Un corso di alto contenuto tecnico e modellistico, come è quello della Protezione Idraulica del Territorio può diventare un’esperienza di incontro della realtà?
L’autore mostra come ciò sia possibile attraverso un suo coinvolgimento personale, con esemplificazioni reali, guida gli studenti dall’osservazione di un fenomeno alla sua descrizione in termini fisico-matematici.
Ma l’osservazione «scientifica» dei fenomeni naturali va accompagnata da uno sguardo più ampio che ne faccia percepire la bellezza, rendendo anche l’intervento tecnico meno miope: allora diventa esemplare la proiezione di un video in cui la passione del direttore conduce l’orchestra da una prima esecuzione della Moldava impersonale e scialba, «a una partecipazione drammatica e bella».
Scrivo queste note per una richiesta fattami dall’amico Mario Gargantini, direttore di questa rivista. Penso che ciò che racconto sia patrimonio comune di chiunque si trovi impegnato in un’attività di insegnamento. Ciononostante, cedendo alla richiesta e confidando nella benevolenza di chi legge, provo a raccontare la mia esperienza.
Insegno Protezione Idraulica del Territorio nel Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio presso l’Università della Calabria. Il Corso ha come obiettivo quello di formare gli studenti all’analisi quantitativa dei fenomeni di alluvione e alla progettazione delle opere di difesa.
Quando ero più giovane, cercavo di insegnare queste cose nella maniera più oggettiva possibile. Ne è sempre venuto fuori un corso apprezzato dagli studenti per il rigore e la serietà dell’impostazione.
Il corso dà, infatti, gli strumenti matematici per simulare numericamente gli eventi alluvionali nelle diverse forme in cui possono generarsi e svilupparsi e tratta delle opere di difesa dalle alluvioni. Ma mi sono dovuto rendere conto che gli studenti, nello studio degli argomenti, tendevano a concentrarsi sulla parte modellistica, che andava così a prevaricare sulla conoscenza dei fenomeni che pur voleva descrivere. Nello stesso tempo non veniva acquisito uno sguardo globale.
Ho capito allora che il problema stava nel dare per scontata la conoscenza dei fenomeni che si chiedeva di studiare e simulare. D’altra parte avere esperienza diretta di un’alluvione, grazie a Dio, non è cosa frequente per gli studenti. Io per mestiere ne ho esperienza più diretta, con relativa documentazione, anche visiva.
Tuttavia oggi è molto facile accedere a documentazione visiva per il tramite di Internet, che dà la possibilità di guardare con grande dovizia di particolari gli eventi che vanno svolgendosi nelle varie aree del mondo. Ma queste opportunità sono «consumate» dalla superficialità con cui le si guarda. È così che, soprattutto negli ultimi anni, l’inizio del corso viene dedicato a guardare queste documentazioni.
In realtà, più che guardarle, a far vedere come io le guardo, perché l’attività non è il mero guardare, ma il cogliere i segni e questo richiede un impegno e un metodo che devono essere comunicati. Questa esigenza ha determinato la necessità che io mi mettessi al centro della scena per poter comunicare che lavoro faccio io nel guardare e nello sfidare gli studenti a fare lo stesso lavoro.
Il capovolgimento di un metodo: il coinvolgimento personale
Ciò ha comportato il capovolgimento del metodo che utilizzavo negli anni precedenti, che era un distillato della mia esperienza e dei miei studi che diventavano matematica, per rimettere al centro la realtà che desideriamo descrivere con la matematica.
Il punto di fatica di ciò consiste nel fatto che io caratterialmente tenderei a essere schivo e asettico e invece capisco che devo uscire allo scoperto se desidero che gli studenti accedano per il mio tramite alla realtà che vogliamo studiare e non la riducano ai modelli che vengono loro insegnati. Ma questa comunicazione non è possibile circoscriverla all’aspetto professionale.
Essa necessariamente tende a portarsi dietro l’aspetto umano, perché la comunicazione di quello che si è imparato dalla realtà si porta appresso la maniera con cui tu hai dovuto e voluto guardarla, che è fatta di un connubio piuttosto inestricabile di competenza e di umanità.
Dunque la parte iniziale del corso mi richiede questo coinvolgimento personale a mostrare come io guardo i fenomeni e come li descrivo. L’anno scorso poi è capitato che, durante lo svolgimento del corso, si sono verificati i noti fenomeni alluvionali nel Nord Italia (tra cui Genova e Parma).
Ho dunque invitato gli studenti a dividersi in gruppi di lavoro e ho chiesto a ciascun gruppo di analizzare la documentazione di Internet sui fatti accaduti per arrivare a comprendere la genesi, il decorso e gli effetti sul territorio di quegli eventi. Ne è venuto fuori un seminario tenuto dagli studenti in cui ho potuto riscontrare come essi avessero fatto propria la modalità con cui li avevo introdotti a guardare e ad analizzare la documentazione visiva e a cercare i dati quantitativi.
Il cuore del corso consiste nel passaggio dalla presentazione della fenomenologia oggetto di studio alla sua valutazione quantitativa. Perciò questa parte è dedicata a far vedere come la descrizione iniziale dei fenomeni la posso fare con un altro linguaggio, che è quello fisico-matematico.
Anche qui devo fare la fatica di mostrarmi e far vedere come faccio sorgere «dal vivo» questo tipo di descrizione quantitativa. Allora la lezione diventa lo svolgimento pubblico e ad alta voce di un ragionamento fatto tra me e me stesso a partire dai fondamenti della fisica (in particolare dell’idraulica) teso a trattenere del fenomeno gli aspetti essenziali e a costruirne «in diretta» la descrizione matematica, svolgendo alla lavagna tutto il processo come se lo stessi inventando per la prima volta. Infatti, chi mi ascolta può capire solo se io do ragione innanzitutto a me stesso e passo passo dei passaggi che faccio. Questo chiede continuamente la presenza di me a me stesso.
[A sinistra: Ferenc Fricsay (1914-1963)]
Gli studenti solitamente si entusiasmano di questa modalità, che tra l’altro consente loro di prendere gli appunti in modo esauriente. Ma questo li espone al rischio di assistere a uno spettacolo di spiegazione e salire così sulle mie spalle diventando passivi. Allora io mi fermo di botto a qualche punto cruciale e chiedo loro come secondo loro bisogna proseguire. L’irruzione di una domanda, che interrompe il filo del ragionamento, li disarciona e, pur mettendoli un po’ in imbarazzo, li costringe a seguirmi criticamente e in maniera tesa.
Ogni parte rilevante della teoria viene poi accompagnata da un’esercitazione che sia il giusto compromesso tra un non eccessivo appesantimento del lavoro, che deve essere commisurato all’entità dei crediti del corso, e l’applicazione a un caso reale, che possibilmente interessi un caso del territorio locale.
Il resto del corso va avanti con questa impostazione. Segue la parte più ingegneristica sulle opere di difesa. Qui la sollecitazione agli studenti è focalizzata ad avere una consapevolezza sia della finalità dell’opera nel suo complesso sia di tutti i suoi dettagli, perché ciascun dettaglio ha una precisa ragion d’essere di cui bisogna essere consapevoli.
L’attenzione non si ferma all’opera in sé, ma si spinge a considerare e, possibilmente, a quantificare quali possano essere gli effetti di quest’opera nell’intorno. Infatti, non si può limitare l’attenzione all’effetto diretto che io desidero si abbia sul fiume costruendo un’opera di difesa ma si deve anche essere consapevoli di come il fiume reagirà quando avrà subito una modifica da quell’opera realizzata.
Spesso gli effetti non sono solo nelle immediate vicinanze ma possono verificarsi anche a distanze rilevanti. Questo costringe a tener conto il più possibile di tutti i fattori in gioco e a non ridurre le opere a «pre-concetti», positivi o negativi che siano.
Entra in scena La Moldava di Smetana
Il corso dunque chiude così. Ma l’anno scorso avevo l’esigenza di far capire agli studenti che un fiume, per quanto ben descritto e sistemato dal punto di vista idraulico, non è riducibile al solo aspetto fisico, ma è una realtà fatta di natura, di cultura e di storia, trascurando le quali si rischia una gravissima menomazione dello sguardo, che può condurre a interventi tecnici miopi e ultimamente violenti.
Perciò ho invitato gli studenti a un ultimo appuntamento in cui ho proposto loro la visione del video, registrato nel giugno 1960, sulle prove per l’esecuzione del poema sinfonico La Moldava di Bedřich Smetana (1824-1884), da parte dell’Orchestra sinfonica della Radio di Stoccarda diretta da Ferenc Fricsay.
In quel video questo geniale direttore d’orchestra, gravemente malato, introduce i musicisti alla comprensione profonda della descrizione del grande fiume e della vita che vi si svolge intorno, dalla vivacità del primo sprizzo sorgivo, passando per le campagne che riecheggiano la vita dei contadini, fino all’ingresso solenne in città e all’incontro finale con il grande mare.
[A destra: Bedřich Smetana (1824-1884)]
Lì si vede come l’umanità del direttore e la sua passione comunicativa pian piano scaldano l’orchestra introducendola, da una piatta esecuzione, a una partecipazione drammatica e bella.
Ho introdotto il video dicendo loro pressappoco che nel nostro corso avevamo prima osservato i fiumi e descritto i fenomeni con linguaggio naturale. Poi quegli stessi fenomeni avevamo imparato a descriverli in linguaggio fisico-matematico. Adesso proponevo loro un altro tipo di descrizione di un fiume: quello musicale.
Alla fine della proiezione, che si chiude con la memorabile esecuzione dell’orchestra, ho spiegato il motivo della proposta e ho consegnato agli studenti un foglio contenente il calendario degli appelli per tutto l’anno accademico.
Sul retro del foglio avevo sintetizzato il motivo della proposta del video con queste parole: «C’è una miopia grave nel trattare le cose idrauliche. C’è una miopia grave nel trattare la realtà (scontatezza, presunzione – si pretende di ridurre tutto alla mia misura o al mio tornaconto – , non ci si accorge più della bellezza e dell’ordine di cui è fatta la realtà). Ho voluto oggi darvi un esempio di come si può guardare un fiume. Nel Corso noi abbiamo descritto i fiumi con linguaggio fisico-matematico. Il grande musicista Smetana ha descritto il grande fiume, la Moldava, in linguaggio musicale.
La cosa stupefacente che abbiamo visto oggi è non solo la bellissima musica di Smetana, che rivela la genialità dell’autore, ma anche la profondissima capacità di lettura di questo poema sinfonico da parte dell’altrettanto geniale direttore di orchestra Ferenc Fricsay e la differenza di potenziale che si genera tra lui e la sua orchestra.
All’inizio delle prove questa sembra suonare ottusamente ma, seguendo la profondità di sguardo del suo direttore, riesce a rendersi conto e a esprimere, comprendendoli, tutti gli aspetti della descrizione della corrente del fiume lungo il suo corso e della vita e della storia che si svolgono lungo le sue rive. Così noi, se non diventiamo capaci di cogliere dei fiumi tutti i connotati (non solo quelli idraulici, ma quelli naturali, storici e culturali) finiremo per fare male anche la difesa dalle alluvioni.
Questa interezza di sguardo non vale solo per i fiumi, ma oggi è diventata urgente per tutti gli aspetti della vita.
Auguro a me e a voi di avere questo sguardo più profondo sulla realtà che, prima e ancora più che renderci più competenti, ci rende la vita più bella e più intensa, come la testimonianza di quel direttore di orchestra, pur gravemente malato, ci ha mostrato oggi».
Alla fine di quell’ultimo incontro ho notato che gli occhi di uno studente brillavano. E questo non c’è modello matematico che lo possa prevedere o descrivere.
Vai all’articolo in formato PDF
Francesco Macchione
(Università della Calabria, Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio e Ingegneria Chimica, LAMPIT – Laboratorio di Modellistica Numerica per la Protezione Idraulica del Territorio)
© Pubblicato sul n° 58 di Emmeciquadro