La lunga storia dell’agricoltura è passata attraverso momenti di grandi cambiamenti e innovazioni: dalle prime forme di addomesticamento delle piante, alle secolari esperienze di incroci che hanno portato alla formazione di nuove popolazioni di piante, fino ad arrivare alla moderna genetica.
Ora si apre una grande sfida condensata nella domanda: la genetica e le biotecnologie vegetali saranno pronte per assicurare alimenti alla popolazione mondiale del 2050?
La risposta non può essere che positiva e si basa sulle conoscenza del genoma delle piante che è stata acquisita negli ultimi decenni.



L’addomesticamento delle piante e degli animali si realizza attraverso la sottrazione delle diverse specie alla selezione naturale e la loro introduzione in coltivazione.
In cinque grandi centri di origine, 12000 anni or sono, intorno a orzo, frumento, mais, riso, la specie umana inventa la più importante attività che ci ha accompagnato nella nostra storia evolutiva e ci accompagnerà all’infinito: l’agricoltura.
Cosa era successo in quel preciso momento? C’è stato un passaggio di era, dal tardo paleolitico (uomo cacciatore-raccoglitore) al neolitico, durante il quale l’uomo/donna mette a punto la tecnologia per coltivare piante che già usava nella sua dieta, perché presenti nell’ambiente circostante, si nutre dei loro prodotti ed evita così di esercitare esclusivamente l’attività pericolosa della caccia.
È interessante che questa innovazione si sia sviluppata indipendentemente nei diversi centri di origine e probabilmente determinata da un unico evento: si stava concludendo l’ultima glaciazione. Mano a mano che i ghiacciai si ritiravano, nuove specie erbacee e arboree si svilupparono e le abitudini alimentari cambiarono radicalmente. Le graminacee progenitori di orzo, frumento, mais e riso diventarono le più frequenti nella flora spontanea e vennero usate dal cacciatore-raccoglitore tal quali prima e coltivate poi. La disponibilità di cibo e di nuove terre a seguito del ritiro di ghiacciai favorirono l’espansione della popolazione umana, che raggiunse circa 5milioni di persone su tutto il pianeta.
Per praticare l’agricoltura l’uomo addomestica la specie che più gli assicura il maggior rendimento, e da quel momento la protegge dalla competizione con le altre specie: la sottrae, come detto, alla selezione naturale e dà avvio alla Rivoluzione Neolitica.
Tutto ciò si realizza nella Mezzaluna Fertile, regione nella quale la civiltà compie i primi passi intorno a frumento e orzo e in cui nello stesso tempo vengono applicate tutte le tecnologie innovative via via sviluppate. Nella aree circostanti la Rivoluzione Neolitica non si è ancora diffusa.
È stato messo in evidenza che l’assenza di progenitori selvatici di orzo e frumento in Europa ha fatto sì che l’agricoltura raggiungesse i paesi scandinavi con un ritardo di 4000 anni. La diffusione di questa tecnologia, partendo dalla Mezzaluna, è stata calcolata pari a 1,1 km/anno. Anche l’Italia non ha conosciuto un Neolitico indigeno, ed è stata colonizzata seguendo due principali vie: il Mediterraneo e il Danubio, attraverso la Svizzera.
L’abbondanza di alimenti stimolò nell’uomo del Neolitico la ricerca di un sistema di conservazione dei prodotti agricoli: l’uomo impara a cuocere l’argilla e a costruire i primi grandi vasi di terracotta proprio per la conservazione delle granaglie e dei liquidi. Questa tecnologia, benché nata in ritardo di qualche millennio rispetto all’agricoltura, si sviluppò molto più velocemente tra le diverse popolazioni.
Proprio in questa seconda fase si scoprono, casualmente, anche i primi prodotti trasformati: birra e pane. Questa «tranquillità» alimentare favorì ulteriormente l’incremento demografico, che a sua volta ha favorito le migrazioni verso nuove terre sino alla formazione delle prime città. 
[A sinistra: Hordeum vulgare]
L’orzo e il frumento selvatici a quel tempo coltivati avevano la caratteristica di disperdere i semi: la spiga a maturazione si disarticolava a ogni nodo del rachide, lasciando cadere i singoli chicchi in posizioni diverse sul terreno, così favorendo la crescita e maturazione delle nuove piante, avvantaggiate in ecosistemi naturali nella competizione con altre specie.
Se dal punto di vista evolutivo questa strategia sviluppata dalla pianta rappresentava una valvola di sicurezza per la sopravvivenza della specie, dal punto di vista della produzione di cibo costituiva un punto debole, portando alla perdita totale del raccolto per effetto di improvvise calamità naturali (vento, pioggia).
Il più grande salto scientifico-tecnologico si ebbe quando tra le piante di orzo selvatico si scoprì una «spiga non fragile». Fu la prima trasformazione genetica utile registrata nella storia, che certo avrà provocato scontri tra le diverse posizioni: progressisti per la «spiga non fragile», conservatori a favore della «spiga fragile». Vinsero i progressisti, e da quel momento cominciò a evolversi tutta una nuova tecnologia per la raccolta, la trebbiatura e la conservazione del prodotto.
La genetica che sottende questo carattere fondamentale della domesticazione è stata recentemente chiarita. In orzo, i due geni responsabili del carattere «spiga non fragile» sono Btr1 e Btr2, strettamente associati sul cromosoma 3H, mentre in frumento svolgono un ruolo maggiore brittle rachis 2 (Br-A1) e brittle rachis 3 (Br-B1), rispettivamente posizionati sul braccio corto dei cromosomi 3A e 3B.



Un altro esempio è il gene sh4 di riso, che codifica per un fattore trascrizionale responsabile della formazione del tessuto di abscissione alla base del peduncolo che regge il granello sulla pannocchia di riso.
Nel riso coltivato la mutazione di un singolo nucleotide, che determina la sostituzione di una Lisina con una Asparagina, è sufficiente per ridurre lo sviluppo del tessuto di abscissione in modo tale da impedire la caduta spontanea dei semi, consentendo tuttavia il distacco dei semi a seguito di sollecitazione meccanica (trebbiatura).

 

 

Addomesticamento e formazione di nuove popolazioni di piante



 

Nel processo di addomesticamento una caratteristica tenuta in gran conto è stata la dimensione dei frutti. Dopo la fase iniziale di addomesticamento, l’interazione tra la selezione naturale e una selezione antropica empirica ha portato allo sviluppo di popolazioni adattate ai diversi ambienti di coltivazione, note come landraces.
Si sono selezionate popolazioni con frutti e semi di dimensioni maggiori, vigore dei culmi, sincronizzazione dei tempi di germinazione e maturazione. Si è stabilito quindi un continuum tra le nuove landraces e i loro progenitori selvatici, che ha favorito eventi di introgressione, derivati da incrocio casuale e conservazione di caratteri favorevoli, con specie selvatiche imparentate, ma anche eventi di ricombinazione frequenti o sporadici.
Tutte le mutazioni accumulate durante la storia evolutiva delle specie selvatiche e addomesticate rappresentano la biodiversità disponibile sul pianeta e quindi un salvadanaio di geni utili. L’importanza della conservazione e valorizzazione del germoplasma vegetale, quale fonte naturale per il mantenimento della biodiversità, è stata definita strategica per il futuro dell’umanità a partire dalla Conferenza Internazionale sulla Biodiversità tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992.
Grandiosa è stata l’opera di Teofrasto, che ha descritto il mondo vegetale in nove volumi. L’Impero Romano ha contribuito in modo determinante alla diffusione di un imponente patrimonio biologico nei territori controllati e ha affinato una moderna tecnologia agronomica di base e applicata, i cui effetti sono ancor oggi di riferimento; ma è stata la scoperta dell’America a determinare il più importante flusso di specie vegetali a livello planetario che, gradualmente, hanno provocato un radicale cambiamento nella dieta degli europei (mais, patata, pomodoro, fagiolo, eccetera).
Il tema della biodiversità è perciò da sempre al centro delle attenzioni del mondo scientifico. Si stima che circa 220.000 siano state le specie vegetali rilevanti che sono presenti sul pianeta (mono e dicotiledoni), di cui 5.000 usate dall’uomo per i propri fabbisogni e 1.500 addomesticate. Solo 150 sono state e sono impiegate in modo significativo, ma ciò che colpisce è che 4 sole specie forniscono il 60% delle calorie alimentari.
Di queste quattro specie si dispone, però, presso diversi laboratori, di centinaia di migliaia di ecotipi, landraces, varietà. L’Italia contribuisce a questo patrimonio naturale con 6.700 specie vegetali.
La variabilità naturale e le risorse genetiche rappresentano il deposito di geni da cui attingere per raggiungere ulteriori progressi attraverso l’accumulo di alleli utili e l’eliminazione di blocchi di linkage in genotipi superiori. Attraverso la conservazione in situ (cioè negli ambienti naturali dove può essere possibile l’alloincrocio tra la specie addomesticata con le specie selvatiche), on farm (cioè mantenendo in coltivazione le varietà locali) e/o ex situ (cioè in ambienti controllati, in cui non esistono gli ancestrali) e valorizzato, in quanto fonte di caratteri utili per il miglioramento varietale [www.bioversityinternational.org/].
Recentemente si sono avviate anche attività di conservazione della flora rara, minacciata, endemica e protetta. A questo proposito sono nate e cresciute banche e associazioni per la conservazione del germoplasma, insieme a collezioni particolari disponibili presso vari enti. Veramente rilevante è il numero di genotipi presenti nelle diverse collezioni a livello mondiale: si stima infatti che la cifra globale sia di circa 7,4 milioni di accessioni, comprendendo specie coltivate e specie selvatiche, affini o non affini alle coltivate.
Recentemente è stata attivata una nuova struttura per la conservazione long term a bassa temperatura nelle isole Svalbard (Norvegia) [T.Westengen et al., Ex-Situ Crop Diversity Conservation and the Svalbard Global Sead Vault: Assessing the Current Status, 2013].
Per le diverse specie agrarie sono conservate quindi sia «collezioni di base», che comprendono la maggior parte della variabilità genetica esistente a livello mondiale, che Core Collections, (collezioni di lavoro) immediatamente fruibili.

 

 

Dalle landraces a Mendel

 

Nella fase premendeliana l’interazione tra la selezione naturale e una selezione antropica empirica ha portato, come già detto, allo sviluppo di popolazioni adattate ai diversi ambienti di coltivazione note come landraces.
Tuttavia queste, dal periodo romano agli inizi del Novecento, non hanno provocato significativi incrementi produttivi per unità di superficie.
[A sinistra: Gregor Mendel (1822-1884)]
Con la riscoperta delle leggi di Mendel, le prime conoscenze sulla genetica dei caratteri quantitativi e la scoperta dell’eterosi, si è affermata una vera attività di miglioramento genetico, che nel giro di pochi decenni ha radicalmente modificato la capacità produttiva e le caratteristiche qualitative delle piante coltivate.
La genetica vegetale ha consentito di approfondire le conoscenze sulla definizione dell’ereditarietà dei caratteri e nello stesso tempo ha permesso di sviluppare tecnologie nelle piante coltivate capaci di accumulare geni utili, originariamente dispersi nelle popolazioni, in genotipi superiori.
Si avvia così un’intensa attività di miglioramento genetico che ha portato in tutte le specie coltivate allo sviluppo di nuove varietà sempre più produttive e sempre più rispondenti alle esigenze della moderna società.

In generale, nell’ultimo secolo nella maggior parte dei Paesi si sono registrati per tutte le specie coltivate incrementi produttivi sorprendenti, e in particolare per i cereali, grazie a Nazareno Strampelli (1866 – 1942) prima e a Norman Ernest Borlaug dopo, i guadagni produttivi attribuibili al progresso genetico sono compresi tra 20 e 50 kg/ha per anno.
Questi cambiamenti sono associati a importanti modificazioni dell’architettura e della fisiologia della pianta, come evidente in orzo e frumento, in cui la riduzione dell’altezza della pianta, accompagnata da una maggior efficienza nell’assorbimento e nel trasporto, si è rivelata indissolubilmente collegata all’aumento dell’Harvest Index (HI = biomassa utile/biomassa totale).
Il modello di pianta, il cosiddetto «Ideotipo», nel quale deve instaurarsi un ottimale rapporto tra sorgente di energia (fotosintesi) e siti di accumulo (frutto) è stato esportato e applicato in altre specie vegetali.
[A destra: Norman Ernest Borlaug (1914 – 2009) – Premio Nobel per la Pace 1970]
È stato scritto che l’unico vero successo economico della genetica sia stato lo sfruttamento dell’eterosi, sia in campo vegetale sia animale. Probabilmente non siamo lontani dal vero. Sicuramente l’eterosi ha molto a che fare con la genetica quantitativa, poiché la possiamo definire come la superiorità fenotipica dell’ibrido (HF1) rispetto ai genitori, per caratteri come il tasso di crescita, il successo riproduttivo e la resa.
Nel richiamare alla mente un’evidente eterosi si pensa generalmente all’incrocio tra due linee pure di mais, o all’incrocio tra razze di cani. Il problema della base genetica dell’eterosi è stato dibattuto per oltre un secolo, senza raggiungere un punto fermo, ed è anzi stato accantonato per decenni dopo i fervori iniziali fino ai giorni nostri quando è stato ripreso perché la disponibilità di strumenti genomici sta aggiungendo tessere importanti al complesso puzzle.
L’eterosi si è dimostrata strategia di grande interesse applicativo non solo nelle specie allogame (nel mais si sono raggiunte 15 t/ha in pieno campo), ma anche nelle piante autogame. Particolarmente rilevante è l’esempio del pomodoro (specie autogama), in cui lo sfruttamento di questo fenomeno ha spostato le produzioni, negli ultimi 50 anni, dagli iniziali 300 q/ha agli attuali 1200 q/ha in pieno campo e 2200 q/ha in serra.
L’interesse verso lo sfruttamento dell’eterosi si è spostato anche su frumento e orzo: quattro ibridi del primo e sei del secondo sono oggi in coltura in Germania. In un secolo di applicazioni scientifiche nelle piante coltivate si sono raggiunti risultati straordinari; agli esempi sopra riportati si può aggiungere la barbabietola da zucchero, che è passata negli ultimi 40 anni da una produzione di radici media di 30 t/ha a oltre 100t/ha con un indice zuccherino del 15%.
Abbiamo raggiunto il plateau?

 

 

Nutrire 10 miliardi di persone

 

Con i risultati fin qui raggiunti si può pensare di alimentare il pianeta nei prossimi quaranta anni, quando la specie umana supererà i 9 miliardi di individui?
Benché la scienza e la tecnologia abbiano fornito in questi ultimi decenni risultati straordinari, e in considerazione del fatto che non possiamo più applicare la regola della messa a coltura di nuove terre, ma che dobbiamo risparmiare il terreno dalle continue razzie antropiche, nasce l’imperativo di dover chiedere all’unità di superficie l’ulteriore sforzo di ospitare, in perfetto equilibrio, nuove piante capaci di garantire il cibo per 10 miliardi di persone. Alla domanda se ciò sia possibile, la risposta è stata positiva, ma dobbiamo disegnare nuove strategie.
Gli obiettivi attuali sono rivolti a convogliare gli sforzi delle diverse discipline scientifiche verso lo sviluppo di tecnologie mature per l’agricoltura del futuro, a garanzia di produzione di alimenti per tutti.
Se si analizza lo sviluppo e la crescita di una pianta addomesticata, si evidenzia che anche nelle migliori condizioni ambientali non si è riusciti a ridurre in modo consistente il gap esistente tra la produzione potenziale e quella effettiva raggiunta in azienda. Questo è il primo problema da affrontare.
Il secondo è quello di disegnare nei prossimi anni un nuovo modello di pianta capace di innalzare ulteriormente la potenzialità produttiva. Se consideriamo il frumento risulta evidente che le nuove varietà e le nuove tecniche agronomiche, in alcuni Paesi Europei, hanno permesso di raggiungere una media nazionale superiore a 8 t/ha con una potenzialità di 12-14 t/ha, cioè sono stati ottenuti circa 20000 semi/m2 di terreno senza intensificare l’uso di prodotti di sintesi. Oggi si può dire che teoricamente è possibile raggiungere 30000 semi/m2 e superare la barriera delle 15 t/ha.
Potenzialmente il frumento, l’orzo e molte specie coltivate programmano molto precocemente il numero di fiori da trasformarsi in frutti per singola pianta, ma eventi sfavorevoli durante il ciclo biologico riducono drasticamente la fertilità, l’allegagione dei fiori e la dimensione dei frutti. Partendo infatti da una situazione ottimale pari a 100 si può avere una perdita dell’80% a causa di eventi negativi ambientali.

La sfida è di ottenere una nuova pianta capace di far fronte a queste cause negative durante tutto il ciclo biologico!
Oggi conosciamo in modo approfondito la tappa metabolica di risposta all’insulto; disponiamo della sequenza del genoma di molte specie, compresa la più complessa, il frumento; presso le banche del germoplasma sono disponibili i passaporti delle singole varietà con la descrizione fenotipico-molecolare delle loro caratteristiche peculiari; sono state disegnate nuove architetture di piante arboree (per esempio il portamento colonnare); con l’aiuto della genomica nuove strategie di breeding sono state messe in opera per incorporare più geni in un genotipo superiore (Pyramiding); nuove tecniche agronomiche saranno via via disponibili per appiattire sempre più la curva degli input di sintesi.
[A sinistra: Piante di melo]
Un esempio molto appropriato riguarda l’architettura della pianta del melo regolata da un gene che controlla il portamento colonnare Colomnar (Co) mappato sul cromosoma 10.
L’habitus di crescita colonnare, scoperto nel melo intorno al 1970, è caratterizzato da internodi corti, ridotta altezza e ramificazione della pianta. Questo modello ottimizza l’intercettazione della luce, permette di aumentare la densità di piante per ettaro come pure la produzione di frutti, riduce al minimo la potatura e facilita la raccolta meccanica. Se a tutto ciò aggiungiamo i risultati ottenuti sulle resistenze, è evidente come anche per questa specie esistano già oggi incoraggianti prospettive.
In molte specie si sta seguendo questo percorso, enfatizzando il concetto di potenzialità produttiva e stabilità delle produzioni. È interessante osservare come all’aumentare della produzione di prodotti utili, la curva degli input tecnologici non segua lo stesso andamento in parallelo ma si appiattisce.
Come già detto, tutti questi sforzi dovranno seguire un percorso di compatibilità ambientale. Per alcuni aspetti della destinazione d’uso della biomassa, si comincia a sperimentare la coltivazione di piante perennanti al fine di ridurre l’input dei prodotti di sintesi.
Nuovamente, alla domanda quindi se la scienza e la tecnologia abbiano gli strumenti per produrre alimenti per 10 miliardi di individui nei prossimi quaranta anni, la risposta non può essere che positiva, perché abbiamo già oggi rispetto a qualche decennio fa strumenti di conoscenza assolutamente nuovi: la base di tutto risiede nella conoscenza del genoma delle piante.

 

 

Conoscere il genoma delle piante

 

L’analisi dei genomi è stata la maggiore conquista della genetica moderna per lo studio della struttura e funzione dei singoli geni e dell’intero genoma dei viventi, fondamentale anche per comprenderne le dinamiche evolutive e sviluppare ulteriori biotecnologie al fine di migliorare specie vegetali per caratteri utili.
Sono oggi disponibili le sequenze genomiche ad alta qualità di specie modello quali Arabidopsis e Brachypodium, oltre a quelle di specie di elevato interesse agronomico quali riso, mais, vite, melo, pioppo, patata, pomodoro, orzo e frumento. I genomi del riso e del Brachypodium sono particolarmente importanti perché servono anche da modello per lo studio dei genomi degli altri cereali, le Poaceae.
Tra i genomi di maggiore complessità si annovera quello del frumento tenero (Triticum aestivum, 2n = 6x = 42-AABBDD), stimato in 17 miliardi di bp, pari a cinque volte il genoma umano e a circa quaranta volte quello del riso. È caratterizzato dalla presenza di elementi ripetuti per circa l’80%. Si stima che soltanto nel cromosoma 5A siano contenuti da cinque a seimila geni.
[A destra: Triticum aestivum]
Il primo importante incrocio avvenne tra la specie portatrice del genoma A (Triticum urartu AA) e quella portatrice del genoma B (Aegilops speltoides BB), incrocio che diede origine a Triticum turgidum (AABB), il grano duro tetraploide che utilizziamo per fare la pasta; successivamente, questa specie unì il proprio genoma con quello di Aegilops tauschii (DD). Sequenziare il genoma del frumento è un po’ come completare un puzzle di migliaia di pezzi, tutti molto simili tra loro.  
Considerando la qualità dell’assemblaggio, i ricercatori stimano che Triticum aestivum possieda qualcosa come 106.000 geni codificanti per proteine, un numero elevatissimo se rapportato ai 25.000 geni umani, ma perfettamente in linea con le dimensioni considerevoli di questo genoma.
Ciò che rende davvero speciale il genoma di Triticum aestivum è il fatto che esso sia in realtà costituito da tre distinti genomi, costretti dall’evoluzione a convivere all’interno della stessa specie. Nel genoma del frumento si trovano moltissime tracce di questi esperimenti evolutivi: si contano infatti migliaia di geni che mostrano differenze rispetto alla versione originale presente nelle piante selvatiche.
Generalmente si tratta di mutazioni senza effetti particolari, ma in alcuni casi l’impatto sulla funzionalità della proteina è stato rilevante. Da queste sequenze ridondanti potrebbero per esempio originarsi i microRNA (di 20-24 nucleotidi), una categoria di molecole fondamentali per la resistenza agli stress ambientali e agli agenti patogeni.
Il sequenziamento del genoma del pomodoro coltivato e del suo antenato selvatico, Solanum pimpinellifolium, ha evidenziato il fenomeno della poliploidizzazione.

Solanum pimpinellifolium

 

Come noto, il pomodoro appartiene alla famiglia delle Solanaceae, che comprende sia piante agrarie, quali patata e melanzana, che piante ornamentali e medicinali, quali la petunia, il tabacco, la belladonna e la mandragola.
Una peculiarità delle Solanaceae è la loro diffusione in ecosistemi molto differenziati. La sequenza del genoma ha fatto nuova luce sulle basi molecolari di questo adattamento.

Si è infatti dimostrato che il genoma di pomodoro si è «triplicato» improvvisamente circa 60 milioni di anni fa, in un momento vicino alla grande estinzione di massa che ha portato alla scomparsa dei dinosauri.
Successivamente, la maggior parte dei geni triplicati sono stati persi, mentre alcuni di quelli superstiti si sono specializzati e oggi controllano caratteristiche importanti della pianta, comprese quelle della bacca, come il tempo di maturazione, la consistenza e la pigmentazione rossa.

 

 

Qualità e sicurezza alimentare

 

I genomi vegetali cambiano più rapidamente di quanto non facciano i genomi animali, portando così a una maggior variazione tra specie anche strettamente correlate e anche all’interno di una stessa specie. Il motivo di questa estrema plasticità è da ricercarsi nelle diverse condizioni di vita e di strategie di sopravvivenza delle piante rispetto agli animali, che sembrano dunque richiedere per le prime la presenza di genomi più «flessibili».
Uno degli aspetti di particolare considerazione riguarda la genomica per la qualità e sicurezza alimentare. La qualità delle produzioni agroalimentari rappresenta un concetto particolarmente complesso, coinvolgendo le esigenze spesso differenti dei diversi attori delle filiere, quali i produttori, gli stoccatori, i trasformatori e infine i consumatori. Innumerevoli sono gli esempi di applicazioni biotecnologiche al miglioramento della qualità in piante agrarie, così come ampie sono le prospettive delle biotecnologie applicate alle richieste mutevoli del settore.
L’uso di marcatori molecolari associati a caratteri di pregio per il loro trasferimento attraverso la MAS o la Genomic Assisted Selection viene praticato ormai routinariamente con l’obiettivo di associare alle elevate produzioni anche le caratteristiche qualitative incluse le qualità organolettiche di un prodotto.
Alla selezione assistita con marcatori molecolari si affianca la tecnologia della trasformazione genetica. I nuovi indirizzi biotecnologici sono rivolti a produrre piante geneticamente modificate prelevando geni da piante filogeneticamente affini (Piante Cisgeniche) oppure da piante filogeneticamente lontane (Piante Transgeniche).
I benefici attesi dall’impiego delle PGM in agricoltura sono stati ampiamente discussi in pubblicazioni internazionali e nazionali nonché con interventi sul sito di società scientifiche come la Società Italiana di Genetica Agraria o la Società Americana di Biologia Vegetale.
La conoscenza dei meccanismi che regolano l’architettura della pianta, molto spesso mediata da un controllo ormonale, sono fondamentali per i nuovi ideotipi di pianta per il futuro. In genere gli studi sono stati rivolti principalmente a fisiologia, metabolismo e genetica della parte aerea delle piante.
Oggi tuttavia una maggiore attenzione viene rivolta alle radici, per migliorare l’efficienza d’uso dell’acqua (WUE), dell’azoto (NUE), del Fosforo (PUE), alla resistenza al freddo (cor genes), alle proprietà fisico-chimiche e biologiche del suolo e al loro impatto sulla resistenza alle malattie, in modo da disegnare un moderno sistema integrato (IPM – Integrated Pest Management) per mettere i nuovi genotipi di pianta nella migliore condizione di crescita.
Sono in atto in Open Field primi esperimenti di simulazione dell’incremento della CO2 nell’atmosfera, che passerà dalle 380 ppm attuali a 600 ppm nel 2050 per verificare l’effetto sulla fotosintesi e qualità dei prodotti.
Non trascurabile è anche il tema che vede il sistema produttivo agrario non più basato sul trinomio Pianta-Atmosfera-Suolo ma piuttosto sul quadrinomio Pianta-Atmosfera-Suolo-Microrganismi che vivono intorno o dentro le radici.
Questa nuova visione ha stimolato la nascita di network per monitorare l’evoluzione del metagenoma al variare dei diversi sistemi colturali e degli ambienti, e come questo possa influenzare la vita delle specie agrarie e selvatiche. Si ipotizza già che la performance di specie di piante e di genotipi entro specie dipenderà anche dagli inoculi microbici, specifici per l’esaltazione di determinati caratteri, che interagiscono con gli elementi fisico-biochimici del suolo e con il microbioma naturale in specifiche condizioni.
Le nuove sfide della moderna agricoltura per alimentare il mondo si baseranno sempre più sulla scienza e innovazione tecnologica e sulla velocità con cui queste nuove tecniche raggiungono l’azienda agraria.
Ne consegue che la scienza applicata all’agricoltura rappresenta il motore dell’aggiornamento ed è direttamente coinvolta nel disegnare i nuovi orizzonti dell’agricoltura, dell’alimentazione e dell’ambiente, partendo dal presupposto che, come ben noto, è necessario raddoppiare la produzione di cibo entro il 2050 senza causare danni all’ambiente.

 

 

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Michele Stanca
(Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Unione Nazionale delle Accademie per le Scienze Applicate allo Sviluppo dell’Agricoltura, alle Scienze Alimentari e alla Tutela Ambientale – UNASA)

 

 

 

© Pubblicato sul n° 57 di Emmeciquadro

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