L’articolo (di cui in questo numero pubblichiamo la prima parte), prende spunto dalla relazione tenuta dall’autore, noto soprattutto per le ricerche nel campo delle biotecnologie agroalimentari, durante l’annuale convegno dell’Associazione Universitas University svolto al CERN di Ginevra nel febbraio 2015, intorno al tema scienza e verità.
Di fronte a un tema tanto complesso, per contribuire al dibattito con riferimento agli aspetti biologici della persona conviene anzitutto prendere in considerazione le conoscenze scientifiche sul comportamento umano – tante e da ambiti disciplinari estremamente diversi, da quelle strettamente fisiologiche o biochimiche a quelle neurologiche e psicologiche.
Così si prepara il terreno per riflettere sulla conoscibilità del reale e sulla responsabilità dello scienziato nella ricerca e nella comunicazione.



È inevitabile che coloro che si dedicano alla scienza applichino anche a loro stessi quanto conoscono, specialmente per comprendere, per quanto possibile, le basi scientifiche del comportamento umano, sentiero che inevitabilmente conduce alle domande antropologiche: chi siamo e chi sono.
Nel dibattito plurisecolare attorno alla possibilità dell’uomo di formulare giudizi di verità si sono scontrate diverse posizioni. Tuttavia, sia che si faccia riferimento a principi di valore emananti da un Ente esterno al mondo e all’universo, sia che dentro di noi il caso, la necessità e la contingenza li abbiano creati, o sia che il futuro, mente umana compresa, sia stato in potenza contenuto nella molecola di un DNA primigenio, la coscienza di ciascuno uomo, definito il suo stato morale, deve rispetto allo stesso accettando e praticando le verità che ha maturato.
In questa memoria si farà riferimento a quanto la genetica, lo studio dell’evoluzione, la neurologia, la psicologia evoluzionistica e alcune ipotesi cosmologiche possono contribuire a una discussione su scienza e verità.
Il bisogno di verità esiste come conseguenza dell’essere, la nostra, una specie sociale: nasce, cioè, come componente non secondaria delle interazioni tra individui. Per questo è rilevante e connaturato al tema trattato fare riferimenti alla conoscenza, pur parziale, del complesso sistema neurobiologico che genera le nostre interpretazioni del mondo e, soprattutto, i moduli comportamentali nostri e degli altri uomini.
La discussione si complica e si arricchisce considerando i recenti progressi delle discipline che studiano la genetica e l’evoluzione del comportamento negli animali e nella nostra specie. Il tentativo non è semplice da sviluppare.
Gli scienziati hanno una visione forte della verità e non tollerano equivoci filosofici circa la sua realtà o importanza. Questa pretesa di verità deriva essenzialmente dalla loro capacità di far sì che materia ed energia facciano quello che gli scienziati si aspettano [1]. Per secoli la visione del mondo e dell’universo è stata discussa soprattutto dai filosofi e dagli storici. Quando, più tardi, la scienza ha cercato di affrontare lo stesso tema, si sono create contrapposizioni tra scienziati e umanisti [2].
È comunque credibile che la scienza proponga certezze (seppure approssimate): in matematica la convergenza delle opinioni colpisce per la frequenza con cui avviene rispetto alla considerazione di situazioni politiche, sociali, religiose [3]. Ma che, di fronte alle «realtà» del mondo e «verità» delle leggi fisiche e biologiche che lo governano, io, tu, noi possiamo, anche solo in parte, dissentire, è una possibilità. Un esempio è ancora la matematica: è stato discusso se esiste indipendentemente dalla mente umana o se è una invenzione umana.
Una corrente di pensiero ritiene che le entità matematiche siano un fatto oggettivoI. Altri, invece, concludono che «La matematica è una parte naturale dell’uomo. Nasce dal nostro corpo, dal nostro cervello, e dalle nostre esperienze quotidiane del mondo»[4] (in [5]).



Unicità della specie, unicità dell’individuo

Che la specie umana sia qualcosa di unico e speciale è una constatazione ben chiara ai neurobiologi [6]. In particolare, le emozioni sono collegate a valori, principi e giudizi che solo gli esseri umani hanno [7]. Inoltre, solo l’uomo è considerato un essere morale e religioso e probabilmente il senso morale gli deriva dagli istinti sociali già in parte presenti negli animali che vivono in gruppo [8].
La mimica facciale, che riflette sensazioni come gioia, disgusto e rabbia, è una risposta automatica comune e specifica per tutti gli uomini [9], così come le società umane studiate dagli antropologi hanno in comune una lunghissima serie di caratteristiche uniche [10].
Anche nello sviluppo della cultura, che si basa sulla memoria a lungo termine, gli umani superano in modo quasi infinito gli altri animali.
[A sinistra: Graffiti camuni a Capo di Ponte (val Camonica)]
«In generale, ormai sembra possibile fornire una spiegazione plausibile del perché la condizione umana sia una singolarità e perché qualcosa di simile sia accaduto una sola volta» [11].
Questo introduce ai contenuti, in termini di verità, delle risposte che si possono dare alla domanda antropologica: sono questi contenuti sempre veri in assoluto per la specie o sono, almeno in parte, specifici di chi risponde o dei tempi storici nei quali la risposta viene data?
Il mondo che ci circonda di fatto è dominato dalla diversità del reale materiale e culturale, diversità che include quella delle menti umane e dei cervelli che le nutrono [12]. Si pone qui il problema di cosa è la verità per un singolo soggetto umano: ognuno crea la sua verità quando si spiega il mondo o essa è una proprietà del mondo che esiste al di fuori di lui e che lui è solo in grado di approssimare?



La formazione del cervello: un evento irripetibile
Noi siamo il nostro cervello, apparentemente unico per ogni individuo [13]. La pretesa di unicità si basa su robuste evidenze sperimentali.
Le popolazioni di Homo sapiens sono altamente eterozigoti [14], così come lo è ogni singolo individuo: è la premessa per comprendere che già la ricombinazione tra il DNA di coppie di cromosomi produce, a ogni generazione, persone con un’altissima probabilità di essere uniche al mondo.

A questo meccanismo si aggiunge la mutazione che, in regioni dei cromosomi ereditate in blocco da un genitore, sostituisce i nucleotidi presenti con altri con una frequenza, in specie diverse, tra uno su mille e uno su un miliardo per generazione, e la frequenza negli uomini è tra le più alte [15].
A queste mutazioni di singoli nucleotidi si somma un numero significativo di variazioni genomiche strutturali causate specialmente dalle sequenze ripetute del DNA. Queste possono essere corte (micro satelliti) o di lunghezza variabile, ripetute in tandem o distribuite variamente nel genoma.
Rappresentano il substrato o la condizione per riorganizzazioni genomiche dovute a replicazione inaccurata, riparo del DNA, contrazione o espansione di sequenze ripetute, trasposizione e retro trasposizione, reintegrazione nel genoma di copie dei trascritti (citazioni in [16]). Anche l’ambiente gioca un ruolo in favore della diversità genetica individuale quando induce modificazioni epigenetiche del DNA spesso ereditabili [17].
Una sorprendente ipotesi riguarda la capacità che un singolo genoma ha di generare cervelli diversi. Già Gerald Edelman [18] aveva suggerito che, durante lo sviluppo del cervello, gruppi di neuroni siano in competizione per essere selezionati a seconda della loro posizione e origine clonale [19].
La composizione in neuroni del cervello risentirebbe, cioè, di un processo dove il caso gioca un ruolo. Sarebbero implicati, particolarmente, eventi traspositivi, frequenti nelle divisioni precoci dello zigote, tali da conferire, eventualmente, vantaggi selettivi ai cloni di cellule neuronali risultanti. Per questo la formazione di un cervello rappresenta un evento irripetibile anche per uno stesso genoma che, in potenza, avrebbe la capacità di sviluppare un gran numero di cervelli alternativi [20].

 

 

Mente o coscienza?

 

Da Platone e Aristotele in poi, la capacità razionale (che ha sede nel cervello) è stata considerata come un attributo della natura umana, la caratteristica che separa l’uomo dagli animali «inferiori», segno della benevolenza di un Dio [3].
Il cervello è tra le strutture più complesse dell’Universo: 100 miliardi di neuroni, ciascuno con 1000-10.000 contatti con altri neuroni (sinapsi). Consiste di due emisferi, ciascuno con quattro lobi: frontale (senso morale, saggezza, intuizione), parietale (decodificazione di strutture 3D), occipitale (visione), temporale (emozioni) [21].
Nell’uomo la corteccia (spessore di 4 mm) è estremamente sviluppata.

 

I neuroni specchio e il senso di sé
I neuroni di alcune specifiche aree, detti di comando motorio, si attivano quando si compiono azioni o gesti motori. Studiandoli, Giacomo Rizzolatti e collaboratori all’Università di Parma [22] notarono che gruppi di neuroni (neuroni specchio) si attivano quando si compie una certa azione, ma anche quando l’individuo (una scimmia nel caso) guarda un altro individuo che svolge la stessa azione.
Questi neuroni specchio sono particolarmente sviluppati in Homo sapiens e permettono di «leggere» le intenzioni degli altri (cioè di riconoscere le azioni e di comprendere le ragioni che stanno dietro quelle azioni), un carattere indispensabile per creature che vivono in comunità sociali.
Negli uomini, e solo negli uomini, i neuroni specchio sono diventati così sofisticati da permettere la decifrazione anche di intenzioni altrui molto complesse. Considerato che la cultura si può acquisire per imitazione, i neuroni specchio sono programmati per integrare nella propria mente quanto deriva da esperienze altrui.
Tuttavia, i neuroni specchio, pur facendo sentire sentimenti e compiere azioni in empatia con altri, sono parte di un meccanismo neurobiologico che può favorire la violenza imitativa [23]. Sono attivi durante le relazioni sociali perché le conseguenti reazioni sono cruciali per la comprensione delle relazioni stesse [23]. Mediano anche l’adozione di posizioni concettuali vantaggiose elaborate da altri [6]. Da questo punto di vista l’unicità di un cervello contiene parti dell’unicità di altri cervelli.
L’evoluzione e il funzionamento di una macchina così complessa attenderanno ancora molte generazioni per essere ragionevolmente descritti. Si possono però comprendere alcuni passaggi evolutivi la cui conoscenza può almeno farci intuire gli stretti sentieri che la ricerca sperimentale deve percorrere. Lo studio delle sinestesie, in particolare, si presta a questo scopo. Sinestesia è la condizione di una persona che percepisce qualcosa in uno dei sensi senza che questo venga stimolato (esempio: un numero visto è associato nella mente a un colore). Può essere una coincidenza che le aree del cervello deputate a numeri e colori siano immediatamente adiacenti?
La spiegazione è che specifici moduli del cervello sono topograficamente in parte sovrapposti e questo stato è talora ereditabile. Nel giro fusiforme del cervello un oggetto visto viene rappresentato acusticamente; durante l’evoluzione della base fisica del linguaggio si è innescata una sinestesia che ha associato l’aspetto visivo a un fonema, o tra area visiva e area di Broca che controlla i muscoli della vocalizzazione [21].
Aree e moduli deputati a funzioni diverse sono poi integrati in una funzione superiore che dà all’individuo una percezione unitaria. È localizzata nella corteccia dell’emisfero sinistro: interpreta e rende coerenti le storie esterne aggiornando il senso del sé e le sue credenze.

 

Qualia
È il plurale del latino quale. Negli studi sulla coscienza il termine è usato per indicare la natura dell’esperienza soggettiva del mondo, cioè le qualità sensoriali individuali che derivano, per esempio, dal profumo del caffè appena macinato, dal sapore dell’ananas, dall’azzurro del cielo o dal timbro di un violoncello.

Sono parti fondamentali del film della vita di ciascuno di noi derivanti da esperienze con un distinto carattere fenomenologico, inequivocabili ma difficili da descrivere [7]. È comunque chiaro che la conoscenza di un evento presente alla mente è modellata secondo la prospettiva dell’individuo all’interno del quale si forma, e non da una prospettiva comune a tante persone.
Le metafore e le similitudini in parte dipendono dai qualia: «una sensazione evocata dà specificità e permette di esprimere il non esprimibile» [25]. Se si è d’accordo che la scienza cerca leggi esplicative di valore universale, alla definizione di queste il contributo dei qualia potrebbe essere minimale. Nonostante questo i qualia hanno rilevanza per la vita di ciascuno di noi, inclusa quella degli scienziati che accettano con molte e personali sfumature le leggi fisiche o biologiche che reggono il mondo.
Noam Chomsky, per esempio, sostiene che «è decisamente possibile […] che si impari di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica». I romanzi, infatti, narrano la specificità dell’esperienza personale, sempre unica come lo è la storia personale di ciascuno che si modifica ad ogni esperienza [25].
La considerazione dei qualia introduce il ruolo dell’ambiente e della cultura, se non addirittura della contingenza, nel plasmare singole menti umane e, soprattutto, mette in dubbio le pretese che la verità definita dagli uomini debba essere assoluta.

 

 

Caso e necessità

 

Il concetto di evoluzione [26] degli organismi viventi è stato proposto, in varie forme, molto prima che fosse codificato nell’opera di Charles DarwinII.
Nella Philosophie Zoologique Jean Baptiste Lamarck [27] sostenne con motivazioni forti il ruolo dell’evoluzione nella speciazione, e Charles Lyell [28], un autorevole sostenitore e amico di Darwin, nel secondo volume dei Principles, riassunse ammirevolmente questa ipotesi. Lamarck favoriva l’acquisizione progressiva della complessità organica e l’ereditabilità dei caratteri acquisiti sotto stimolo ambientale. Darwin considerava il libro di Lamarck assurdo [29].
L’eredità dei caratteri acquisiti divenne un tema importante solo quando Augusto Weismann (1834-1914) chiarì la distinzione tra soma e linea germinale degli animali e si chiese come potevano caratteri impressi durante la vita nel soma essere riprodotti nella linea seminale [30].

 

Darwin e la lotta per l’esistenza
Durante il viaggio sul Beagle Darwin si rese conto delle crudeli e continue lotte tra tribù di selvaggi del Sud America per accedere a risorse scarse. Maturò qui la convinzione che la lotta per prevalere e sopravvivere è stata centrale alle dinamiche evolutive [29].
[A destra: Il dipinto raffigura il brigantino Beagle, su cui Darwin compì il giro del mondo]
Michele Lessona [31], contemporaneo di Darwin, lo commenta scrivendo che «la lotta per la vita è una legge fatale, dolorosa, crudele, di tutti i viventi, non escluso l’uomo». Alla base della selezione naturale degli individui c’è l’egoismo, una deduzione estesa poi a singoli geni: Richard Dawkins [32] l’ha popolarizzata con il titolo di un libro diventato famoso: The selfish gene.  
Non tutto quanto è stato da Darwin proposto è rimasto. Roy Davies [33] sostiene che l’idea di speciazione anche multipla da un progenitore comune era ben presente ad Alfred Russel Wallace che sul tema poteva vantare una forte prioritàIII. Non rimane anche la proposta dell’eredità dei caratteri dovuta al mescolamento di gemmule dei genitori che raggiungono la linea seminale (blending inheritance). Mendel, alla teoria dei «sangui miscibili», sostituirà quella dei «geni immiscibili» [34].
La stessa gradualità della modificazione dei caratteri che conduce prima al differenziamento di popolazioni diverse e poi alla speciazione è stata in parte abbandonata. È infatti stato accettato che le specie possono comparire e scomparire in modo discontinuo (teoria di Gould e Eldredge [35]); per esempio, l’allopoliploidia nei pesci e nelle piante è un grande fattore evolutivo di natura discontinua [36, 37].
Rimane la ricerca, discussione e presentazione organica dei risultati disponibili per piante e animali che illustrano gli effetti della selezione. Nell’insieme certificano che la selezione è in grado di modificare ereditariamente i caratteri: nel suo secondo libro più importante [38] Darwin riassume una impressionante serie di dati a sostegno dell’efficacia della selezione e propone di usare questa prova a supporto di una teoria dell’origine delle specie, dove gli effetti della selezione naturale sono accettati come veri per analogia con quelli della selezione «artificiale».

 

Il DNA e lo stress ambientale
È comunque indubbio che la teoria dell’evoluzione ci ha concesso almeno una visione parziale della posizione dell’uomo nel mondo, così come una riflessione su chi siamo o cosa non siamo [39].
Su questa teoria il neodarwinismo, che ha integrato nella teoria di Darwin specialmente gli apporti di un secolo di genetica, ha costruito una base teorica dove anche caso, necessità, contingenza e determinismo sono considerati. In Il caso e la necessità, Jaques Monod [40] assegna ai viventi due proprietà: l’invarianza (la riproduzione precisa del DNA), e la teleonomia (la presenza di strutture che appaiono rivolte a un fine, un telos). Riconduce la seconda proprietà alla prima: la teleonomia sarebbe il risultato di mutazioni casuali che l’invarianza del DNA riproduce esponendole ai meccanismi della selezione (la necessità) [41].

In questo processo si assegna un ruolo alla contingenza, evenienze non necessarie ma possibili e non giustificate né negate da vincoli esterni ad esse [42]. Tuttavia, James Shapiro [43] ha recentemente introdotto una novità, nella percezione dell’evoluzione organica, ponendosi la domanda di come, nell’evoluzione, si forma il nuovo.
I sistemi di controllo della sintesi e riparo del DNA hanno un ruolo centrale: tendono all’invarianza del DNA quando l’ambiente è stabile, ma introducono ristrutturazioni e invenzioni quando la cellula è esposta a stress ambientale. Il genoma, cioè, sarebbe un sistema di memoria che si legge ma anche che accetta di essere scritto (a read-write, RW, memory system).
Sono le novità progressive inventate dal DNA a prevalere come fattore evolutivo sulla selezione naturale. In questa visione diminuisce la rilevanza e la priorità del caso: le mutazioni che contano (quelle che servono per superare i cambiamenti ambientali) non sono casuali e l’ambiente ha un ruolo evolutivo ben preciso e quasi deterministico che evita l’attesa di congiunzioni favorevoli tra caso e necessità. Se questo assunto è vero, è difficile negare che un operatore molecolare con delega ai cambiamenti del genoma agisca a caso. Cadrebbe, se Shapiro si rivelerà credibile, un altro baluardo della teoria evolutiva di Darwin.
La posizione di Shapiro è forte: se il DNA è in sé fonte cumulata di variazione e di selezione, è forse la sua struttura chimica e sterica che possiede un contenuto deterministico? Francis Crick ha considerato la possibilità che la Terra sia stata «inseminata di vita da forme di intelligenza aliena», quasi a trovare una spiegazione all’evento più straordinario di tutta la storia del mondo: la vita che si è originata una sola volta [44]. Con un corollario: perché l’atto di inseminare avesse un senso, l’attore doveva aver chiaro o aver programmato a priori la storia naturale del pianeta Terra. Questa quasi provocazione pone in modo esplicito la possibilità che la nostra biologia in parte determini i comportamenti.

 

 

Comportamento sociale: altruismo e moralità

 

I comportamenti altruistici in natura nascono e si diffondono per parentela, reciprocità, parassitismo [45]. Sono rari: in pochissime specie animali l’interesse dell’individuo soccombe all’interesse per il gruppo.
Le aggregazioni naturali di individui corrispondono spesso a famiglie dove i membri sono legati da parentela [46]. La loro evoluzione è stata particolarmente studiata negli insetti, definiti eusocialiIV, che vivono in gruppi organizzati e praticano l’aiuto mutuo.

 

Eusocialità
L’assenza di egoismo nella colonia di formiche è dovuta al comportamento delle formiche operaie che rinunciano a riprodursi.
Negli Imenotteri (api, vespe, formiche) le femmine si sviluppano da uova fecondate e quindi i loro cromosomi sono presenti in coppie (stato diploide). I maschi invece prendono origine da uova partenogenetiche non fecondate e quindi contengono solo un elemento di ciascuna coppia cromosomica (stato aploide).
Ne consegue che il maschio che feconda la regina produce spermi con cromosomi identici: le figlie, quindi, hanno un corredo cromosomico per metà identico (trasmesso dal padre) e per l’altra metà uno o l’altro dei cromosomi delle coppie della madre. Di conseguenza il coefficiente di parentela tra le figlie (quanto del corredo cromosomico è in comune tra loro) è di 3/4, mentre tra madre e figlie di 1/2.
Le figlie femmine, quindi, sono tra loro più imparentate di quanto lo sono con i loro stessi figli e se l’eusocialità si evolve in base ai legami di parentela, si spiega perché negli imenotteri le femmine operaie tendono a rinunciare a riprodursi favorendo una modalità riproduttiva, l’aplodiploidia, che aumenta la frequenza degli alleli dei geni per la socialità, fino al punto che la regina assume il ruolo di unica madre generatrice, secondo un meccanismo altruistico a stretta base genica [45, 47, 48].
La selezione per parentela è stata entusiasticamente accettata dai neodarwinistiV e introduce alla discussione di come la straordinaria evoluzione del cervello umano abbia permesso alla nostra specie di praticare la forma più avanzata di eusocialità, dove la stessa non solo è vissuta nella realtà ma è anche rappresentata in infinite e variabili ipotesi mentali.
Dopo la pubblicazione di Sociobiology, il libro di Osborne Eduard Wilson [49] che trattava lo sviluppo dei comportamenti sociali utilizzando le nuove idee sulla selezione naturale, l’autore fu pesantemente attaccato per la sua visioneVI.
Il libro considerava l’evoluzione di comunicazione, altruismo, aggressività, sesso, parentela, visti nelle specie eusociali, uomo incluso. Proprio da Wilson [11, 50] viene un recente attacco alla teoria dell’evoluzione per selezione di parentela: premesso che nella dinamica evolutiva la selezione naturale è la forza creativa attiva, e che negli insetti sociali si è di fronte a un semplice caso di selezione individuale tra regine (intendendo che le operaie sono solo una estensione fenotipica del genotipo della regina), quella osservata è una selezione di tipo individuale.
Wilson propone una selezione naturale multilivello dove si sviluppa una interazione tra le forze selettive che influenzano i singoli membri di un gruppo (selezione individuale) e altri tipi di selezione che riguardano i rapporti tra gruppi (selezione di gruppoVII), dove il successo dipende dalla cooperazione tra membri che favorisce l’altruismo e la reciprocità.

 

Biologia e moralità: dove nasce il senso morale?
L’evoluzione dell’altruismo in parte corregge la quasi brutalità della teoria di Darwin: la crudeltà della lotta per la sopravvivenza viene infatti ammorbidita, particolarmente nella nostra specie, dagli atteggiamenti sociali di individui che vivono in comunità [51].
L’evoluzione dell’eusocialità e del cervello che la sostiene si offre, inoltre, alla discussione dell’origine del senso morale. Steven Pinker [10] ritiene che anche la morale è da ritenersi figlia dell’evoluzione: tutti ne sono dotati, una constatazione più semplice che credere che ciascuno debba faticosamente fabbricarsela. La biologia evoluzionistica, in particolare, introduce ai rapporti tra i membri di gruppi sociali che possono condividere o meno opinioni o affermazioni, argomentandoli da una presunta base logica: l’esistenza di termini di riferimento oggettivi, in assenza di una verità.
La discussione sulle radici biologiche dell’altruismo ha creato nuovi collegamenti tra biologia e cultura [10].
Il primo ponte è rappresentato dall’emergenza della scienza della mente, cognitive science. La mente può essere in parte spiegata utilizzando una teoria computazionale. In particolare, nel cervello la grammatica combinatoriale del linguaggio si mescola con altri moduli mentali nel generare pensiero e intenzioni.
Il secondo ponte è rappresentato dalla neuroscienza dove si studia l’effetto dell’inattivazione di geni singoli sulla funzionalità mentale.
Il terzo ponte sono le conoscenze di genetica del comportamento, cioè di come il genoma controlla il comportamento.
Il quarto è la disciplina nota come psicologia evolutiva, lo studio di come la storia filogenetica contribuisce a spiegare le funzioni adattative della mente.
L’idea di una origine naturale della moralità nasce agli inizi dell’Ottocento con il positivismo di Auguste Comte, è ripresa da Herbert Spencer e da Konrad Lorenz alla metà del Novecento e poi dalla sociobiologia di Wilson.
Nonostante le critiche, è alta l’attenzione al tentativo di correlare la natura biologica degli esseri umani con la generazione dei comportamenti morali e delle norme morali. «La moralità degli esseri umani va distinta dall’altruismo animale sulla base delle proprietà dell’azione morale. Non è sufficiente che un organismo si comporti in modo altruistico ma è necessario che abbia delle credenze morali e senta degli obblighi morali.
Durante la filogenesi la selezione naturale ha favorito le disposizioni al rispetto, all’amore, alla cooperazione. Il senso morale è parte della natura umana: gli esseri umani, unici fra i viventi, hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione delle proprietà biologiche così elevate da essere capaci di manifestare dei comportamenti morali, anche se questo non significa che le proprietà biologiche possano determinare direttamente né la manifestazione dei comportamenti morali né i contenuti delle norme morali» [19].
In questa, come in moltissime riflessioni su questo importante argomento viene evitato, però, il punto nodale della discussione: chi ci informa sul perché il senso morale dovrebbe avere valore assoluto in assenza di una sua certificazione oggettiva; detto altrimenti, è il nostro un senso morale universale o, per esempio, potrebbero esistere diversi sensi morali? Si deve spiegare che se in qualche modo è nato un senso morale, questo suo essere morale necessariamente implica l’esistenza di verità oggettive
Tuttavia, Maffei avverte che «la verità non è altro che la sintesi dinamica del pensiero collettivo, cioè il pensiero che viene approvato dai più» [9]. Se così è entra in gioco la responsabilità personale verso la ricerca e la pratica della verità. Non ci sono, infatti, dubbi che forme di verità esistono dentro di noi, forme pur uniche per ciascuno, ma condivisibili in parte dai più.

 

Autoinganno
In moltissimi organismi viventi si sono evolute forme di inganno note come camuffamento e mimetismo. Nel camuffamento l’individuo tende a confondersi nell’ambiente in cui vive negandosi così alla predazione; nel mimetismo l’individuo imita, a scopo di difesa, altri esseri vivi o componenti dell’ecosistema che lo circonda.
[A destra: Un insetto mimetizzato quasi indistinguibile da una foglia secca]
L’autoinganno è una evoluzione della selezione a favore dell’inganno. È un processo attivo e organizzato e il suo uso da parte degli uomini è potenziato dal linguaggio [45].
Simon Blackburn [3] cita il caso di un poeta che si rammaricava dell’impossibilità che ciascuno di noi ha di vedersi come gli altri ci vedono. Spiega che questa condizione è possibile perché nel cervello l’autoinganno è endemico: l’agente che opera nel cervello sa qualcosa ma si inganna raccontandosi qualcos’altro e convincendosi che si tratta della verità (un esempio: si crede più facilmente alle verità piacevoli che a quelle spiacevoli).
Da questo punto di vista la nostra mente è consequenziale fino a un certo punto, dopo di che applica una logica condita da un’innata tendenza al compromesso. Per questo piacere e dispiacere e bene e male hanno componenti soggettive. «Una cosa non ci è gradita o sgradita in sé, ma in conseguenza della valutazione che di essa dà il nostro corpo» [24].
Il cervello umano è una macchina per produrre argomenti vincenti con il fine di convincere gli altri che si è nel giusto e soprattutto per convincere se stessi di questo. È possibile che il cervello voglia più la vittoria della verità [52].
 

 

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Francesco Salamini
(Accademico dei Lincei, membro del comitato scientifico di Expo 2015. Già professore di Botanica e Fisiologia all’Università di Piacenza, ha diretto istituti per il miglioramento genetico delle piante in Italia e all’estero)

Note

 

  1. Anche Martin Gardner [73] sostiene che i numeri e la matematica hanno un’esistenza propria, indipendente dagli uomini. Godfrey Harold Hardy [74] ritiene che la realtà matematica è indipendente da noi e che il nostro compito è solo di scoprirla.
    Quanti credono che la matematica esista indipendentemente dagli esseri umani si dividono in due gruppi: i «veri» platonisti, per i quali la matematica esiste in un mondo eterno e astratto, e coloro che credono che le strutture matematiche sono una parte reale di «questo» mondo naturale.

  2. Darwin ebbe molti predecessori relativamente all’ipotesi che le specie fossero soggette a cambiamenti e quindi in evoluzione. Di questo parere era stato Erasmo Darwin, il nonno di Carlo. Erasmo scrisse una Zoonomia pubblicata nel 1794 dove introduce concetti poi discussi da Darwin.
    Erasmo Darwin risentì dell’influenza di Lamarck quando scrisse «Nel corso di molte generazioni gli organi sembrano essere stati gradualmente modificati dagli sforzi che gli animali hanno fatto per soddisfare i loro bisogni, tramandando alle progenie quel costante perfezionamento acquistato nell’adeguarsi a determinati usi» [31]. Darwin non riconobbe mai crediti al nonno Erasmo così come a Lamarck [29].

  3. Wallace si era reso conto che ogni area geografica isolata aveva specie diverse da quelle di altre regioni, anche se queste erano climaticamente e geologicamente simili. Inoltre sapeva che specie affini estinte erano compresenti nello stesso strato geologico, a certificare che specie simili tendevano a essere coeve e contigue spazialmente.
    Wallace ne dedusse che la distribuzione degli organismi sulla terra dipendeva dal fatto che specie affini avevano avuto un antenato comune. Propose la Sarawak law: «ogni specie ha avuto un’origine coincidente sia nello spazio sia nel tempo con una specie preesistente strettamente affine». Per la prima volta veniva stabilito dove e quando poteva avvenire la speciazione.
    La legge venne illustrata nel lavoro pubblicato in The annals and magazine of natural history nel 1855 dal titolo On the law which has regulated the introduction of new species. Il saggio, scritto quattro anni prima di L’origine delle specie, tratta tutti i temi cari a Darwin: il gradualismo, l’adattamento, la speciazione allopatica, le testimonianze fossili [75].

  4. Su duemilaseicento famiglie di insetti e altri artropodi solo quindici hanno specie eusociali: l’eusocialità è comparsa una volta nelle formiche, tre nelle vespe e almeno quattro nelle api. È molto rara nei vertebrati: solo un ramo delle grandi scimmie africane ha superato la soglia dell’eusocialità.
    La sequenza evolutiva ha due passaggi. Una cooperazione altruistica protegge un nido stabile. I membri dei gruppi appartengono a generazioni diverse e si dividono il lavoro sacrificando gli interessi personali a quelli del gruppo [11].

  5. Per Darwin l’esistenza delle caste sterili nelle società degli insetti era una violazione del ruolo della selezione tra individui come motore della speciazione. Il paradosso «è meno evidente o addirittura scompare se si considera che la selezione potrebbe applicarsi alla famiglia, come fa il miglioratore vegetale che avendo notato un carattere positivo in una pianta ricorre ai semi dello stock originario da cui aveva attinto, convinto di ottenere di nuovo piante superiori» [26].
    Nel 1963 un giovane biologo, William Hamilton, elaborò la teoria della selezione per famiglia (o di parentela), kin selection, forse riprendendo il concetto da una nota di Darwin, ma in tempi particolarmente propizi perché la genetica era in pieno sviluppo [52].

  6. The blank slate. Questa interpretazione della mente umana corrisponde all’idea che essa non ha una struttura dedicata e che può essere modificata a piacere dalla società. In latino: tabula rasa.
    Di solito attribuita a John Locke [76], è allineata con l’idea del «nobile selvaggio», e cioè che i popoli allo stato naturale sono altruisti e pacifici: la violenza sarebbe il prodotto delle società cosiddette civili.
    Jean Jacques Rousseau non riteneva corretta l’idea della tabula rasa ma era convinto che i comportamenti negativi fossero dovuti alla civilizzazione.
    Thomas Hobbes era di opinione opposta: ciascun uomo lotta contro ogni altro; l’attitudine al male si oppone alla civilizzazione che è solo possibile se le popolazioni delegano la loro autonomia a un sovrano o a una assemblea di comunità, il Leviatano, mostro marino sottomesso da Dio al momento della creazione. Per Hobbes la natura umana differisce da un orologio meccanico solo nella complessità [10].

  7. Dopo che Hamilton aveva suggerito di cercare le radici dell’altruismo nella selezione per famiglia, George William [77] suggerì che l’altruismo potrebbe essere esteso oltre la barriera della parentela.
    Egli suggerì che gli individui che danno più valore all’amicizia e meno all’aggressività hanno un vantaggio evolutivo e che la selezione tra gruppi dovrebbe favorire quei caratteri che promuovono le interazioni tra persone diverse [52].

Indicazioni bibliografiche

 

  1. Dawkins R., 2003. A devil’s Chaplain. Trad. E. Faravelli, T. Pievani, 2004. Il cappellano del Diavolo. Raffaello Cortina Editore, Milano.

  2. Sansavini S., 2015. Il difficile dialogo fra le culture umanistica e scientifica. Il Carrobbio (estratto anticipato), Patron, Bologna.

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© Pubblicato sul n° 59 di Emmeciquadro

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