter dire che la nascita della fisica moderna è frutto dell’applicazione del concetto astratto di periodicità a una grande varietà di casi concreti [Whitehead, 1979 pag.49].
[A destra: Alfred Whitehead (1861 – 1947)]
Specifica che questo sarebbe stato impossibile se i matematici non avessero prima elaborato, in astratto, le diverse idee che si concentrano attorno al concetto di periodicità, dallo studio di alcune relazioni tra angoli e lati del triangolo rettangolo fino allo studio delle funzioni periodiche che esprimono tali rapporti in generale.
Egli conclude che la trigonometria diventando astratta, è diventata utile, ha illuminato l’analogia di base tra alcuni fenomeni fisici, tra loro diversi; e ha fornito gli strumenti con cui le diverse particolarità di un gruppo di fenomeni potevano essere analizzate e messe in rapporto tra loro.
Porto ancora un esempio, le frazioni. Esse pongono difficoltà nella scuola, ma potrebbero essere un’ottima occasione per far notare che idealizzano i tentativi umani di suddividere in parti uguali e perciò diventano un modello a cui si può tendere, un primo incontro di modello ideale fin dalla scuola primaria.
La realtà che ci circonda non è più fatta per noi solo di cose, ma anche di linguaggi e rappresentazioni matematiche. Non possiamo più comprendere la forza, l’energia, i fenomeni atomici, eccetera se escludiamo le loro rappresentazioni matematiche.

 

 

Dal fare al pensare

 

Torniamo alle domande iniziali sull’utilità ed efficacia del laboratorio in matematica. Anzitutto mi preme sciogliere il dubbio sugli allievi in difficoltà. La grande domanda a cui ancora non ho incontrato risposte soddisfacenti, è se tutti i tipi di difficoltà nell’apprendimento della matematica si possono dirimere attraverso la didattica o attraverso il ricorso a strumenti tecnici.
La mia esperienza personale mi suggerisce che per ogni singolo allievo ci sono condizioni personali di cui bisogna tenere conto. Se si pensa di fare ricorso all’insegnamento, tutto quanto ho finora posto in evidenza continua ad avere validità. Ma va continuamente monitorato, distinguendo l’abilità tecnica, la comprensione, la memoria.
Per la matematica il laboratorio può essere inteso in molti modi diversi, potrebbe essere un luogo fisico, oppure un tipo di didattica attenta all’uso di modelli reali, di oggetti fisici, alla produzione di discussioni, racconti, commenti, ipotesi esplicative, verifiche. In ogni caso una didattica in cui ciascun allievo agisce, è attivo in prima persona.
L’assenza del soggetto è in realtà un ostacolo assai frequente all’apprendimento. Il laboratorio permette che ci siano momenti, attività, in cui ciascun allievo non sia da solo, perché la classe, se ben guidata, può diventare un autentico soggetto di aiuto reciproco e di confronto.
Questo può favorire l’attenzione, l’adesione al compito, l’efficacia dell’apprendimento, ma gli esiti positivi non sono garantiti in modo automatico. Per imparare, occorre salvaguardare momenti di lavoro personale, che permettano a ciascuno di organizzare, sintetizzare e verificare il proprio sapere.
Perché avvenga l’apprendimento, occorre passare dai sensi al pensiero attraverso l’immaginazione, la rappresentazione e il linguaggio comune (ricordiamo la natura ideale degli oggetti della matematica) e che si giunga prima o poi a una verifica (anche non immediata) che quanto si è appreso, attraverso l’azione personale, converga al sapere istituzionalizzato.
Quando l’apprendimento avviene attraverso l’esperienza è essenziale la rappresentazione di quanto osservato, che diventa «giudizio» attraverso la selezione e la scelta di legami, di significati. La funzione del docente è essenziale, [Freudenthal, 1994].
L’insegnante organizza le attività secondo una finalità determinata, perciò la sua conoscenza della disciplina non può limitarsi agli enunciati e alle dimostrazioni, perché deve immaginare, oggettivare esperienze (possibilmente ricche) che mettano in campo azioni che rimandano alla conoscenza desiderata. L’insegnante si pone in rapporto con tutta la classe e con ciascuno, pone domande provocatorie, esercita un’attività di mediazione che guida senza sostituirsi [Feuerstein, 1988]. Nel fare, nel costruire si rivelano proprietà e relazioni, ma restano escluse le convenzioni della matematica.
I nomi ufficiali degli oggetti vanno annunciati, ma dopo il laboratorio saranno nomi più facili da memorizzare perché legati ad alcuni significati. Le convenzioni vanno annunciate proponendone le motivazioni, che esistono anche se non sono di tipo logico.
Abbiamo incontrato già alcuni esempi di didattica attiva, che ora chiameremmo laboratori, in articoli precedenti che desidero ripensare e commentare [Longo, 2004].

 

L’abaco vivente

 

E’ un’esperienza di recupero, effettuata su un gruppetto di cinque bambini di una terza elementare di Torino [Longo, Avataneo, 2000]. Questi, caratterizzati da difficoltà e lentezze, non riuscivano a utilizzare correttamente la rappresentazione posizionale dei numeri. Riuscivano a eseguire meccanicamente le operazioni in colonna ma sbagliavano esercizi di passaggio tra unità, decine, centinaia.
La rappresentazione dei numeri era stata appresa nelle classi precedenti partendo dal raggruppamento su materiale non strutturato preparato dai bambini: stuzzicadenti sciolti, oppure raggruppati con elastici a mazzetti di dieci o di cento, che venivano usati anche per imparare a eseguire le operazioni in colonna. I passaggi venivano ora ripetuti sull’abaco, poi discussi e registrati sul quaderno, ma questo non produceva il salto di qualità atteso per quei cinque bambini.
[A sinistra: Abaco Cinese]
Il primo passo della ricerca è stata la diagnosi, condivisa tra me e l’insegnante. Osservando i bambini mentre trasferivano sull’abaco esercizi in cui era necessario eseguire il cambio, notavo che questo strumento rendeva più veloci e consapevoli i bambini senza difficoltà, mentre non aiutava quelli che non avevano ancora compreso il meccanismo. In particolare, abbiamo constatato che essi consideravano identici i dischetti su ogni ferro verticale senza assegnare a essi funzioni diverse a seconda della loro posizione.
Quei bambini non coglievano il significato del modello, che non poteva dunque essere per loro un «modello generativo» secondo la definizione di Efraim Fischbein (1920-1998). Questa constatazione confermava l’ipotesi, che usare oggetti concreti non assicura che il processo cognitivo avanzi automaticamente [Fischbein, 1992].
Ma anche la ripetizione di esercizi identici a quelli errati non aiuta nel recupero per gli allievi in difficoltà e ciò imponeva un cambiamento di rotta. La situazione si è sbloccata agendo su queste due strade: far ripetere in piccolo gruppo le azioni del raggruppare sollecitando, con una conversazione ben mirata, la presa di coscienza del senso di questo lavoro; realizzare per tutta la classe esperienze di movimento, coinvolgendo il corpo per favorire la comprensione della struttura.
La situazione si è sbloccata in un lavoro comune con tutti, condizione che ha permesso di fruire il vantaggio delle dinamiche sociali che si generano nella classe.
Durante un intervallo in cortile, un bambino ha proposto un nuovo «gioco»: costruire un abaco «vivente» ponendo se stessi al posto degli anelli su strisce disegnate in terra ed eseguire operazioni su quest’abaco. L’insegnante ha immediatamente valorizzato la proposta, consapevole che l’uso del corpo avrebbe potuto facilitare l’appropriarsi dello schema relativo al cambio.
Tutti i bambini, compresi quelli in difficoltà, hanno vissuto insieme quest’attività in clima di gioco, sia nella funzione di eseguire che di dare ordini a turno. I bambini in difficoltà, mentre stentavano negli esercizi scritti e orali svolti in classe sulla numerazione, in questo gioco, coinvolgendosi attivamente con i compagni, sapevano perfettamente come muoversi, senza che nessuno dovesse guidarli.
L’interazione con la classe è stata essenziale per permettere loro il salto cognitivo, e così è stato essenziale per la motivazione che la proposta del gioco sia venuta da un bambino e poi ripresa dall’insegnante e condivisa da tutti.
Non è dunque un caso che quest’esperienza abbia avuto un esito significativo: non solo le verifiche di fine anno erano positive, ma dopo le vacanze estive, all’inizio della quarta, l’acquisizione risultava conservata da tutti. Questo non è comune dopo le attività di recupero che riprendono le attività già svolte, senza alcuna modifica di approccio. I bambini in difficoltà si erano impadroniti dello schema del cambio, ma gli altri bambini non erano annoiati, perché la ripetizione non era meccanica e il gioco li divertiva.
Questa esperienza segnala che, pur essendo l’abaco un oggetto concreto, non è stato produttivo perché non ha permesso di fare esperienza diretta di un’azione di raggruppamento e di cambio. Per questo è utile solo ai bambini che sanno vedere in esso uno strumento di rappresentazione simbolica. Nel gioco la situazione è cambiata, i bambini erano obbligati a compiere personalmente le azioni di raggruppamento e di cambio di cui dovevano interiorizzare lo schema. Lo strumento da loro vissuto diventava veramente generativo, cioè liberava l’immaginazione, [Fishbein, 1992]. All’esito positivo ha contribuito il fatto di permettere ai bambini di esplicitare la propria creatività finalizzandola all’obiettivo, che avevano assunto come proprio.
Quest’esperienza ha incrementato la competenza professionale dell’insegnante, che ha «ricompreso», a un livello più profondo di convinzione, come l’occasione dell’attività corporea legata allo schema da apprendere poteva rinforzare l’esperienza già fatta in classe con il materiale, in questo caso, l’abaco.

 

Movimento, linguaggio, geometria

 

La stessa insegnante ha sperimentato in quinta (primaria) l’uso del corpo per favorire l’apprendimento della geometria, con un duplice scopo: rafforzare i concetti geometrici (già incontrati precedentemente) attraverso azioni corporee; migliorare il coordinamento concreto/astratto nel passaggio dal linguaggio naturale all’uso di termini geometrici specifici, durante il racconto dell’attività vissuta, avvenuto subito dopo in classe.
Nell’attività svolta in palestra, alcuni bambini sdraiati a terra avevano la funzione di bastoncini, altri, guidati da un bambino da loro nominato «architetto», avevano il compito di spostarli per disegnare figure geometriche (angoli e poligoni).
Per costruire una figura, i bambini erano obbligati, per capirsi, a discutere tra loro le relazioni esistenti tra i suoi elementi elaborando di ciascuna di esse una «definizione» operativa. Essi hanno anche completato con l’immaginazione [Fischbein, 1992], o accordandosi su qualche strategia, alcune imprecisioni dovute allo «strumento». Ad esempio se un bambino sdraiato era troppo lungo o troppo corto per essere il lato di una figura, si accordavano tra loro per inventare soluzioni nel comporre la figura desiderata, iniziando a distaccarsi dalle condizioni reali per idealizzare la configurazione che stavano eseguendo.
Successivamente in classe, per consolidare l’apprendimento, i bambini sono stati invitati a descrivere l’esperienza fatta guardandola in parallelo da due punti di vista diversi, quello materiale (i bambini, gli spostamenti eseguiti) e quello dell’immaginazione in cui gli oggetti sono ideali. Il foglio del quaderno è stato diviso a metà in verticale per accentuare l’idea della corrispondenza tra i due linguaggi. I due punti di vista usati nella narrazione hanno generato due linguaggi diversi, ma corrispondenti, su cui hanno proceduto in parallelo anche nella registrazione: la lingua comune ed il linguaggio della geometria, in una sorta di traduzione simultanea.
I bambini nelle classi precedenti avevano già lavorato in geometria, non era quindi la prima volta che si occupavano di angoli e figure. Ma riprendendo in questo modo il lavoro, sono diventati più consapevoli della natura degli oggetti matematici di cui si stavano occupando, e ciò ha prodotto un’evoluzione del significato dei termini da loro usati proprio nella direzione dal concreto all’astratto. Infatti, il primo risultato ottenuto è stato la facilità con cui i bambini hanno accettato il fatto che per la geometria sia le semirette che gli angoli sono regioni illimitate, cioè non quelle realmente costruite, ma quelle ideali, immaginate, di cui le altre, fatte con i bastoncini, sono un modello pertinente e divertente.
Ciò dimostra che hanno iniziato a distinguere esplicitamente da una parte il livello concreto, in cui si fanno azioni e si costruiscono modelli, e dall’altra il pensiero astratto con i suoi oggetti specifici.

 

 

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Anna Paola Longo
(Associazione Ma.P.Es. – Matematica Persona Esperienza – Milano)

 

L’articolo fa riferimento all’intervento tenuto dall’autore al Convegno (Lucca, aprile 2015) dell’Associazione GRIMED (Gruppo Ricerca Matematica e Difficoltà) che aveva come titolo «Il laboratorio è la buona didattica per tutti».

 

 

Indicazioni bibliografiche

  1. Bolondi G., 2006, Metodologia e didattica: il laboratorio, in: Rassegna, periodico dell’Istituto pedagogico italiano, anno XIV, aprile 2006, pag.59/63.
  2. Bramanti M., 2013, Elogio dell’astrazione. L’interesse degli Oggetti Matematici (parte prima) in: Emmeciquadro, n° 49 – Giugno 2013 e Elogio dell’astrazione. L’interesse degli Oggetti Matematici (parte seconda) in: Emmeciquadro, n° 50 – Settembre 2013
  3. Feurstein R., Rand Y, Rinders J.E., 1988, Non accettarmi come sono, BUR, Psicologia e Società, Milano.
  4. Fischbein E., 1992, Concreto ed astratto nell’insegnamento della matematica elementare, in: Processi cognitivi e apprendimento della matematica nella scuola elementare a cura di G. Prodi, la Scuola, Brescia.
  5. Lakoff G,. Nuṅez R.E., 2005, Da dove viene la matematica. Come la mente embodied dà origine alla matematica, Bollati Boringhieri, Torino.
  6. Longo P., Avataneo G., 2000, L’Abaco vivente, in: D’Amore, Livori, Meloni, Pesci, Interdisciplinarità e integrazione: riflessioni metodologiche sull’educazione matematica e sul suo ruolo, Pitagora, Bologna.
  7. Longo P, Avataneo G., 2002, Narrazione e matematica – Considerazioni sulla formazione del pensiero matematico, in: Emmeciquadro, n° 16 – Dicembre 2002
  8. Longo P., 2005, Esperienza e apprendimento – Costanti di metodo nell’insegnare matematica, in: Emmeciquadro, n° 24 – Agosto 2005
  9. Whitehead A., 1979, La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino.
  10. Freudenthal H., 1994, Ripensando l’educazione matematica, La Scuola, Brescia.
  11. Vergnaud G., 1995, Schemi teorici e fatti empirici nella psicologia dell’educazione matematica, in: Bernardi, C., 1995, Sviluppi e tendenze internazionali in didattica della matematica, Pitagora, Bologna.
  12. Vergnaud G., 1994, Il bambino, la matematica, la realtà , Armando, Roma (ed.orig.1981).

 

 

 

© Pubblicato sul n° 57 di Emmeciquadro