Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova fin dalla sua fondazione nel 2005, racconta l’esperienza di questi primi dieci anni, offrendo una panoramica affascinante sulle attuali frontiere di tecnologie che hanno al centro l’uomo.
Smentendo anche alcuni luoghi comuni, come quello secondo il quale l’Italia sia tecnologicamente arretrata e incapace di attirare i ricercatori stranieri.




Intervista rilasciata il 25 agosto 2015 nell’ambito del XXXVI Meeting per l’amicizia fra i popoli che ogni anno si svolge a Rimini.

Anzitutto ci può spiegare cos’è l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT)?

L’Istituto Italiano di Tecnologia è nato una decina di anni fa. Ha avuto un trienno di incubazione e di startup per la costruzione dei laboratori dal dicembre 2005 al dicembre 2008: è stato costruito il nucleo centrale di trentamila metri quadrati nella sede centrale di Genova, poi è partita una rete di una decina di laboratori in tutta Italia; oggi siamo millecinquecento persone, abbiamo un’età media di trentatré anni e mezzo, il 48% dei ricercatori viene dall’estero, da cinquantasei nazioni.
Lo IIT quindi è una istituzione «multietnica», che segue dei meccanismi di reclutamento internazionali molto diversi da quelli che sono normalmente seguiti in Italia. L’attività che l’Istituto svolge è divisa sostanzialmente in tre grandi settori.
Uno è quello, abbastanza noto anche per via dei media, della robotica umanoide e animaloide. Poi c’è una parte di scienze della vita che ha un particolare focus sul cervello, sia per ricerche di intelligenza artificiale, sia per cura e diagnosi di malattie neurodegenerative.
Infine c’è una terza grande area che ha a che fare con le nanotecnologie dei materiali, sia per l’applicazione alla robotica, sia di tipo diverso (per esempio applicazioni di tipo ambientale: plastiche biodegradabili, sistemi per la purificazione dell’acqua o per la sicurezza alimentare) che viene sviluppata da gruppi molto interdisciplinari.
Il denominatore comune di tutti quelli che lavorano allo IIT è proprio il fatto di portare avanti un progetto interdisciplinare – un po’ fuori dall’impostazione tradizionale delle università italiane – che ha come sua bandiera il robot umanoide, cioè una macchina concepita per aiutare gli esseri umani, molto sofisticata, dotata di intelligenza artificiale molto avanzata e con caratteristiche biomeccaniche molto evolute, con un corpo soffice, in grado di muoversi come ci muoviamo noi e di prendere decisioni, almeno a un livello di base, e pensata per essere una macchina sociale.
«Macchina sociale» vuol dire che in un futuro complesso come si prospetta il nostro, potrebbe diventare una specie di telefonino, se vogliamo, però in grado di compiere movimenti, in grado quindi di aiutare gli anziani e i disabili, ma anche le famiglie in tanti compiti quotidiani.
Questo deve esser pensato come una conseguenza del vecchio welfare, che ci ha allungato la vita, per cui c’è bisogno di garantire un invecchiamento di alto livello; ma nello stesso tempo si sta andando verso una società che avrà un pensionato per ogni lavoratore attivo, per cui il robot umanoide intelligente e amico, il cosiddetto «compagno del cittadino», diventa un po’ una forma di nuovo welfare, cioè una tecnologia che serve ad aiutare le persone che non potranno permettersi una badante o un parente che si occupa di loro.



Sa dirci quando tutto questo diventerà fattibile anche economicamente?

Alla fine di quest’anno ci sarà la prima delivery di un robot completo in materiale plastico, che riduce i costi a quelli di uno scooter. Prevediamo una produzione di qualche migliaio di pezzi. Molto del mercato della robotica va visto in funzione del tipo di applicazione che se ne vuol fare.
Per esempio un robottino casalingo può essere concepito per muovere pesi dell’ordine di un chilo, come una bottiglia d’acqua, perché questo è tipicamente il lavoro che gli viene richiesto, per cui può avere una meccanica non troppo sviluppata; d’altra parte, a differenza dei robot industriali, può essere controllato in forza e non in posizione.
Oggi un robot industriale va da A a B e sostanzialmente non tiene conto di ciò che c’è fra A e B: se un uomo si frappone, il robot diventa pericoloso, perché, siccome non è controllato in forza, prosegue allo stesso modo e lo uccide.
Invece un robot sociale deve essere controllato in forza: se va da A a B, ma in mezzo c’è una persona o un ostacolo, il robot immediatamente si accorge che in quel determinato punto della traiettoria deve applicare più forza perché c’è un ostacolo e allora invece di proseguire si ferma, che è lo stesso modo in cui funziona la nostra biomeccanica: questa tecnologia è detta del robot compliant o robot cedevole.
Dopodiché è solo questione di specifiche tecniche della macchina, che deve essere calibrata sul peso voluto.



L’altro grande settore di lavoro è quello dell’intelligenza. È chiaro che un robottino di questo tipo non potrà avere una grande capacità di calcolo, altrimenti costerebbe un occhio della testa; perciò questi robot saranno simili ai telefonini, con una scheda wireless molto veloce (5 o 6 Giga) attraverso la quale saranno collegate a un cloud, dove si troverà tutta l’intelligenza, cioè le cosiddette app che consentiranno al robottino di stirare, tagliare l’erba, cucinare, guidare l’auto, eccetera. Certo c’è anche un problema di infrastrutture, perché tutto questo richiede una rete molto efficiente e veloce.
Non è folle pensare che entro una decina d’anni questi robottini possano arrivare a costare solo poche migliaia di euro. Noi abbiamo fatto una scelta open source, per cui la nostra tecnologia è a disposizione di tutti, perché, come si è visto anche in altri campi, questo permette a tutti di progredire molto più rapidamente.
Ci sono sottoprodotti più immediati, che verranno presto messi in commercio; si tratta di alcuni componenti del robot che sono stati pensati per diventare delle protesi. In questo momento stiamo già sperimentando su un grande numero di pazienti amputati, mani, gambe e esoscheletri prodotti per questa robotica, in plastica, molto economici, adattabili a persone diverse, molto leggeri, con una biomeccanica innovativa; e i pazienti, dopo due mesi che vestono queste protesi, sono in grado di riprendere a scrivere, fare bricolage, usare un trapano…
Queste protesi sembrano molto promettenti, come gli esoscheletri che servono ad aiutare le persone che hanno perso mobilità, ma anche gli operai che devono alzare carichi pesanti, come per esempio in un porto. Ci sono anche dei filmati visibili su Internet.
Ora, tutto ciò richiede nanotecnologia, elettronica, sensoristica, materiali ultraleggeri, compositi a basso costo, eccetera, per cui c’è una fortissima componente di tecnologia dei materiali molto innovativa. E poi c’è lo studio del cervello, perché queste macchine devono essere ispirate il più possibile al cervello e all’azione umana. Questo spiega la struttura iniziale dell’Istituto.
Nel frattempo però lo IIT si è evoluto, è cresciuto molto e quindi ora si stanno lanciando, sempre in questi settori che vedono l’essere umano al centro della scienza e della tecnologia, una serie di nuove iniziative che riguardano lo studio di tecniche per la diagnostica precoce delle malattie genetiche degenerative e dei tumori, che aiuterebbero anche a ridurre i costi della sanità pubblica.
Un altro campo nato dalla robotica, e che negli ultimi tre anni è veramente esploso nell’Istituto, è lo sviluppo di plastiche biodegradabili ricavate dalle piante, materiali in grado di separare l’acqua dagli olii, insomma, tutta una serie di materiali «verdi».
In particolare, oggi uno dei problemi più gravi è lo smaltimento della plastica, la quale resiste per centinaia di anni e produce anche sostanze tossiche, per cui è bene che nella tecnologia del futuro si usino materiali che, avendo le stesse caratteristiche di resistenza e flessibilità, siano biodegradabili nell’arco di due o tre anni.

 

 

Queste plastiche biodegradabili da cosa sono ricavate?

 

La nuova classe di brevetti che abbiamo depositato si basa sostanzialmente sull’utilizzo dello scarto dell’industria vegetale, come quella del caffè, del riso, del cacao, eccetera, che viene trattato con un processo «verde» per estrarre tutta la cellulosa.
La cellulosa è una fibra naturale che assomiglia ai polimeri del petrolio, ma è biodegradabile, e viene poi riassemblata in forma di plastica esattamente come si fa con i polimeri del petrolio.
Il risultato interessante è che, combinando diversi vegetali o aggiungendo per esempio grafene o altre sostanze innovative, si ottengono plastiche che hanno caratteristiche di tipo meccanico tali da coprire tutto l’intervallo delle plastiche attualmente in uso, dal guanto da cucina alla bottiglia; in più c’è il vantaggio che in genere per liberarsi dello scarto vegetale si deve pagare, mentre così l’industria può usare il suo stesso scarto per farsi la plastica che le serve.

 

 

E sulle nanotecnologie che cosa ci può dire?

 

In realtà tutto quello che abbiamo detto finora sulla produzione di questi nuovi materiali è «nanotecnologia», perché si fa tutto lavorando sulla singola molecola o la singola fibra. Poi c’è un’altra parte molto più vicina alla percezione che attualmente la gente ha della nanotecnologia.
Oggi la nanotecnologia si fa in molti modi. In scienza dei materiali è soprattutto trasformazione, cioè si estrae una fibra, la si trasforma, la si riadatta: tutti processi su scala del nanometro.
Poi c’è una nanotecnologia di ispirazione elettronica, in cui non si utilizzano oggetti naturali piccoli, ma si costruiscono: quindi è un po’ come uno scultore che parte da un macigno e poi lo fa diventare piccolissimo, come si fa con i circuiti integrati.
Noi abbiamo un’attività molto forte nella costruzione di dispositivi molto piccoli, della dimensione di poche proteine, costruiti con tecnologie molto sofisticate e molto costose (a differenza per esempio di quelle della plastica biodegradabile) e sono tipicamente destinati a sistemi diagnostici, in grado di vedere un singolo evente biologico.

Il sogno della diagnostica oggi è di riuscire a vedere una singola cellula malata o una singola mutazione, per cui se ho un litro di soluzione e dentro c’è una singola cellula tumorale, la devo «beccare».
Attualmente non è così: se facendo l’analisi del sangue, troviamo dei marcatori, significa che ci sono già in circolo tante cellule malate, quindi la diagnostica riesce a scoprire una malattia solo quando si è già almeno in parte sviluppata.
Il sogno della cosiddetta early diagnostic è di poter vedere la prima cellula che si ammala e quindi poter intervenire con grande anticipo; però per avere questo tipo di sensibilità c’è bisogno di tecnologie molto spinte, occorre costruire oggetti estremamente piccoli, di qualche miliardesimo di metro, con delle proprietà elettrodinamiche e magnetiche particolari.
Ovviamente questo è un campo di ricerca che richiede investimenti di notevole entità.
Le frontiere che stiamo affrontando in questo momento sono rappresentate da piccolissimi trasportatori di dieci o venti miliardesimi di metro superparamagnetici che per esempio possono trasportare chemioterapici e che sono in grado, una volta in circolo nel flusso sanguigno, di riconoscere biochimicamente le cellule malate, come fossero degli anticorpi, e poi di attaccarvisi e rilasciare una molecola di chemioterapico.
Inoltre, per le proprietà intrinseche di questi trasportatori, se sono immersi in un campo di radiofrequenze, si possono riscaldare fino a 45-50 °C, provocando la cosiddetta ipertermia: quindi non solo indeboliscono biochimicamente la cellula malata, ma poi la «secccano» portandola a una temperatura superiore ai 42°C, a cui la cellula muore.
Quindi sono killer selettivi, che noi chiamiamo «anticorpi robotici», perché sono oggetti artificiali che svolgono dentro al corpo umano la stessa funzione degli anticorpi. Inoltre, essendo superparamagnetici, danno risonanza magnetica, per cui, quando si attaccano alla cellula malata, si riesce a vedere la loro posizione. Riescono perciò a fare in un colpo solo diagnostica per imaging, rilascio del medicinale e ipertermia. Attualmente sono già in fase di sperimentazione molto avanzata sugli animali.
Certo il percorso è lunghissimo, perché la legge richiede almeno sette anni prima di passare alla fase clinica; però ci sono anche altre teconologie un po’ più semplici che abbiamo sviluppato su questa falsariga e che invece in due o tre anni potrebbero diventare già impiantabili.
Una per esempio è quella della retina artificiale, che ha anche avuto una certa risonanza nei media: è una retina fatta di seta e polimeri che formano piccole celle fotovoltaiche di plastica biocompatibile che hanno una risposta alla luce identica a quella dell’occhio umano.
I risultati che abbiamo avuto sui ratti ciechi sono stati molto incoraggianti e allora siamo stati autorizzati dal Ministero a fare la prova sul maiale, che è l’animale che ha l’occhio più simile a quello umano: è partita una sperimentazione e se darà i frutti sperati, fra un anno e mezzo saremo pronti a impiantare questa retina artificiale nell’uomo.
Noi riteniamo che questo tipo di protesi funzioni in caso di degenerazioni retiniche e di maculopatie, che distruggono progressivamente la retina e che hanno una grandissima incidenza. Non sappiamo ancora se possono andar bene anche per il cieco dalla nascita, perché il concetto di questa tecnologia è completamente innovativo: non ha batteria, non vuole cavi intracranici, è come fare una cataratta; uno fa un’incisione, la infila e funziona da sola: è rivoluzionaria.
È basata sul fatto che questo strato di polimero fotosensibile è conformale, cioè segue la forma della cornea e una volta che è in contatto con i residui della rete nervosa naturale del paziente conduce, quindi è in grado in qualche modo di far «parlare» i neuroni con lo strato di plastica. Ora, non è chiaro se, quando questa rete nervosa è completamente spenta (come nel cieco nato), possa far passare ugualmente il segnale; non abbiamo ancora una sperimentazione sufficiente, comunque se le prove sul maiale daranno buoni risultati, si passerà agli esseri umani e allora si vedrà.
L’altra soluzione nanotech che abbiamo sviluppato (e di cui stiamo già parlando con alcuni investitori, perché a breve sarà un prodotto) consiste in nuove fibre che vengono dalle alghe marine e hanno proprietà interessantissime, perché possono essere processate, facendo palline molto piccole per realizzare spray oppure fili per costruire cavi di sutura o cerotti di dimensioni qualsiasi che aderiscono alla pelle conformazionalmente e vengono pian piano dissolti nella pelle stessa.
Siccome però ciascuna di queste fibre è in grado di immagazzinare delle soluzioni, possiamo «caricarle» dentro tintura di iodio, un antinfiammatorio, un chemioterapico, quello che vogliamo. Quindi si immagini il fatto di avere un cerotto, un filo di sutura o addirittura uno spray che, durante un intervento chirurgico, si possono mettere sopra una ferita e che rilasciano il principio attivo e poi scompaiono perché biodegradano.

Qui non c’è bisogno di sette anni di sperimentazione; si tratta di un presidio medico, quindi in due o tre anni potrebbe essere sul mercato. Questo è il classico caso di una tecnologia che, partita da un’idea diversa, è poi diventata un’ottima soluzione di un altro tipo di problemi.

 

 

Oggi la ricerca pura viene sempre più penalizzata dalle scelte politiche, che tendono a vederla come una spesa inutile, mentre è fondamentale anche per il progresso della tecnologia. Lei cosa ne pensa?

 

Sono assolutamente d’accordo. Noi facciamo una grandissima quantità di ricerca pura. Personalmente trovo molto stucchevole la distinzione tra puro e applicato.
Esiste solo un tipo di ricerca: quella buona; il resto sono solo divisoni campanilistiche che non hanno molto senso. Però la comunità scientifica su questo punto ha le idee molto più chiare.

 

 

Il problema è che a non avere le idee chiare sono quelli che assegnano i finanziamenti…

 

Proviamo a spiegare. La scienza ha una componente di curiosità che va assolutamente coltivata e rispettata.
È sempre successo nella storia dell’umanità che ci fossero scoperte che in quel preciso momento non servivano a nulla e che poi si sono rivelate soluzioni di grandi problemi. Io faccio sempre un esempio per tutti.
Nel 1950, quando Shockley, Brattain e Bardeen (Premi Nobel per la Fisica nel 1956) hanno scoperto l’effetto transistor, questa scoperta non serviva veramente a un accidente: essi studiavano la resistenza del germanio, che oggi non è più utilizzato, e tutto potevano pensare tranne che la loro scoperta potesse oggi diventare la rivoluzione digitale. Allora è ovvio che bisogna lasciar fare alla scienza il suo percorso culturale, liberamente.
Bisogna però avere la mente pronta – e ho scelto con cura le parole – a capire che certi risultati della scienza possono essere applicati a qualcosa di utile. Quindi dopo un certo numero di anni che uno studia sempre la stessa cosa, bisognerebbe fare una verifica per capire se quello che sta facendo porta a un grande avanzamento della conoscenza globale o porta a un’applicazione utile, altrimenti dovrebbe avere il coraggio di mettersi a fare qualcos’altro.
Quindi la distinzione tra puro e applicato è una questione di buon senso: cioè, noi dobbiamo essere liberi di studiare e inventare, però dobbiamo anche avere il senso di responsabilità di chiederci ogni tanto se quello che facciamo è sensato, perché tra l’altro lo pagano i cittadini.

 

 

Il problema è che spesso chi deve valutare lo fa con una prospettiva di corto respiro, pensando solo all’utilità immediata…

 

È vero, ma questo è un problema di cultura delle istituzioni.

 

 

Parlando di «mente pronta» si apre il tema dell’educazione, troppo spesso affrontato in termini utilitaristici e di corto respiro. Invece a noi sembra – e lo dicono anche tanti scienziati – che avere una buona cultura generale e la capacità di pensare aiuti anche nella ricerca scientifica. Che cosa può dire su questo e, più in generale, sull’educazione scientifica in Italia?

 

Ci sono due piani: l’università e la scuola. Quanto all’università, il problema è che l’Italia ha un meccanismo di reclutamento che ormai non è più credibile.
Siamo totalmente fuori dallo standard internazionale, reclutiamo in maniera inaccettabilmente primitiva e quindi bisognerebbe avere il coraggio di fare autocritica: raggruppamenti disciplinari, concorsi, Gazzetta Ufficiale… sono cose ridicole che non stanno più in piedi.
Ecco perché è poco credibile chi fa i discorsi sul finanziamento della ricerca se poi non si dissocia da questo meccanismo di reclutamento: se io non accetto la valutazione, se io non accetto il reclutamento competitivo, non sono più credibile quando dico che la mia ricerca dev’essere finanziata perché la cultura è un patrimonio; perché se la cultura è un patrimonio, allora devo accettare le regole internazionali del patrimonio.
Io trovo questo un punto di grande serietà e di grande severità, che sarebbe necessario affrontare.

 

 

Infatti lei diceva che allo IIT seguite un sistema diverso…

 

Il nostro è un sistema di reclutamento internazionale. Innanzitutto devo avere un meccanismo di valutazione che mi consenta di riconoscere i veri talenti e questi li devo veramente far «volare»: e su questo bisogna investire.
Una volta che abbiamo creato un vivaio di talenti con la scuola, con la divulgazione scientifica, con l’informazione televisiva, con dei giornali, con tutto (perché è un ecosistema, quello dell’innovazione e della cultura), dobbiamo poter dare alle persone migliori che sono state selezionate a livello internazionale la possibilità di fare quello che vogliono, perché abbiamo fatto la selezione a monte e perché a quel punto la scienza non deve avere l’applicazione immediata.
Se invece selezioniamo con la Gazzetta Ufficiale, i concorsi universitari, il settore disciplinare, l’assistente dell’assistente dell’assistente, e poi si lasciano libere quelle persone di fare quello che vogliono, non possiamo aspettarci grandi risultati, perché non sono cresciuti in un vivaio, ma in una catena di montaggio.

Invece, siccome l’Istituto è una Fondazione finanziata dallo Stato ma di diritto privato, come il Max Planck e gli altri migliori istituti europei, noi possiamo operare secondo le regole internazionali.
Perciò quando io ho un programma di ricerca, vedo cosa mi serve e poi metto su Nature, su Science, sulle grandi riviste internazionali e sui grandi motori di ricerca l’avviso che mi serve, per esempio, un esperto di supercalcolo, e allora ricevo proposte da tutto il mondo; ho più di duecento esperti che lavorano tutti fuori dall’Italia per evitare conflitti di interessi, mando loro i curriculum che ho ricevuto e loro mi fanno la short list, cioè mi indicano quelli che a loro parere sono i cinque migliori: questi cinque noi li chiamiamo, li intervistiamo (sempre con esperti esterni) e prendiamo il migliore, come si fa con una squadra di calcio.
Quest’anno abbiamo messo a bando internazionale dieci posizioni: ne abbiamo coperte solo cinque, perché cinque ricercatori che avevamo scelto hanno avuto una contro-offerta migliore dalle loro istituzioni di appartenenza che se li volevano tenere a tutti i costi. Ecco perché abbiamo la metà di stranieri.

 

 

E questa è la prova che quelli che sostengono che l’università italiana non attira i ricercatori stranieri perché è di cattiva qualità, dicono una colossale menzogna: la qualità dell’università italiana è ancora ottima, quello che non funziona è l’organizzazione, tant’è vero che quando si seguono regole sensate, gli stranieri vengono di corsa!

 

Allora, in primo luogo non bariamo: se io faccio la Gazzetta Ufficiale italiana, non posso pretendere di attirare gli stranieri. Ma questo è un problema di burocrazia, che non riguarda l’organizzazione dell’università in sé. Detto questo, veniamo alle cose serie.
In primo luogo, se c’è la fuga dei cervelli, vuol dire che questi cervelli qualcuno se li compra, quindi vuol dire che sono buoni: infatti l’Italia ha ancora delle università eccellenti. Il problema è che ne abbiamo troppe e alcune, che potrebbero non esserci, pesano sulle altre, che potrebbero essere migliori.
Poi, il problema non è la fuga dei cervelli: noi dobbiamo mandare i nostri giovani all’estero. Il problema è che per il flusso uscente di italiani non abbiamo un flusso entrante di stranieri. Allora il punto forte di IIT è che tanti ricercatori ne entrano quanti ne escono: e questo è caratteristico di un paese civile; altrimenti i tedeschi e gli americani, che godono di strutture di ricerca ottime, non andrebbero fuori dal loro paese. E invece ci vanno lo stesso, perché andare fuori non è andare a cercare una cosa migliore, è solo andare a vedere una cosa diversa: è un problema culturale.
Il fatto che noi non siamo «attrattivi» è perché abbiamo delle regole che all’estero sono inconcepibili. Infatti allo IIT, che ha le stesse regole che ci sono in Germania e in America, la gente ci viene da tutto il mondo e se dessimo la stessa possibilità alle grandi università italiane, secondo me sarebbero anche loro piene di ricercatori stranieri. È solo una questione di burocrazia e di mentalità leguleia, non un problema scientifico.

 

 

E la scuola?

 

Sulla scuola non ho particolari competenze, a parte quella di padre. Credo però che la scuola necessiti di un radicale ripensamento, perché il mondo negli ultimi quindici anni è troppo cambiato.
Un punto cruciale è l’aggiornamento del corpo docente. È evidente che mentre su certe materie si può ancora fare da sé, su certe altre, soprattutto quelle tecnico-scientifiche, è necessario un aggiornamento sul campo. Allora qui bisognerebbe creare delle sinergie.
Per esempio, una delle iniziative che vorrei lanciare quest’anno è aprire il nostro Istituto a un centinaio di docenti di materie scientifiche dei licei della Liguria e dar loro la possibilità di fare degli stage di venti, trenta o quaranta ore, anche di sabato, in modo che possano venire a mettere le mani nel laboratorio; occorre che questi stage vengano riconosciuti dal Ministero come percorsi volontari di formazione e quindi anche premiati in qualche maniera.
Ecco, bisognerebbe cercare di travasare un po’ delle conoscenze degli enti di ricerca e delle università ai docenti in una maniera interattiva. Non è un grande impegno, si può fare anche gratuitamente. E poi i docenti passeranno quanto appreso ai loro studenti.
L’altro grande problema è che la carriera dell’insegnante non è più attrattiva, è una carriera di ripiego. Questo non va bene. Se noi crediamo che la ricerca, la cultura, la scienza siano la base di una società civile, vi dobbiamo impegnare le migliori risorse.

 

 

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A cura di Paolo Musso (Università dell’Insubria di Varese – Consiglio Scientifico della rivista Emmeciquadro) e Nadia Correale (Docente di Matematica e Scienze alla Scuola Secondaria di I° grado – Redazione della rivista Emmeciquadro)

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 59 di Emmeciquadro

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