Di fronte alla presenza spesso invadente delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, ci sono due atteggiamenti estremi: il loro uso acritico e il loro rifiuto. Entrambe le posizioni sono da rifiutare, occorre qualcosa di intermedio.
Questo articolo parte dalla constatazione che le nuove tecnologie sono già presenti nella società e nella scuola, e che quindi il vero problema è quello di raccogliere la sfida educativa del loro uso.
L’autore espone tre criteri di approccio, si confronta con i recenti studi internazionali in proposito, e infine formula alcuni suggerimenti operativi.
In queste pagine vorrei provare a tracciare alcune linee che possono aiutare a sviluppare attività educative che mettano a tema e integrino in maniera efficace e sana le tecnologie digitali. L’intento è quello di fornire un iniziale strumento per rispondere positivamente e costruttivamente all’invasione digitale che caratterizza l’esperienza delle nuove generazioni ormai a partire dalla scuola elementare.
A partire dagli anni 2000 abbiamo assistito a più momenti di evangelismo tecnologico, cioè alla predicazione istituzionale secondo la quale internet e le tecnologie avrebbero rivoluzionato e migliorato la scuola, tanto nei Paesi sviluppati quanto in quelli emergenti o in via di sviluppo.
È facile constatare che questa promessa non si è compiuta, e questo ha lasciato spazio a una visione distopica, secondo la quale le tecnologie sono state un investimento sbagliato, e stanno in realtà rovinando le capacità sociali e cognitive delle nuove generazioni, e togliendo spazio alle attività di vero apprendimento, in una sorta di pessimismo pedagogico [Pedrò, 2011; Cantoni, Botturi, Succi et Al., 2007]. Queste affermazioni sono rafforzate dalle molte brutte storie che troviamo nella cronaca e che raccontano di nuove forme di dipendenza, di abusi e di violenza che sfruttano proprio le tecnologie digitali.
Dobbiamo bandire le tecnologie e fissare una soglia di maggiore età tecnologica? O dobbiamo piuttosto assumerle pienamente, perché solo un uso diffuso e integrale può portare allo sviluppo di pratiche sicure e utili? Tra i due estremi è facile identificare una moltitudine di posizioni intermedie e di possibili varianti pratiche – tanto più che la sempre più rapida e magmatica evoluzione tecnologica fa sì che quello che oggi possiamo immaginare sarà reso in pochi mesi obsoleto dall’arrivo sul mercato (e nelle classi scolastiche) della nuova generazione di dispositivi elettronici. Per addentrarci in questo tema senza appiattirsi su aneddoti e facili prese di posizione «da bar», credo sia utile innanzitutto stabilire tre criteri di approccio al problema, e in seguito riflettere su alcuni dati offerti da recenti ricerche per trarre alcuni spunti di lavoro.
Tre criteri di approccio
Il digitale non è virtuale
Una delle parole che più ci ha resi miopi davanti ai fenomeni della tecnologia digitale è stata realtà virtuale. Il termine ha un significato tecnico preciso, ma nel parlare comune viene usata per dire che i «giochini» o «quello che c’è su internet» non è vero, ma, appunto, virtuale – quasi a negare piena cittadinanza al mondo digitale nella nostra esperienza reale.
Questo è quantomeno fuorviante: troviamo informazioni in rete secondo modalità diverse dalla ricezione tramite altre persone, ma sono pur sempre informazioni (dalla meteo alla borsa allo shopping) in base alle quali prendiamo concretissime decisioni; le amicizie in rete sono diverse da quelle faccia a faccia, ma sono sempre relazioni con altre persone; i videogiochi rappresentano mondi immaginari, ma offrono esperienze ludiche reali; i meccanismi di creazione della fiducia sono diversi in rete, ma la fiducia che generano ci porta a fare scelte e compiere azioni del tutto vere. In altre parole, il mondo digitale offre una diversa modalità di esperienza, ma è a tutti gli effetti parte della nostra vita [Turkle, 2012].
I programmi scolastici considerano solo marginalmente tecnica e tecnologia come oggetto di sapere. Questo vale anche con le tecnologie analogiche, lasciate ai «vili meccanici»: il motore a scoppio, la produzione e la distribuzione dell’energia, i depuratori delle acque, ma anche il frigorifero e la lavastoviglie, o i lampadari di casa.
A differenza però della larga parte delle tecnologie analogiche, quelle digitali giocano un ruolo particolare nella nostra società: oltre ad essere pervasive e distribuite capillarmente nelle tasche di ognuno, reti e computer danno forma alle comunicazioni, determinano nella pratica la visibilità e la rilevanza sociale delle informazioni, e condizionano la cultura a tutti i livelli [Rivoltella, 2015].
Possiamo davvero pensare che uno studente al termine della sua carriera scolastica possa ignorare il funzionamento base dello smartphone che ha in tasca sempre, che usa 6-8 ore al giorno e che userà anche per lavoro? O che ignori il funzionamento tecnico ed economico di Google, che è la sua principale fonte di informazione?
Quando chiedo a ragazzi di scuola media e di liceo «che cosa è internet? », spesso la risposta è un vago gesto, simile a quello di uno sciamano che indichi la presenza di un invisibile ma potente spirito. Mettere a tema le tecnologie a scuola significa innanzitutto capirle tecnicamente, cioè capire «di che cosa si tratta»: è quanto sui recenti programmi si identifica come pensiero informatico, cioè lo sviluppo dei concetti fondamentali relativi alla rappresentazione digitale delle informazioni, alla programmazione, alla struttura delle reti informatiche.
Questo filone puramente tecnico acquisisce senso se approfondito nella sua dimensione storica (che descrive il percorso di sviluppo delle tecnologie nella storia degli uomini, in relazione con le guerre, le sfide della globalizzazione, le innovazioni in ambito scientifico, eccetera), economica (la ridefinizione continua dei mercati che le tecnologie operano, dalla borsa ai flussi commerciali), ed etica (le tecnologie e i nostri comportamenti individuali e collettivi in relazione al bene e ai valori condivisi).
L’approccio alle tecnologie come oggetto di studio offre anche occasioni interessanti di approfondimento filosofico, sia in chiave antropologica che epistemologica: internet sta sicuramente portando a una ridefinizione del concetto stesso di «sapere», così come la metafora computazionale ha colonizzato la comprensione contemporanea della mente umana nelle scienze sociali nei decenni scorsi.
Questo tipo di lavoro, fortemente in dialogo con le discipline umanistiche e la storia del pensiero, è quello che troviamo sotto il termine – spesso appiattito a «competenza» – delle literacies cioè le competenze base («alfabetizzazione») di comprensione e uso delle tecnologie: digital literacy, information literacy, media literacy [Koltay, 2011; UNESCO, n.d.].
l primo criterio ci richiama dunque a prendere atto dell’impatto reale, a livello di esperienza non solo individuale ma anche sociale e culturale, della dimensione tecnologica, e ci invita a farne un oggetto di sapere.
Nuove tecnologie portano nuovi linguaggi
Se il primo criterio ha messo in luce le tecnologie come oggetto di conoscenza, il secondo mette a tema le tecnologie come strumento di apprendimento e di insegnamento. Questo è forse il mantra più propugnato nei programmi scolastici e nelle dichiarazioni dei politici tecnoevangelisti che si occupano di scuola, fino a essere sentito come ingerenza da parte dei docenti e anche come indebita e improvvida messa in discussione della centralità dei contenuti dell’apprendimento, nell’illusione che una tecnologia possa rendere facile, o divertente, l’apprendimento e più efficace l’insegnamento. La sensazione è più che giustificata e – come mostrano i dati che commenterò più avanti – sostanzialmente suffragata dai fatti. Questo punto merita tuttavia un minimo di riflessione.
Le tecnologie digitali legate alla rete si distinguono da altre tecnologie come i motori, gli acceleratori di particelle o i sistemi di produzione dell’energia perché possono essere annoverate tra quelle che nel 1982 Walter Ong (1912-2003) definì tecnologie della parola.
Per questo un romanzo è un romanzo e un film è un film: il primo non esisterebbe senza la tecnologia del libro, così il secondo senza la tecnologia cinematografica. Le tecnologie digitali stanno oggi definendo linguaggi loro propri, legati al web, ma anche al video, alla multimedialità e ai videogiochi.
Come docenti, sappiamo anche che ogni linguaggio è strumento di conoscenza, via verso una comprensione della realtà. Questo vale anche per le tecnologie digitali: i loro linguaggi possono essere chiavi di esplorazione e conoscenza del sapere. In questo senso possono quindi essere strumenti utili per fare didattica, cioè per accompagnare chi apprende nel cammino della conoscenza. Presa seriamente, l’istanza di integrazione delle tecnologie nella didattica non si risolve nel tentativo di dinamizzare le lezioni con intrattenimenti tecnologici, quando di appropriarsi dei linguaggi dei media come strumento di conoscenza.
Storicamente, e per validi motivi, la scuola è piuttosto refrattaria ai linguaggi non verbali. Raramente viene usato il disegno come linguaggio di sintesi o di rappresentazione del sapere, anche se tanto la storia dell’arte quanto l’infografica moderna ci insegnano che questo è possibile in molti modi.
Il video – il linguaggio oggi più diffuso, più prossimo e più denso di significati per gli adolescenti – raramente viene analizzato nella sua grammatica, così come si fa per la lingua scritta; eppure oggi è semplice creare sequenze video e imparare a balbettare qualche piccola «frase visiva» significativa.
Sarebbe un esercizio utile, perché mentre da un lato apre nuovi canali espressivi, dall’altro rende consapevoli del funzionamento dei linguaggi cinematografici e televisivi: il primo passo per un fruizione critica (sono molti i riferimenti in proposito: un testo classico è Mastermann, 1997; più recentemente, Zanardo, 2015).
Non c’è qui il tempo di analizzare le caratteristiche dei molteplici linguaggi del mondo digitale. Limitando il campo alle informazioni in rete (e quindi escludendo per esempio le evoluzioni del linguaggio visivo e cinematografico e l’universo dei videogiochi e delle interfacce), forse la caratteristica più evidente è la brevità dei singoli elementi comunicativi, che però vivono in una dimensione intertestuale e intermediale fortissima e ricchissima, e in una sfera temporale accelerata e senza oblio.
Credo che anche solo questi elementi rendano evidente il livello di sfida legato al guidare i giovani in questi nuovi linguaggi.
Non integrare le tecnologie nell’insegnamento perché «tolgono il rapporto docente-allievo» può essere una valutazione aprioristica e ideologica tanto quanto i programmi che spingono per la digitalizzazione della scuola.
In fondo, si tratta di due posizioni spicce e non critiche, che rischiano di non considerare il vero punto della questione: viviamo in un’epoca in cui vengono forgiati nuovi linguaggi che si diffondono con rapidità impressionante. Non considerarli, non comprenderne le grammatiche, significa perdere delle opportunità, o scivolare inconsapevolmente nelle trappole che ogni media porta con sé – da Madame Bovary fino a Facebook.
Quanto delineato è il cuore della cosiddetta didattica digitale, cioè quell’insieme di pratiche che sfrutta la comunicazione a distanza, l’ipertestualità, la multimedialità, la condivisione, la collaborazione e l’accesso illimitato alle informazioni come risorsa per l’insegnamento e l’apprendimento.
Il secondo criterio invita a raccogliere fino in fondo la sfida delle tecnologie digitali, che diventano strumenti utili per insegnare e imparare nella misura in cui assumiamo criticamente e creativamente i linguaggi che portano.
Ogni pratica tecnologica ha una dimensione etica
Come ultimo punto non è possibile non discutere dei rischi legati alle tecnologie digitali. Si tratta qui della preoccupazione principale dei genitori, che pure regalano smartphones con accesso internet illimitato ai loro figli preadolescenti; ma anche delle situazioni critiche che si affrontano (o si ignorano consapevolmente) in molte scuole, confrontate con episodi di cyberbullismo, di diffusione di pornografia spinta, con reati legati al sexting, o con i più sottili e letali tentacoli della dipendenza.
È la prima volta nella storia in cui lo scenario tecnologico e mediatico muta tanto rapidamente che il divario tra genitori e figli è pressoché completo: la dieta mediatica dei figli è oggi completamente diversa da quella dei genitori – mentre per la generazione prima la differenza era solo parziale.
Le tecnologie sono inoltre uno status symbol, un oggetto di desiderio, e la pressione del gruppo dei pari per l’adozione di pratiche digitali è talmente forte che difficilmente i giovani (ma anche gli adulti) riescono a resistere, anche quando sanno che stanno assumendo comportamenti a rischio.
Si tratta di caratteristiche negative endemiche dei media digitali o di malattie infantili? È possibile pensare a un uso sano di questi strumenti? Sicuramente si, così come possiamo immaginare un uso sano della televisione e della stampa, mentre possiamo immaginare un uso patologico del libro o del telefono analogico. C’è però un pezzo di strada da percorrere.
La diffusione di ogni strumento di comunicazione è stata accompagnata dallo sviluppo di pratiche di accettazione sociale (Marvin, 1994). Il telefono, per esempio, è passato da modalità pubblica di comunicazione (il telefono in salotto, cui rispondeva sempre il maggiordomo) a modalità privata (la chat notturna su cellulare da sotto le coperte).
I genitori sanno che non fa male guardare la televisione in sé, ma guardarne troppa, o che guardare programmi non adatti all’età può arrecar danno. Lo sanno perché, col tempo, abbiamo sviluppato delle pratiche che rendono sostenibile l’uso delle tecnologie – un equivalente del codice stradale, anche se non è normato giuridicamente – che ci permettono di trarne il bene evitandone in larga parte i rischi. Gli adulti di oggi sanno che non si legge il giornale mentre si riceve un ospite o a cena, eppure, molto spesso, con gli SMS ci comportiamo diversamente.
La grande difficoltà in cui ci troviamo è che, con le tecnologie digitali, non abbiamo avuto il tempo di sviluppare queste pratiche, cioè di capire, provare, sbagliare e quindi decidere. Ma chi ha il compito di trovare pratiche sane e sostenibili per l’uso dei media digitali? Non possiamo aspettarci che sia il mercato, né che sia la tecnologia stessa. Sappiamo anche che i comportamenti etici si apprendono tramite modelli, cioè guardando a persone stimate, e non tramite regole.
I giovani chiamano qui in causa gli adulti, innanzitutto in famiglia, per capire – o meglio per «spiare» – come comportarsi. Come tutti gli adolescenti cercano dei confini per travalicarli ma, se non siamo in grado di tracciarli, non sapranno che direzione prendere e dove tornare quando ne avranno voglia e necessità.
Il terzo criterio ci richiama dunque a considerare che ogni strumento diventa ciò che è anche in base all’uso che se ne fa, che non è mai completamente determinato dallo strumento stesso e che si stabilizza nel tempo. Ne consegue l’importanza di sviluppare degli esempi di uso buono delle tecnologie, e di comunicarli tramite il nostro esempio.
Alcuni fatti importanti
Fin qui ho delineato tre criteri che ritengo fondamentali per qualsiasi approccio educativo e didattico alle tecnologie digitali, in ambito scolastico ma non solo. Prima di fornire anche indicazioni operative, ritengo opportuno confrontarsi con dati recenti sull’uso e l’impatto delle tecnologie digitali sui comportamenti giovanili e in particolare sull’apprendimento.
Diversi studi recenti, infatti, fanno emergere elementi che in parte contraddicono alcune diffuse aspettative. Nei paragrafi che seguono mi riferirò in particolare a tre studi.
Lo studio dell’OCSE Students, Computers and Learning. Making the Connection (2015), che incrocia dati sull’uso del computer a casa e a scuola con i dati del rilevamento PISA 2009 e 2012. I dati si riferiscono quindi alla popolazione PISA, cioè ai quindicenni.
Lo studio JAMES, condotto in Svizzera dalla Zürcher Hochschule für Angewandte Wissenschaften (ZHAW) nel 2014 e finanziato da Swisscom, che analizza uso e comportamento mediatico dei giovani tra i 12 e i 19 anni.
Lo studio MIKE, condotto sempre in Svizzera dalla Zürcher Hochschule für Angewandte Wissenschaften (ZHAW) nel 2015 e finanziato dalla Fondazione Jacobs, che descrive l’uso del tempo libero con e senza strumenti digitali per i bambini dai 6 ai 13 anni, e che ha raccolto dati anche presso i genitori.
La situazione Svizzera può essere considerata allineata con quella dell’Europa occidentale, e in particolare non si discosta in maniera significativa da quella Italiana. I dati OCSE mostrano invece come la situazione in altri continenti (in particolare in Asia orientale e in America Latina) abbia caratteristiche differenti.
Questo rilievo, che si applica in parte anche agli Stati Uniti, dovrebbe portare a valutare con attenzione le notizie che giungono da queste zone, e che spesso i media passano come applicabili tout-court anche alle nostre latitudini.
Quando si inizia?
Lo studio OCSE rileva che il primo uso di dispositivi digitali si colloca tra i 6 e i 9 anni, mentre il primo accesso a internet avviene prevalentemente tra i 9 e i 12 anni.
Qual è l’effetto? I dati dello studio MIKE mostrano che proprio il fatto che i bambini piccoli usino già i computer spinge i genitori a farlo insieme a loro: un dodicenne si crea da zero la sua esperienza digitale, un bambino di terza elementare invece chiede, e trova più facilmente genitori attenti e anche preoccupati. Le prime esperienze del mondo digitale sono dunque meno solitarie, più accompagnate e sorvegliate.
Paradossalmente, questo porta due novità: i piccoli non pensano più il digitale come fatto privato o comunque esterno al nucleo familiare; si creano situazioni in cui i giovani possono assorbire modelli positivi di uso dei media digitali degli adulti. Se ne vedranno gli effetti tra qualche anno, quando potremo confrontare gli adolescenti di oggi con quelli che si muoveranno nel mondo digitale tra 5 o 10 anni.
Quanto si usano?
Mediamente gli adolescenti passano online o davanti agli schermi circa 2 ore al giorno, con punte che arrivano anche oltre le 6 ore al giorno. Gli studi JAMES e MIKE mostrano che l’utilizzo mediale aumenta con l’età, ma mostrano anche che anche per gli adolescenti i passatempi digitali (in particolare l’uso dello smartphone e di Internet come fonte di informazioni e di video) si sviluppano dentro un’esperienza che include anche incontri con gli amici, sport, libri e musica.
Questi dati pongono il tema dell’educazione ai media non tanto come limitazione di una pratica in quanto tale, ma piuttosto come una ricerca di equilibrio tra i vari aspetti del tempo libero. Inoltre, anche le attività «non mediali» hanno relazioni con il mondo digitale: WhatsApp, per esempio, è un fantastico strumento per organizzare incontri e attività con gli amici, così come ascoltare musica oggi – anche se stiamo parlando di Bach o Piazzolla – significa usare iTunes o Spotify.
Più che lo schermo o la tecnologia, si tratta allora di mettere a tema l’amicizia e la musica, in modo che lo strumento diventi tale, passando in secondo piano rispetto al cuore di ciò che facciamo.
Che impatto hanno?
Lo studio OCSE incrocia i dati di uso dei media con i risultati degli studi PISA 2009 e 2012. Si possono portare molte critiche alla validità dei dati PISA nel rappresentare in tutta la loro ampiezza e complessità le competenze sviluppate a scuola – tuttavia sono uno dei pochi strumenti che ci permettono di misurare e quindi di confrontare le performances su tali competenze. Ai fini di questo articolo, il lavoro di correlazione presentato nel rapporto offre utilissime piste di lavoro.
Innanzitutto, lo studio OCSE indica molto chiaramente che esiste una soglia sopra la quale l’uso dei media digitali diventa semplicemente eccessivo e quindi dannoso. Gli studenti che sono connessi più di sei ore al giorno indicano più frequentemente di sentirsi soli a scuola, più spesso arrivano in ritardo a lezione e non studiano. È però significativo che, soprattutto nei paesi Europei, dati simili si riscontrino anche per i pochi studenti che non usano mai o quasi mai i media digitali: se è possibile identificare un uso eccessivo, è possibile anche attribuire ai media digitali una non irrilevante funzione di socializzazione e integrazione tra i pari.
Lo studio OCSE cerca poi una relazione tra l’uso delle tecnologie digitali e le competenze base in matematica (soluzione di problemi) e in lettura (comprensione di testi brevi nella lingua madre). Con questo obiettivo, lo studio PISA 2012 ha proposto ai quindicenni partecipanti due tipi di esercizi: i primi su carta, i secondi su schermo.
Gli esercizi su schermo presentavano caratteristiche che li rendevano possibili unicamente in versione digitale: gli esercizi di lettura richiedevano per esempio di navigare seguendo diversi link e di integrare diverse fonti di informazione; gli esercizi di matematica richiedevano manipolazioni di figure geometriche con piccole applicazioni interattive.
I risultati sono molto interessanti: i dati mostrano molto chiaramente che gli studenti che usano i media digitali poco sotto la media OCSE (quindi hanno un uso medio giornaliero attorno a 1h e 30’) hanno i risultati migliori. Quelli che li usano meno o di più hanno risultati peggiori. Inoltre esiste una relazione diretta tra competenze su carta e digitali: gli studenti che hanno buoni risultati negli esercizi su carta, li hanno anche in quelli su schermo; viceversa, chi non se la cava bene su carta fa fatica anche su schermo.
I ricercatori dell’OCSE applicano poi una regressione statistica per identificare quali fattori influenzino le competenze di lettura online. L’esito è univoco: l’80% della performance in lettura online dipende dalle competenze di lettura su carta, e solo il 15% dipende dal saper navigare, cioè dal saper scegliere dove cliccare, integrare diverse fonti, gestire gli ipertesti (il restante 5% dipende da altri fattori).
Questa conclusione è ancora più significativa perché viene dall’OCSE, un ente che negli ultimi lustri ha spinto fortemente per la diffusione delle tecnologie digitali nell’educazione (e continua a farlo, a ragion veduta, perché lo studio mostra anche come la diffusione delle tecnologie e delle competenze digitali aiuti a ridurre le diseguaglianze sociali).
Per usare le parole del rapporto OCSE: «One interpretation of all this is that building deep, conceptual understanding and higher-order thinking requires intensive teacher-student interactions, and technology sometimes distracts from this valuable human engagement».
Per chi insegna, forse, questa conclusione suona più familiare: ci richiama all’importanza di far crescere delle «teste ben fatte», per dirla secondo la felice immagine di Edgar Morin [E.Morin, 2000], che sapranno poi, con un piccolo investimento, imparare a integrare il mondo digitale nella loro esperienza senza esserne fagocitati.
Priorità al sapere e alle competenze di base, dunque, ma non come scusa per chiamarsi fuori dalla sfida: come abbiamo visto, le tecnologie sono parte del mondo, e possono anche essere strumenti utili proprio per formare «teste ben fatte» per il nostro mondo.
Da chi si impara?
«As these results show, the connections among students, computers and learning are neither simple nor hard-wired». È una delle conclusioni finali del rapporto OCSE – che è un altro modo per dire che non basta avere le tecnologie, e nemmeno saperle usare. Perché possano portare beneficio all’apprendimento, e perché possano poi diventare strumenti utili per adulti consapevoli, servono docenti che le sappiano integrare significativamente e autorevolmente in un percorso di conoscenza.
Per questo trovo allarmante un ultimo dato, che viene dallo studio internazionale ICILS [IEA, 2015], che ha chiesto ai partecipanti (lo stesso campione di PISA e dello studio OCSE) di indicare con chi usano le tecnologie e a chi si rivolgono quando hanno problemi tecnici o quando incontrano situazioni critiche o difficili, incluso casi di cyberbullismo, adescamenti o contenuti inappropriati. Vengono citati gli amici, i genitori, internet stesso come fonte di informazioni, ma il dato significativo, e con il quale bisogna fare i conti, è che i docenti e la scuola vengono citati con frequenze irrisorie.
La scuola e i docenti non sono, oggi, un riferimento per i giovani sui temi legati alle tecnologie, non sono percepiti come un mediatore che aiuti a collegare positivamente l’esperienza digitale con la vita e la conoscenza.
Alcune implicazioni
Il rapporto OCSE è stato scritto per chi si occupa di politica educativa, e dice chiaramente che fornire strumenti tecnologici alle scuole è solo il primo passo verso un miglioramento e una democratizzazione reale dell’educazione. Il punto di leva per il cambiamento sono i docenti, che fanno la differenza anche quando si tratta di mettere a frutto le potenzialità degli strumenti digitali (e anche di contenere i possibili rischi): «Technology can amplify great teaching but great technology cannot replace poor teaching». In un ambito che promuove l’autonomia, credo che questo messaggio possa essere rivolto anche ai dirigenti scolastici.
Ma quali sono le indicazioni del percorso svolto fin qui per i docenti? La storia delle riforme scolastiche in ambito tecnologico mostra che le iniziative dall’alto molto raramente hanno prodotto cambiamenti didattici duraturi in maniera efficiente.
Le situazioni nelle quali invece anche solo pochi docenti creativi hanno incontrato una dirigenza in grado di ascoltare e di aiutare a condividere sono quelle che hanno conosciuto evoluzioni positive.
I docenti lavorano con classi fatte di allievi particolari e non di tabelle ministeriali, e dominano contenuti e linguaggi delle loro discipline: sta innanzitutto a loro farsi avanti e trovare, magari con l’aiuto di esperti per gli aspetti tecnologici, piste valide e percorribili. Ecco, come conclusione, alcuni spunti operativi.
Scenario: la didattica normale
Lo scenario principale non è la lezione di informatica o di tecnologie: in fondo, sarebbe l’ennesimo contenitore cui demandare un ulteriore compito educativo, e il fatto che compaia o meno in griglia oraria dipende fattori istituzionali.
Penso sia saggio invece puntare sull’uso e la tematizzazione delle tecnologie nella didattica «normale». Un’analogia utile è l’apprendimento della lingua di scolarizzazione: viene messa a tema non solo durante l’ora di Italiano, ma anche quando scrivo le risposte di Scienze o faccio una presentazione di Storia.
Fare spazio ai temi tecnologici
Le tecnologie digitali sono entrate prepotentemente nell’esperienza nostra e degli allievi: oltre a usarle bene o male, è importante che impariamo a parlarne, cioè a fermarci ogni tanto per riflettere sugli strumenti che usiamo. Possiamo mostrare disappunto perché nelle ricerche consegnate dagli allievi, 25 su 28, sono copia-incolla da Wikipedia, ma questo resta un rimprovero moralistico poco utile se non sfruttiamo l’occasione per aiutare a capire cos’è Wikipedia (che non ha alcun analogo nel mondo delle enciclopedie classiche) e come funziona la selezione dei risultati su Google (che intreccia logiche sociali, contenutistiche e commerciali misurando oltre 200 fattori).
Potremmo addirittura spingerci oltre e mostrare tecniche di ricerca su web che non usano Google (noi docenti le usiamo?), oppure uscire dal mondo digitale per lavorare sui concetti chiave dell’information literacy, come l’autorialità (le informazioni su internet hanno autori?), l’aggiornamento (quando data il testo che trovo or ora su internet?), eccetera.
Conoscenza, regole, modelli
Lo spazio delle tecnologie in un contesto educativo si declina in almeno tre modalità distinte. In innanzitutto è uno spazio per aiutare a conoscere.
Analogamente, per proteggersi è utile avere un minimo di nozioni su come funziona la crittografia, cosi come per valutare i risultati di una ricerca su internet è fondamentale conoscere gli estremi degli algoritmi dei motori di ricerca.
Può essere utile dedicare delle ore di lavoro a questi temi, magari restando nelle discipline scolastiche: possiamo parlare delle immagini digitali in Educazione Artistica, della crittografia in Matematica, dei dati personali o dell’amicizia affrontando testi della letteratura italiana e straniera, eccetera.
Ma è sicuramente anche possibile proporre progetti speciali (alcune proposte si trovano per esempio sul sito Media e Scuola). Su questo fronte la scuola gioca in prima linea: se su altri aspetti educativi le famiglie sono chiamate a entrare in gioco, l’aspetto conoscitivo è di sua specifica competenza, forse anche attraverso un lavoro di aggiornamento e di collaborazione del corpo insegnante.
In seconda battura, dare delle regole. Internet ha oltre 3 miliardi di utenti, e con uno smartphone qualsiasi possiamo entrare in relazione con ognuno di loro e con tutti i contenuti che pubblicano. L’apprendimento delle tecnologie non può che essere graduale, seguendo il percorso di sviluppo di ognuno.
È importante allora dare delle regole di uso che mantengano l’esperienza entro confini gestibili, che possono essere estesi passo dopo passo, così come avviene per l’andare in giro da soli, per la guida, per l’uso di alcolici, eccetera. Non bisogna aver paura delle regole, anche se oggi non sono più di moda. Chi si occupa di prevenzione e dipendenze sa che i giovani, anche se non lo esprimono, sono grati di incontrare dei limiti – a volte anche solo perché li possono infrangere.
Il ruolo principale qui spetta alla famiglia, perché l’uso delle tecnologie avviene soprattutto nel tempo libero. La scuola però può aiutare i ragazzi a trovare le ragioni di quelle regole («aiutare a conoscere», appunto) e a rafforzarle proponendo regole analoghe in ambito scolastico, superando il semplicistico «divieto di usare i cellulari sul sedile scolastico». Un’azione efficace non può che passare da un coordinamento, se non da una vera e propria intesa, tra scuola e famiglie.
La terza declinazione è l’attenzione a proporre dei modelli. Le tecnologie sono strumenti il cui uso si impara guardando persone autorevoli: la conoscenza e le regole, pur necessarie, restano sterili senza qualcuno da guardare con stima (e sappiamo quanto questo sia valido, in realtà, per tutte le discipline). Traccio ancora una volta un paragone linguistico: sarà inutile fare un semestre di ripasso della grammatica italiana se poi l’espressione dei docenti, scritta e orale, non seguirà un registro opportuno o ammetterà usi impropri.
Che cosa significa, come docenti, offrire dei modelli di uso delle tecnologie a scuola? Innanzitutto usarle in prima persona, con il massimo grado di professionalità possibile, e riflettendo su quanto facciamo, in modo da saperne dare le ragioni. Significa anche moderare il proprio uso privato, attenendoci alle regole che proponiamo (riusciamo a non leggere i messaggi nell’intervallo? Evitiamo di pubblicare i nostri dati personali o fotografie che ledono il diritto all’immagine di altri?).
Abbiamo davanti giovani che sono spesso più tecnicamente competenti, se pur a un livello superficiale: mettiamoci in gioco, impariamo da loro, non abbiamo paura a entrare in discussione su ciò che è nuovo e che non conosciamo, perché questo aiuta tutti a capire meglio quali criteri adottare.
Comprendere per aiutare
Infine, di fronte a comportamenti potenzialmente a rischio, bisogna cercare di comprendere le scelte dei giovani. Come adulti con un’esperienza tecnologica decisamente più rarefatta, ci sembra facile etichettare come «sciocchezza» o «inconsapevolezza» certi comportamenti palesemente rischiosi o sbagliati.
Ma spesso non è cosi semplice – o meglio, non è semplice capire le ragioni di certe scelte se partiamo da un presupposto di stima dei ragazzi che abbiamo in classe. Le ragazze sanno molto bene che inviare la foto del proprio seno al moroso può scatenare situazioni devastanti – ma scelgono lo stesso di farlo. I videogiocatori incalliti sanno di perdere una buona parte della loro vita sociale nelle 6-8 ore che passano davanti allo schermo – ma scelgono di farlo.
Quando non si è in una situazione di dipendenza (nella quale la libertà di scelta è compromessa, e per la quale serve l’intervento di uno specialista), siamo chiamati a lavorare sulle ragioni, ma possiamo farlo solo se abbiamo ipotesi sulla ragionevolezza o meno delle scelte dei nostri allievi.
L’esperienza mostra che spesso queste situazioni sono più complesse di quanto possano apparire a un primo sguardo. Il lavoro di conoscenza e di applicazione e discussione delle regole può creare lo spazio condiviso e il linguaggio per affrontare questi temi e altre situazioni critiche. L’aver proposto dei modelli – accettati o respinti – ci renderà interlocutori possibili per questo dialogo.
Conclusione
La ricerca sulla formazione a distanza negli anni Novanta e Duemila ha messo in evidenza due elementi fondamentali.
Il secondo è che le tecnologie sono un catalizzatore: portano gli insegnanti che le usano a ripensare la propria didattica, a ridefinirsi come docenti, attraverso un processo che per sua natura porta a mettere a frutto l’esperienza e a migliorare [Holland, 2001].
Oggi la situazione è diversa: le tecnologie digitali sono già nelle nostre scuole e nelle tasche, nelle camere e nelle menti dei nostri allievi – non si tratta qui di una scelta. Non dobbiamo e non possiamo aspettarci che questa situazione porti una scuola migliore, ma sarebbe sbagliato perdere l’opportunità di fare un passo avanti, di ripensare il nostro insegnamento e sfruttare le opportunità che il mondo digitale comunque ci offre attraverso i nuovi linguaggi che rende possibili.
All’interno della scuola, il motore di innesco non sarà una riforma, ma il lavoro audace di insegnanti che vorranno raccogliere la sfida mantenendo il loro ruolo e il loro contatto con la propria disciplina.
Attraverso questo lavoro, per il quale spero di aver fornito qualche iniziale e ragionevole traccia, sapremo proporci come interlocutore autorevole e credibile.
Luca Botturi
(Docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana con sede a Locarno dove coordina le attività legate all’ambito Tecnologie e media ed è responsabile del Servizio Risorse didattiche, eventi e comunicazione)
Nota di redazione
Si vedano in questo numero della rivista anche gli articoli:
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M. Gargantini,
Indicazioni bibliografiche e sitografiche
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Botturi, L. (n.d.). Media e Scuola [Sito web di risorse didattiche].
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Cantoni, L., Botturi, L., Succi, C. & NewMinE Lab (2007). eLearning. Capire, progettare, comunicare. Milano: FrancoAngeli.
-
Holland, P.E. (2001). Professional Development in Technology: Catalyst for School Reform. Journal of Technology and Teacher Education, 9(2), 245-267. Norfolk, VA: Society for Information Technology & Teacher Education.
-
Koltay, T. (2011). The media and the literacies: media literacy, information literacy, digital literacy. Media Culture & Society, 33(2), 211-221.
-
Marvin, C. (1994). Quando le vecchie tecnologie erano nuove. Elettricità e comunicazione a fine Ottocento. Torino: UTET.
-
Masterman, L. (1997). A scuola di media. Editrice La Scuola, Brescia
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Morin, E. (2000) La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Cortina Editore, Milano
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Ong, W. J. (1982). Orality and Literacy. UK: Methuen & co.
-
Pedrò, F. (2011). Tecnologìa y escuela: lo que funciona y por qué. Madrid: Fundaciòn Santillana.
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© Pubblicato sul n° 59 di Emmeciquadro