Il progetto CLIL – Content and Language Integrated Learning – già nella sua denominazione – presenta elementi di criticità che meritano di essere enucleati.
Da parte degli organi ministeriali e nelle scuole si tende invece a eludere la riflessione sulla complessità del problema (genesi e conseguenze), in una sorta di semplificazione che riduce la questione ai meri aspetti organizzativi e burocratici.
Per puntualizzare i nodi problematici sul piano sia culturale sia formativo, abbiamo posto alcune domande a Luca Montecchi, docente di Lettere classiche e cultore di Lingue moderne, per molti anni Preside del Liceo Scientifico della Fondazione “Sacro Cuore” di Milano, attualmente Rettore delle scuole dell’Istituzione “don Carlo Gnocchi” di Carate Brianza (MB).



In diverse occasioni, Lei ha sottolineato che insegnare una lingua, per esempio l’inglese, non è insegnare una disciplina. Mi pare un primo importante chiarimento.

Tale è, in effetti. Ma va subito aggiunto che tale semplice – ovvia? – distinzione è solo la prima di una trafila di domande e problemi concernenti la lingua, la nostra lingua, che da tanto, troppo, tempo non occupano più il dibattito pubblico, né nello spazio dei media e delle grandi istituzioni né in quello delle scuole e delle stesse università.
Voglio dire che solo di quando in quando vien fuori il linguista di grido, da Tullio de Mauro a Francesco Sabatini a Luca Serianni, a sollevare (senza troppo clamore, invero) la questione sociale della lingua e a ricordarci l’importanza dell’italiano quale idioma dell’italianità, intesa come patrimonio di una cultura dalla tradizione antica e nobile, e che ha profondamente influenzato l’intera civiltà europea dell’età moderna: fino a oggi (una ricerca condotta e pubblicata dallo stesso De Mauro nell’anno 2000 documenta che l’italiano è la quarta lingua straniera più studiata nel mondo). E sottolineo che «tradizione» non equivale a «passato» tout court, comporta invece l’idea e la responsabilità della continuità, della trasmissione, del tramandare, oggi, quella lingua alle nuove leve d’italiani, nativi e immigrati. Proprio quei tanti immigrati di prima, seconda e terza generazione, ai quali purtroppo non si offre un’immagine grande, seria, impegnativa della lingua del sì.
Ho fatto questa premessa non già per scansare la domanda, bensì per collocare la distinzione avanzata – insegnare una lingua / insegnare una disciplina – nel suo contesto reale, quello della scuola italiana.
È certamente vero, e lo confermano le ormai molte esperienze di studio, anche preuniversitarie, in scuole estere, che il possesso e l’uso maturo e disinvolto di una seconda lingua trae notevole vantaggio dalla frequenza scolastica e dallo studio di discipline letterarie, storiche, scientifiche, socio-economiche, nelle scuole del Paese straniero. Ma quelle esperienze sono vincenti ove gli studenti di lingua madre italiana vi arrivino avendo appreso ed esercitato e assimilato le strutture portanti della seconda lingua (= L2): fonetica, morfologia, sintassi, vocabolario, e poi tanti testi da leggere e da scrivere. E non penso affatto di riproporre la ricetta stantia della grammatica senza parlato, per carità!
Credo anzi si debba procedere con decisione a un profondo quanto diffuso rinnovamento della glottodidattica, che preveda l’uso attivo, comunicativo, della L2 dalla prima scolarità e finanche (ma con juicio, ragionevolmente) dalla Scuola dell’infanzia. Di più: sono personalmente del parere che i criteri e la scala di valutazione del CEFR (Common European Framework of Reference for Languages) siano utili e vadano tenuti presenti dagli insegnanti interessati.
Tutto ciò, in ogni caso, riguarda l’insegnare una L2. La L2 prevalente, l’inglese, impostata come lingua veicolare di altre discipline da Decreti, Circolari e Note (anche recenti) del MIUR, è invece una pura e semplice forzatura della natura e della storia.
Butto là qualche domanda.



  1. Di quale inglese stiamo parlando: British, American, standard, business? Data l’alta penetrazione global (si pensi soltanto al web e alla finanza), non va poi sottovalutata la complessa evoluzione di questa lingua, della quale si parla ormai di «mutazione continua».
  2. È giusto o no porsi preventivamente il problema della terminologia, non di rado fonte di fraintendimenti o confusione?
  3. Se sì, in che maniera?
  4. A quale impostazione epistemologica delle discipline intendiamo attenerci?
  5. A quale grado di competenza linguistica riteniamo che la scuola debba preparare i suoi alunni, affinché questi possano positivamente beneficiare dell’offerta CLIL?

Molti linguisti, (per esempio Giovanni Gobber, sul n° 48 – 2013 di questa rivista) hanno messo in evidenza un punto di criticità a tutti i livelli scolari, anche all’università: altro è insegnare l’inglese, altro è insegnare in inglese.
Qual è la Sua esperienza a riguardo di questo equivoco che attraversa il progetto CLIL e che nell’attuazione sembra manifestarsi ancor più clamorosamente?



Esistono orientamenti e modi differenti, connotati culturalmente o ideologicamente, d’insegnare non qualche, ma ogni disciplina, dalla Fisica alla Matematica alla Storia alla Musica, eccetera.
È noto, per esempio, che negli ultimi decenni l’orientamento didattico anglo-americano ha deliberatamente trascurato l’insegnamento formale della/e lingua/e così come della Matematica e della Chimica, impostando i piani di studio e le prove d’esame al fine, controverso e contraddittorio, di ottenere la performance, la «prestazione» a scapito della profondità della comprensione.
È noto, appunto, che l’Italia è rimasta fra i pochi sistemi scolastici (non solo liceali, ma fino a quando?) a prevedere lo studio sistematico della Geometria razionale e analitica in chiave dimostrativa.
Che fare, allora? Abbandonare una vera best practice italica in favore delle procedure computazionali e del problem solving (come da certi pedagogisti e da varie note ministeriali si raccomanda)?
Oppure tenere il nostro impianto però traslato in lingua inglese?
Quest’ultima è la via, manifestamente forzosa e immotivata, prescelta da quanti (seppure in grado di farlo in L2) non intendono rinunciare a uno stile didattico difficile ma efficace e formativo. Insomma, non se ne vede la necessità.
D’altra parte, in più di tre lustri, ho personalmente osservato che i 17-18enni liceali italiani che studiano Matematica in British schools (per non parlare delle US high schools), proprio in virtù dell’impostazione ricevuta in patria, dimostrano rapida capacità di adattamento a metodi differenti – di norma tuttavia soffrendo la povertà se non l’assenza di ragioni date e discusse in aula coi docenti stranieri.
Sempre rifacendomi alle esperienze di studio estero di lunga durata, il guadagno e il successo di queste per gli studenti dipendono in larga misura dalla loro attitudine argomentativa e critico-comparativa – non solo assimilativa, da «sgobboni» – educata nelle scuole patrie. E non per destituire di valore l’uno o l’altro metodo appreso, al contrario, per apprezzarli appieno – come accade, per esempio, nelle discipline politico-economiche o nelle scienze sperimentali, di cui i britannici accentuano l’aspetto laboratoriale a danno della teoria (anche se, in mancanza di un impianto teorico, di un quadro di riferimento, un ragazzo italofono che non sia dotato, o brillante, o curioso rischierà di perdersi, non coglierà i concetti, non imparerà quella disciplina).
L’insegnare una lingua straniera è tutt’altra cosa. La questione è di estrema complessità. La lingua è di certo un sapere, ma, a differenza degli altri saperi, in essa oggetto e metodo coincidono. Un oggetto quanto mai articolato e costituito dal sovrapporsi e intrecciarsi di piani e strategie insospettabili: fonetica, fonologia, fonosintassi, intonazione, morfologia, sintassi, lessicologia, ordine delle parole, connettivi, sequenzialità, retoricità, semantica verbale e testuale, pragmatica, strutture inferenziali, impianto argomentativo, eccetera, eccetera.
La materia è tanto più problematica e mobile in quanto investe ed esige il fattore umano in massimo grado. Non per niente, la ricerca sulla dimensione psico-cognitiva, da non molto largamente esplorata, del linguaggio (in Italia si segnala il nome di Andrea Moro) ha tanto contribuito a far luce sul gran mistero del fenomeno lingua & linguaggio almeno quanto a sollevare nuovi, più reconditi problemi.
Tutto ciò per dire che, senza essere un sottile indagatore di teoria linguistica, il comune insegnante che abbia il dovere professionale di far acquisire al massimo grado possibile l’inglese ai suoi allievi ha davanti a sé, più ancora di venti o trent’anni fa, l’arduo compito di farlo sentire e vivere in classe nella sua autenticità o, almeno, attendibilità, sapendo che l’apprendimento delle strutture grammaticali da sole non basta e, soprattutto, non serve allo scopo.
È fondamentale l’azione verbale, l’atto organizzato e sistematico dell’intendere, del parlare e dello scrivere. Al docente si richiede un lavoro di ricerca e preparazione sulla L2, individuale e di team, sia prerequisito sia aggiornato – specie nella direzione dei communication skills –, davvero imponente.
Viceversa, il docente italiano di Fisica o Arte non bilingue nativo, per disinvolto anglofono che sia, insegnerà la sua disciplina, o porzioni di essa, preoccupato di passarne il contenuto, il metodo e il linguaggio specifico, per forza trascurando la qualità linguistica d’insieme.

Ciò è accettato e, anzi, previsto all’interno delle varie comunità scientifiche, in cui l’inglese d’uso è piuttosto una koinè convenzionale fatta di vocabolario specifico e sintassi elementare attinti da un mix di British & American, che funziona più o meno come il latino medievale nella societas di filosofi metafisici e naturali fino al Settecento.
Perché, allora, forzarne l’uso didattico attivo generalizzato nella scuola superiore giocando con schemi fittizi fuori contesto, visto che poi, al termine della lezione, non c’è necessità né occasione di verifica nell’ambiente ordinario di studio o di vita?

Quale origine, secondo Lei, può avere la classificazione, presente nel CLIL, delle discipline scientifiche (Matematica, Fisica, Chimica, Biologia…) come un insieme di discipline non linguistiche (DNL)?
Insegnare/apprendere una lingua attraverso una disciplina dichiarata «non linguistica» sembra avere degli aspetti paradossali.

Definire «non linguistiche» in pratica tutte le discipline escluse le lingue storico-naturali – antiche, materne, moderne – è un doppio errore:

  1. è un escamotage pseudo-definitorio, perché un ente, perciò anche una disciplina, cioè un sapere formale, vuol esser definito per quel che dichiara ed è, non per quel che non è – un po’ alla stregua degli eufemismi politically correct del tipo «non udente», «non vedente», eccetera;
  2. Ogni disciplina che si rispetti è tale anche e proprio per esser dotata di un suo linguaggio o gergo che la connota, che la rende riconoscibile fra le altre e che viene adottato da chi ne fa una professione.

Tant’è vero che imparare una disciplina coincide, in ultima analisi, col possederne il linguaggio specifico, il quale è anzitutto un lessico e una forma di ragionamento, e non, si badi, uno schema, una «sintassi» procedurale.
Lungo l’intera storia della cultura occidentale, soprattutto a far data dalla fondazione del metodo sperimentale galileiano, lo statuto delle scienze si è venuto precisando e costruendo non soltanto in virtù di formule e procedimenti di calcolo matematici, ma almeno altrettanto di lessico e di definizioni espresse con linguaggio verbale.
E poi, val la pena di ricordare che gli scienziati, specie inglesi ottocenteschi, Darwin in testa, pensano la scienza del vivente come un grande racconto che narri ex novo la storia dell’origine dell’uomo e delle specie animali alla luce dei «documenti» e metodi di conoscenza della scienza moderna, una storia evolutiva in gara – o in polemica – coi miti antichi delle cosmogonie, delle genealogie e dei grandi cicli secolari delle età decadute dall’oro al ferro.
Anche fra i maggiori matematici e i fisici, soprattutto del Novecento, si trovano «scrittori» di prima grandezza quali – cito a caso – Barrow, Freudenthal, Feynman, lo stesso Einstein, Dirac, Davies, il compianto Giorgio Israel, i quali hanno lasciato anche libri e scritti non soltanto «leggibili» da un non competente di calcoli ed equazioni, ma che meriterebbero esser letti da un liceale o, almeno, da uno studente universitario (e perché non raccomandarli agli insegnanti in erba e a quelli più consumati, sempre a corto di consigli di lettura?) proprio per la loro qualità e forza espressiva almeno pari al pensiero vasto ivi depositato.
Allora, delle due l’una: o anche le scienze sono «linguistiche» oppure si dovrà concluderne che quelle menti geniali che ho citate non possedevano un pensiero unitario, declassando quindi con disprezzo opere formidabili – si veda La bellezza come metodo recensita sul n° 54 – 2014 di questa rivista– a bassa letteratura divulgativa.
Ho voluto insistere su questo punto per due ragioni:

  1. Talune pseudo-definizioni sono nocive tanto al (buon) senso quanto al costituirsi del retto osservare e ragionare, in questo caso rispettoso di oggetto e metodo delle discipline;
  2. Una cattiva o erronea impostazione del problema «linguistico» nuoce pure al darsi di opportunità conoscitive e linguistiche proficue nel quadro di una didattica improntata al CLIL.

Una questione di carattere generale: la confusione tra il piano della comunicazione e il piano della comprensione, che si evidenzia, per esempio, nella proposta di uso di una lingua diversa da quella materna nell’insegnamento delle Scienze sin dai primi anni della Scuola Primaria.
Quali, a Suo parere, potrebbero essere gli aspetti positivi di tale scelta e quali gli aspetti negativi?

In tutta onestà, mi è difficile dare una risposta secca e precisa.
È vero che i due piani cui la domanda accenna vanno tenuti distinti nell’atto di pensare una lezione o, in generale, un programma didattico. È però anche vero che il comunicare ha un dinamismo ben più pregnante e produttivo del meschino dialoghetto cui sovente è ridotto.

Sotto questo profilo, e in ciò le migliori pratiche e riflessioni di glottodidattica lo testimoniano, gli insegnanti di ogni disciplina sono chiamati a riconsiderare l’atto del loro far lezione alla luce del tratto comunicativo, che non è orpello o vezzo originale di qualche didatta eccentrico con vocazione teatrale.
Al contrario, non è che l’elementare condizione del lavoro, per la quale il destinatario della lezione va tenuto presente quasi più del contenuto che si vuol proporre; diciamo meglio: nell’immaginare la lezione non puoi prescindere dai volti degli alunni cui la proponi. Non solo: devi ammettere che alla tua offerta di un contenuto – che in sostanza è offerta di qualcosa che ha un senso o che pone un problema – qualche tuo allievo, sentendosi interpellato, risponda al di là dell’aspettativa che ne hai, e a sua volta offra un contributo alla comune ricerca altrettanto sensato e che oltrepassa la tua previsione.
Questo per dire che la comunicazione spesso decide della comprensione, purché l’insegnante lo sappia e sappia governare tale processo di conoscenza, interessante per tutti gli attori in gioco, usando di umile intelligenza per ridisegnare, nel caso, il dispositivo stesso della lezione.
Quanto dichiarato vale senz’altro per la comunicazione in lingua straniera. Anzi, una didattica «comunicativa» in L2 che non si riduca alla mera chiacchiera più o meno calibrata su situazioni o casi tipici, con o senza il supporto del madrelingua, ma che all’opposto sia vivace ricapitolazione di tutte – idealmente, di volta in volta – le competenze di lingua richieste in testi orali e scritti, tale è la didattica che si dimostra la più efficace e redditizia. Perché è all’interno del processo di comunicazione – che infine è scambio guidato di esperienze – che lo studente comprende e si rende conto del significato di un costrutto grammaticale o della polisemia non arbitraria di un vocabolo.
Ora, per rispondere finalmente al quesito, credo occorra ben distinguere – soprattutto alla Scuola Primaria – quali spazi di comunicazione verbale sia opportuno curare per l’apprendimento di una L2 più vicino all’esperienza (simulata) di un coetaneo parlante nativo.
Si danno varie occasioni non formali alla Scuola Primaria (e pure dell’Infanzia), dalla ricreazione al gioco al pranzo al canto, nelle quali sono in atto da anni esperimenti gestiti in L2 ormai diffusi e consolidati. E, di norma, percepiti come prassi consuete e «naturali», al punto che il bambino, in quei contesti, troverebbe paradossalmente strano adoperare un codice diverso da quello English o, peggio, sentirsi tradurre in italiano le frasi pronunciate.
Personalmente, per ragioni di buon senso pedagogico e contestuale, escluderei invece che un bambino (di media capacità) debba venir sottoposto al doppio onere, funzionale e concettuale, di apprendere e adoperare l’inglese in una disciplina come le Scienze naturali, il cui metodo e il cui linguaggio sono ancora da seminare e far sedimentare.
Se vogliamo davvero introdurre i bambini all’uso spontaneo della lingua inglese, nella prima età scolare il gioco linguistico – nel senso più nobile ed educativo di ludus – è sempre da preferirsi all’apprendimento formale, sia esso grammaticale ovvero disciplinare: una volta stabilita la gerarchia d’uso tra L1 e L2, per quest’ultima sostengo che la via ludica e naturale (non dico «casuale») insegna e invoglia, la via formale coarta e stufa.
Del resto, non mi è ancora capitato di essere smentito; anzi, le non rare esperienze italiane di bilinguismo sistematico nella prima scolarità confermano che lo scolaro medio, dopo cinque od otto anni, non entra in possesso pieno di nessuna delle due lingue: entrambe gli sono familiari – e ciò è un bene –, nessuna però certa.

Un atteggiamento ormai molto diffuso fra i docenti è di «adattamento» rassegnato e/o acritico alla metodologia CLIL, i cui criteri vanno assumendo sempre più un carattere normativo: nei licei da Lei coordinati quali scelte si sono operate per salvaguardare la libertà di insegnamento?

Stando alle ultime notizie in fatto di sperimentazione bilingue, si apprende che un liceo classico statale milanese ha annunciato di accingersi a fare il gran salto: tutte le materie – dal Latino alla Matematica – verranno spiegate nell’idioma della regina Elisabetta. Il modello di riferimento (taluni parlano di «cavallo di Troia») è quello del Politecnico: nell’ateneo milanese dove studiano in più di quarantamila fra aspiranti architetti, designer e ingegneri, da quest’anno quasi tutti i corsi di laurea specialistica hanno abbandonato l’italiano.

«Abbiamo capito che il futuro è lì, per questo abbiamo deciso di fare una scommessa: importare il loro esempio in una scuola superiore, per la prima volta pubblica e non privata».
Ho voluto citare lo stralcio della dichiarazione della Preside per mostrare come perfino capi d’Istituto di quella che fu la gloriosa fucina della «classe dirigente d’Italia» oggi in caduta verticale, il Liceo classico, quei dirigenti – dico –, forse spinti dal terrore di chiudere o di venire accorpati ad altro Istituto statale, non temano di lanciarsi in avventure neo-curricolari sguarniti di argomenti seri e fondati, sventolando formule augurali degne di un sensitivo o di un allibratore. E, naturalmente, facendosi scudo del ferreo Politecnico, che, si pensa, non prende decisioni a caso e, dunque, non fallirà il bersaglio.
A dire il vero, l’inglese vi domina nei corsi di laurea magistrale (e in minima parte triennale, ad Architettura). Ma ciò che conta è che un impianto didattico universitario indirizzato, per giunta di II livello, non è paragonabile a un curricolo liceale, di chiara e netta impronta culturale plurilingue e, soprattutto, ad ampio spettro.
L’esempio del Liceo milanese, caso inedito, estremo, dice bene tuttavia quale sia il pensiero che domina il concetto di apprendimento d’inglese. Siamo cioè al punto che non ne è più soltanto raccomandata la conoscenza e, magari, la compiuta padronanza del codice, ma che è in vigore una vera e propria sudditanza, il sentimento della quale è venuto crescendo come una moda serpeggiante. E, come tutte le mode, frutto di un oscuramento generale delle menti. Nella fattispecie, la moda ossessiva dell’inglese «veicolare». Quel che è peggio è che una moda che non incontra argini critici, anche in campo pedagogico, assurge fatalmente a norma. Tale è il caso del CLIL.
Ora, può esser sottile il confine che distingue il docente realista e costruttivo da quello rassegnato, arreso allo Zeitgeist, l’onnipotente spirito del tempo che impone o la sottomissione o l’emarginazione dalla vita pulsante. Per altro, la quota degli acritici è notevole e si vede anche di fronte all’altra novità che oggi s’impone: la programmazione e valutazione didattica «per competenze» onnicomprensiva, assorbita e rilanciata dalla «buona scuola» governativa.
In attesa di capire la piega normativa finale che il MIUR vorrà imprimere a tale metodica – per ora obbligata al Liceo linguistico e all’ultimo anno dei restanti Licei (à propos: perché cominciare dalla coda? Mah!) –, sono in tanti i docenti, divisi tra entusiasti e riluttanti, che, per Istituti o per reti, si son dati da fare a inventarsi soluzioni più o meno dignitose.
Ora, tralasciando gli esperimenti di dubbia utilità, macchinosi o senz’altro imbarazzanti (ve ne sono, ahimè), il meglio che ho osservato o quanto io stesso ho incoraggiato sono soluzioni didattiche semplici e ragionevoli, che si prefiggono di salvaguardare questi criteri:

  1. Circoscrivere il contenuto disciplinare interessato dall’integrazione CLIL a una misura limitata ma significativa;
  2. Assicurare che i temi prescelti siano – come si diceva – non eccentrici bensì coerenti con l’iter di sviluppo della programmazione – meglio ancora se quei temi servano al ripasso e alla ripresa dei concetti cardine del segmento disciplinare;
  3. Ricorrere a testi originali d’autore – storici, politici, scientifici, artistici… – che fungano da base di riferimento e di allargamento di concetti e nozioni già acquisiti;
  4. Impiegare materiali audio & video in originale, reperibili anche sulla rete: lectures, speeches, science tests, eccetera, quali occasioni di ripasso o di approfondimento.

Tutte proposte didattiche, in ogni caso, da farsi senza esasperare la conduzione simulata della lezione in L2; infine, sempre bilanciando l’esigenza di serietà e di qualità dell’offerta, di coerenza logica col disegno generale del corso impartito, di controllo effettivo del codice linguistico inglese nel docente impegnato, di accessibilità del tema e della sua presentazione alla classe destinataria.

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A cura di Maria Elisa Bergamaschini
(Membro della redazione della rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 58 di Emmeciquadro

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