Cent’anni fa moriva Alois Alzheimer, lo “scopritore” – grazie anche al ruolo determinante di Gaetano Perusini – della terribile malattia che porta il suo nome. Con lui compie un passo importante la ricerca delle basi neuropatologiche delle malattie mentali.
Nell’articolo viene evidenziato come la sua opera si inserisca in quel processo di rinnovamento della medicina, legato all’adozione del metodo sperimentale, che l’autore descrive in un breve excursus storico.
Anche i lavori di Alzheimer e Perusini sono inseriti nel percorso storico delle indagini sul cervello condotte tenendo conto della stretta connessione tra struttura anatomica e fisiologia. Un percorso che continua ancora oggi, nell’ambito delle neuroscienze, per una medicina che sostenga l’uomo e la sua salute.
Un’epidemia silenziosa ma crescente. Questa la drammatica realtà di una delle più gravi malattie del nuovo millennio, la demenza di Alzheimer. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che i 25 milioni e mezzo di malati registrati nel 2000 saliranno a 63 milioni nel 2030 sino a raggiungere i 114 milioni nel 2050.
Una progressione impressionante, soprattutto se si considera che al dramma personale di chi perde la memoria insieme alla propria identità, si deve aggiungere quello delle famiglie, la cui esistenza viene egualmente sconvolta dalle difficoltà di gestione e di convivenza con questi malati. È comprensibile quindi come scienziati e politici siano concordi nell’affermare che non è più procrastinabile l’inizio di una lotta mondiale alla demenza.
Una lotta in realtà esordita già a inizio Novecento, un periodo cruciale nella storia delle conoscenze sul cervello. Sono gli anni in cui le malattie nervose e la patologie mentali, le cui manifestazioni erano state differenziate nella seconda metà del secolo precedente nella loro patogenesi grazie al grande intuito clinico di Jean-Martin Charcot (1825-1893), sono indagate lungo due vie parallele seguendo un diverso approccio: organico e neuroanatomico da un lato, sulla scia della ricerca istologica di Camillo Golgi (1843-1926) e Santiago Ramon y Cajal (1852-1934); puramente psichico dall’altro, sotto l’influenza dell’emergente psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) e Carl Jung (1875-1961).
Questo percorso, che avrebbe portato in pieno Novecento alla separazione tra malattie neurologiche (organiche) e malattie psichiatriche (non organiche) conducendo poi, come ha sottolineato nel 2005 Oliver Sacks (1933-2015), a «una neurologia senza anima e una psichiatria senza corpo», creerà una divisione che solo in tempi recenti le neuroscienze tenteranno di superare nella ricerca di una difficile ma non impossibile ricomposizione.
Alzheimer e la ricerca delle basi neuropatologiche delle malattie mentali
Alois Alzheimer, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, fu uno dei pionieri del nuovo metodo anatomo-clinico.
Come «medico» è il prototipo del clinico che vuole essere anche scienziato incarnando l’ideale sperimentale della scienza.
Come «psichiatra» è il rappresentante dell’ideale neuropatologico della malattia mentale: la ricerca delle basi organiche della manifestazioni (normali e patologiche) del cervello e della psiche.
Alzheimer nasce a Marktbreit, nell’attuale Baviera, il 14 giugno 1864. Superato nel 1883 l’esame di maturità, s’immatricola l’anno successivo alla Facoltà di medicina di Berlino, trasferendosi poi a Würzburg dove si laurea nel 1887, a soli 23 anni.
Nel 1888 diventa medico assistente presso la Clinica psichiatrica Irrenanstadt di Francoforte sul Meno, diretta da Emil Sioli (1852-1922), il più famoso psichiatra di lingua tedesca dell’epoca.
Suo fidato collega e amico (sarà anche suo testimone di nozze) è Franz Nissl (1860-1919), ideatore di un originale metodo di colorazione istologica con l’anilina basica per evidenziare in blu le caratteristiche strutturali dei neuroni. Insieme iniziano un sistematico lavoro di ricerca delle cause organiche delle malattie mentali dei malati ricoverati e grazie a questa colorazione (ancora oggi nota come «metodo Nissl») pongono le basi per la nascita dell’indagine istopatologica della corteccia cerebrale.
Ne sono testimonianza le numerose pubblicazioni edite in questo periodo: Un criminale nato (1896), relativo a un disturbo mentale degenerativo ereditario; La diffusione anatomica dei processi degenerativi sulle paralisi e gli studi su alcuni casi di grave arteriosclerosi (1896); Contributi per l’anatomia patologica della corteccia cerebrale e per la base anatomica di una psicosi (1897); Studi istologici e istopatologici della corteccia cerebrale (1898).
Quest’ultima opera, scritta in collaborazione con Franz Nissl, contiene numerosi riferimenti alla demenza senile, un argomento al quale Alzheimer inizia a dedicare una crescente attenzione.
Il 1901 è per lui un anno decisivo. La morte della moglie lo induce a lasciare Francoforte e, dopo alcuni mesi di sbandamento, si trasferisce ad Heidelberg e poi a Monaco di Baviera, accogliendo l’invito di Emil Kraepelin (1856-1926), uno dei più eminenti psichiatri dell’epoca, che gli promette che presso la sua clinica avrebbe potuto avere a disposizione locali e mezzi per le sue ricerche di istopatologia cerebrale. Nominato Libero Docente nel 1904, due anni più tardi diventa primario dirigente nell’Istituto di Kraepelin.
Sono anni segnati da un forte impegno nella ricerca, anni in cui, anche in ambito sanitario, il romanticismo cede il passo al positivismo e si va completando quel processo di rinnovamento della medicina – da arte a scienza – iniziato tre secoli prima, con l’adozione del metodo sperimentale, che esige dati oggettivi, misurabili e quantificabili, non più solo impressioni soggettive.
Una storia che merita di essere ricordata, per comprendere la nascita delle moderne neuroscienze, di cui Alzheimer è uno degli indiscussi protagonisti.
La medicina come scienza
La moderna medicina occidentale (biomedicina) prende avvio nel momento in cui la medicina classica ippocratico-galenica, fondata sull’antica ars curandi (arte della cura), che identificava nello stretto rapporto umano tra medico e malato l’elemento fondamentale della prassi medica, incomincia a fondare il suo sapere sulle scienze fisico-matematiche prima, chimiche e biologiche poi, acquisendo gradualmente le basi scientifiche che ancor oggi sono poste a fondamento della pratica clinica.
Questo processo inizia nel Seicento, il secolo della fisica di Galileo Galilei (1564-1642) e di Isaac Newton (1643-1727), durante il quale la medicina si fa «statica» con Santorio Santorio (1561-1636), scopritore dell’equilibrio bilanciato tra ingesti ed escreti (De statica medicina, 1614), e «dinamica» con William Harvey (1578-1657), scopritore della circolazione del sangue e del ruolo della pompa cardiaca (De motu cordis et sanguinis in animalibus, 1628).
Continua poi con le osservazioni anatomo-fisiologiche riguardanti la macromacchina osteo-artro-muscolare (De motu animalium, 1680-81) ad opera di Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) e le micromacchine degli alveoli respiratori (De pulmonibus, 1661) e dei glomeruli renali (De viscerum structura, 1664) descritte da Marcello Malpighi (1628-1694).
A questo modello iatromeccanico si affianca anche un modello iatrochimico che attinge alla protochimica seicentesca i suoi principi ispiratori. Pur nella diversità interpretativa (l’uomo è una macchina per gli iatrofisici, è un alambicco per gli iatrochimici) ciò che accomuna questi due modelli è la medesima epistemologia particellare, la stessa filosofia atomistica.
Questo «atomismo teorico» dei minimi elementi fornisce a Robert Boyle (1627-1691) l’ispirazione che lo porta a definire il concetto di «elemento chimico» (The sceptical chemist, 1661), ponendo le basi della chimica moderna, mentre dà a Robert Hooke (1635-1703) le basi teoriche per inquadrare le osservazioni naturalistiche che gli consentono di arrivare alla prima descrizione di una «cellula» (Micrographia, 1665).
Nel Settecento la fisica e la chimica fecondano ancor di più il terreno della medicina. L’ambizione dei medici è quella di scoprire nel campo medico-biologico (come aveva fatto Newton in ambito fisico) «leggi universali» in grado di spiegare i meccanismi funzionali dell’organismo in condizioni sia fisiologiche che patologiche.
A questo obiettivo mirano le dimostrazioni delle proprietà della materia vivente operata da diversi medici-scienziati: Albrecht von Haller (1708-1777), che mette in luce la «sensibilità» o vis nervosa e la «irritabilità» o vis insita dei corpi, e Joseph Priestley (1733-1804), che contesta l’antica «teoria del flogisto», scoprendo l’«aria della vita» od ossigeno.
Anche il metodo anatomo-clinico elaborato da Giovanni Battista Morgagni (1682-1771) si basa sulla metodologia scientifica chimico-fisica. Mostrando che i sintomi della malattia sono espressioni di un’alterazione patologica degli organi interni (De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, 1761), egli stabilisce l’esistenza di un rapporto di causa-effetto tra modificazione morfologica e manifestazione morbosa identico a quello osservabile sperimentalmente nei fenomeni delle scienze fisiche e chimiche.
Questo livello si approfondisce sempre più sicché le modificazioni morfologiche all’origine delle manifestazioni patologiche vengono identificate con quelle dei tessuti (Traité des membranes, 1800) da Xavier Bichat (1771-1802) e poi con quelle evidenziabili all’interno delle cellule (Cellularpathologie, 1858) da Rudolph Virchow (1821-1902).
Nel primo Ottocento sul fertile tronco della romantica «filosofia della natura» nasce il ramo della biologia, battezzata nel 1802 da Gottfried Reinhold Treviranus (1776-1837) come «filosofia della natura vivente». L’incontro tra biologia e medicina è il più fecondo abbraccio tra «arte della cura» e «scienza», consacrando ulteriormente la dimensione culturale eurocentrica della biomedicina.
Claude Bernard (1813-1878), con l’introduzione del «metodo sperimentale», fornisce alla medicina le basi fisiopatologiche e fisiofarmacologiche che essa applica tuttora. Accanto ai criteri di qualificazione della malattia, che si ottiene attraverso il «criterio clinico» di osservazione del paziente, si aggiunge la necessità di una quantificazione della patologia, resa possibile grazie ad un crescente apparato tecnico-strumentale (stetoscopio, microscopio, termometro, sfigmomanometro), promuovendo la pericolosa illusione che la medicina si avvii a essere anch’essa una scienza esatta (o sempre più approssimata all’esattezza).
La già citata «patologia cellulare» di Rudolph Virchow, l’identificazione dei germi come agenti patogeni da parte di Robert Koch (1843-1910) e la «fotografia dell’invisibile» realizzata grazie all’uso dei raggi X scoperti da Wilhelm Konrad Röntgen (1845-1923) segnano in modo indelebile il percorso della biomedicina verso una propria dimensione sempre più scientifica.
Il Novecento si apre con la fiducia che la medicina, incorporando una sempre maggior dose di scienza (fisica, chimica, biologia), sia in grado di raggiungere uno statuto di massima scientificità e una messe sempre più cospicua di ricadute tecniche a vantaggio dell’uomo e della sua salute.
Questo «spirito positivo» guida la ricerca della «causa prima» di ogni malattia. Anche in campo psichiatrico.
Il caso di Augusta Deter
La ricerca anatomopatologica che Alzheimer applica con sistematicità nello studio dei casi clinici che giungono alla sua osservazione trova un punto di novità e di svolta l’8 aprile 1906, quando muore Augusta Deter, una paziente che era stata ricoverata il 26 novembre 1901, all’età di cinquant’anni, per disorientamento, perdita di memoria, allucinazioni e vistose ossessioni di gelosia.
[A sinistra: Augusta Deter]
L’autopsia evidenzia un’atrofia cerebrale uniforme e diffusa insieme a un reperto istologico peculiare di alterazione delle fibrille nervose. Un reperto atipico, insolito, che, unito alla storia della malattia, porta Alzheimer a ritenere di trovarsi di fronte a «un processo patologico particolare» che per le caratteristiche cliniche (l’esordio precoce: la paziente aveva iniziato a manifestare i primi sintomi prima dei cinquant’anni) e quelle istologiche (l’alterazione delle neurofibrille) non rientra nei quadri di demenza noti.
Ne è così convinto che ne fa oggetto di una comunicazione il 3 novembre 1906 a Tubinga durante la 37ma riunione degli psichiatri del Sud-Ovest della Germania. La relazione non desta particolare interesse e la sua convinzione che si tratti di un processo patologico particolare cade nell’indifferenza generale.
Ma Alzheimer è convinto del contrario e non si dà per vinto, affidando l’approfondimento istologico e lo studio di altri tre casi simili al medico italiano Gaetano Perusini (1879-1915), che insieme a Ugo Cerletti (1877-1963) e Francesco Bonfiglio (1893-1966), era da tempo a Monaco per specializzarsi e perfezionare gli studi sulle malattie mentali.
Il ruolo dell’italiano Gaetano Perusini
Gaetano Perusini nasce a Udine il 24 febbraio 1879 e si laurea in medicina a Roma nel 1901. E’ allievo di Giovanni Mingazzini (1859-1929) e di Ezio Sciamanna (1850-1905), frequenta diverse cliniche psichiatriche, diventa amico del compagno di studi Ugo Cerletti.
Nel manicomio della Lungara inizia la ricerca in anatomia patologica che approfondisce poi all’estero: dapprima frequentando il laboratorio di Hans Schmaus a Monaco di Baviera (1904 e 1905) e successivamente (tra il 1906 e il 1911) nel laboratorio di neuropatologia di Alois Alzheimer presso l’Istituto di psichiatria diretto da Emil von Kraepelin sempre a Monaco.
Nel 1911 si stabilisce a Roma senza però trovare «fissa occupazione» sino a quando diventa assistente all’ospedale psichiatrico di Mombello a Limbiate (Milano) nel 1913. Allo scoppio della guerra si arruola volontario e un crudele destino lo porta alla morte, a seguito di gravi ferite riportate nel conflitto bellico, l’8 dicembre 1915.
Il suo convincimento, come spiega in uno scritto del 1907, è quello di arrivare allo «studio completo del malato mentale, del suo sistema nervoso anzitutto ma non meno di tutti gli organi e sistemi del suo organismo. Solo così si potrà giungere a conoscere la base anatomopatologica delle psicosi […] Allora potremo curare i malati mentali quando sapremo quali e cosa siano le alterazioni dei tessuti che essi presentano».
La ricerca delle basi organiche delle manifestazioni neurologiche e psichiche è il punto d’arrivo del lungo processo di «scoperta del cervello».
Iniziato nell’antichità con Ippocrate (circa 460-377 a.C.) – che coglie in pieno la centralità dell’encefalo, identificando e descrivendo diverse funzioni cerebrali –, proseguito con la «rivoluzione anatomica» rinascimentale operata da Andrea Vesalio (1514-1564), con la dicotomia mente-cervello operata da Renato Cartesio (1596-1650) – che concepiva il cervello come un automa meccanico azionato da un’anima immateriale – e le successive revisioni settecentesche di Robert Whytt (1714-1766) e di Albrecht von Haller (1708-1777), il programma e le tecniche di scomposizione del cervello di questi studiosi s’erano rilevate inadeguate per comprendere esattamente la struttura e le funzioni encefaliche.
In un sistema come quello nervoso, nel quale – a differenza di altri – anatomia (struttura) e fisiologia (funzione) sono inscindibilmente collegate, solo uno studio neuroanatomico più accurato e sistematico avrebbe consentito di iniziare un cammino più fruttuoso nella direzione dell’indagine neurofisiologica.
Iniziatore di questo nuovo corso è Luigi Rolando (1773-1831), che nel suo Saggio sopra la vera struttura del cervello e sopra le funzioni del sistema nervoso (1809), dimostra come, dal punto di vista anatomico, le circonvoluzioni e i solchi cerebrali (tra cui l’universalmente nota scissura che porta il suo nome) si ripetono sistematicamente nel cervello dell’uomo e seguono uno schema ordinato e simile anche in varie specie animali. Lo studio dei solchi e dei giri – da lui suddivisi in frontali, parietali, temporali e occipitali – viene ulteriormente approfondito da Pierre Gratiolet (1815-1865).
Si deve invece a Franz Joseph Gall (1758-1828) e al suo allievo Johann Gaspar Spurzheim (1776-1832), lo sviluppo di una tendenza all’esasperazione anatomica nello studio del cervello che determina l’elaborazione di una particolare dottrina denominata «frenologia».
Sia pure nelle conclusioni sbagliate della visione frenologica del cervello, questa impostazione tendente all’identificazione di parti dell’encefalo come sede di particolari funzioni porta più tardi Theodor Fritsch (1838-1927) ed Eduard Hitzing (1838-1907) a compiere esperimenti sul cervello del cane che risultano fondamentali per elaborare l’esatta teoria delle localizzazioni cerebrali, suffragata anche delle osservazioni di David Ferrier (1843-1928).
Accanto a questo approccio riguardante la neuroanatomia macroscopica se ne andava sviluppando un altro parallelo inerente la neuroanatomia microscopica. Lo studio dell’istologia e dell’architettura cerebrale, pionieristicamente iniziato con lo studio della micromacchina encefalica effettuato da Marcello Malpighi (1628-1694), trova in Jan Evangelista Purkinje (1787-1869) e in Theodor Schwann (1810-1882) due validi protagonisti.
È però grazie all’uso della colorazione nera con nitrato d’argento messa a punto da Camillo Golgi che Santiago Ramon y Cajal riesce a identificare le cellule elementari componenti del cervello, i neuroni, intuendo correttamente, in opposizione alla teoria della rete diffusa sostenuta dal Golgi, che solo la teoria del neurone è in grado di spiegare il microfunzionamento dell’encefalo.
In questo filone s’inseriscono le ricerche con le nuove tecniche di colorazione di Franz Nissl con il blu di toluidina e di Max Bielschowsky (1869-1940) con l’argento ammoniacale che portano studiosi come Kraepelin, Alzheimer e lo stesso Perusini a far parte di quella schiera sempre più numerosa di scienziati che cercano «alla Virchow» le alterazioni strutturali nel cervello per spiegare le manifestazioni patologiche e psichiatriche.
In questa prospettiva si colloca la ricerca affidata da Alzheimer a Perusini, che egli pubblica (con il solo suo nome) nel 1909 intitolandola Sugli aspetti clinici e istologici di una particolare malattia psichica dell’età avanzata.
Si tratta, come osserva Bruno Lucci nel suo libro che rievoca la figura del medico udinese, di un poderoso lavoro di 56 pagine corredato da 7 figure istologiche, fotografie al microscopio e da 7 tavole litografiche a colori fuori testo che riproducono le lesioni cellulari più significative.
Insieme alla minuziosa descrizione dei sintomi clinici e del loro decorso, Perusini mette in evidenza, oltre all’atrofia cerebrale, gli elementi tipici del quadro microscopico: le alterazioni delle neurofibrille, la presenza delle placche e di un materiale ancora sconosciuto (amiloide) che amalgama le fibre delle cellule nervose.
Il quadro clinico e neuropatologico è univoco, anche se Perusini conclude prudentemente auspicando «future ricerche per definire più accuratamente con l’accumularsi dei casi il complesso sintomatologico di questa forma patologica e per determinare se esiste un rapporto eziologico con l’involuzione senile».
Lo strano destino dell’eponimo «malattia di Alzheimer»
Anche Alzheimer nutre ancora in proposito qualche perplessità, non sapendo se attribuire questi particolari segni istologici alla demenza senile già nota o ad una forma particolare «atipica», come puntualizza nel 1911, anno che precede quello in cui egli ottiene la cattedra di Psichiatria a Breslavia come meritato coronamento della carriera.
La morte, sopravvenuta il 19 dicembre 1915, gli impedisce di puntualizzare ulteriormente il problema, anche se la questione è già chiusa per Emil Kraepelin, che nell’ottava edizione del suo Compendio di psichiatria del 1910 attribuisce il nome di «malattia di Azheimer» a questa forma di demenza precoce.
Reperti delle alterazione della demenza di Alzheimer riportate da Kraepelin
In realtà la «demenza» (usando questo termine in senso generale, senza entrare nel merito di una nosografia eziopatogenetica più analitica) appariva come «malattia-cerniera» tra mente e cervello, funzionale quindi al «progetto neuropatologico» di quegli scienziati che cercavano le alterazioni organiche delle manifestazioni neuropsichiche.
Con estrema onestà intellettuale di entrambi, se da un lato Perusini riconosce che l’input alla ricerca anatomopatologica sul cervello dello strano caso clinico della signora Auguste Deter è stato avviato da Alzheimer, dall’altro proprio quest’ultimo prende atto che la dimostrazione delle alterazioni neuronali specifiche e singolari in quel cervello è stato merito dell’italiano. Ciò giustifica perché, per alcuni anni, questa forma di demenza fosse conosciuta – e ancora oggi dovrebbe essere chiamata – con l’eponimo di malattia di Alzheimer-Perusini.
Associare una patologia e un segno semeiotico al nome del suo «scopritore» (meglio sarebbe dire «descrittore») diventa un’abitudine consolidata e abituale in ambito clinico soprattutto durante l’Ottocento e nei primi decenni del Novecento.
È l’epoca degli eponimi – basti ricordare in ambito neurologico, solo per citarne alcuni, la malattia di Parkinson, la malattia di Gilles de la Tourette, la distrofia di Duchenne, la malattia di Charcot-Marie-Tooth o il segno di Babinski – durante la quale i «maestri» perpetuano in tal modo la loro «scuola» e lo spirito nazionalista s’impone per lasciare un’insegna indelebile nella memoria collettiva. Scienza e storia, coscienza e memoria s’intrecciano a più livelli per disegnare un’epistemologia che non è mai neutra.
Tale sembra anche lo strano destino dell’eponimo legato ad Alzheimer. In tutti i necrologi scritti per la scomparsa del medico tedesco non si fa alcun cenno alla malattia che da lui aveva preso il nome, «come se – scrive in proposito Cesare Catananti – iniziasse a calare una sorta di oblio su una “scoperta” in cui alla fine sembrava che, forse, nemmeno gli stessi protagonisti credessero più di tanto». Così nei decenni successivi di «malattia di Alzheimer» si parla sempre meno, al punto che nel 1926 alcuni psichiatri tedeschi arrivano al punto di dichiarare che il solo quadro istopatologico non consente di stabilire una diagnosi differenziale tra demenza senile e malattia di Alzheimer.
Così avviene sino a metà degli anni Settanta, quando la malattia di Alzheimer sembra essere improvvisamente riscoperta, sia per l’incremento epidemiologico dei casi dovuto all’aumento dell’aspettativa di vita (e quindi a un maggior numero di anziani), sia per l’opportunità di finalizzare produttivamente ricerca scientifica e investimenti su un unico «filone» (quello del deterioramento cognitivo) che iniziava a costituire una vera priorità di «politica sanitaria».
Una realtà drammaticamente attuale e un’emergenza crescente in un mondo che aspira a invecchiare, per quanto possibile, «in salute».
Vittorio A. Sironi
(Neurochirurgo e Storico della Medicina e della Sanità Direttore del Centro studi sulla storia del pensiero biomedico, Università degli studi di Milano Bicocca)
Indicazioni Bibliografiche
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M. Borri, Storia della malattia di Alzheimer, Il Mulino, Bologna 2012.
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C. Catananti, Alzheimer, lo scienziato che non si può dimenticare, in “Vita e Pensiero”, 5, 76-85, 2015.
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B. Lucci, La memoria ritrovata. Gaetano Perusini e Alois Alzheimer, SVSB, Padova-Trieste 2012.
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G. Perusini, Uber klinisch un histogisch eigenartige psichiche Erkrankungen des späteren Lebensalters, in “Histologische und histopatologischenArbeiten”, III, 297-352, 1909.
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V. A. Sironi (a cura di), La scoperta del cervello. Per una storia delle neuroscienze, G. B. Graphis, Bari 2009, pp. 5-17.
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V. A. Sironi, Gaetano Perusini: una storia personale e un’avventura scientifica, in B. Lucci, op. cit., pp. 97-106.
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P. J. Whitehouse, G. Daniel, Il mito dell’Alzheimer, Cairo, Milano 2011
© Pubblicato sul n° 59 di Emmeciquadro