La dimensione tecnica è costitutiva della «natura» dell’uomo. La vita dell’uomo è originariamente vita «tecnica».
Per questo non ha senso condannare la tecnica in nome di una autenticità umana; neppure di fronte all’attuale accelerazione dell’innovazione tecnologica basata sulla digitalizzazione diffusa, con tutti i grandi interrogativi che pone.
Piuttosto si tratterà di cercare nuovi modi di fare esperienza della tecnica.



Lo sviluppo tecnologico attuale e la sua invadenza in tutti gli ambiti della vita personale e della comune convivenza è ormai tema di ampio dibattito, nel quale le visioni preoccupate di chi vede molteplici minacce addensarsi su un orizzonte non molto lontano si alternano all’entusiasmo di quanti considerano comunque valido tutto ciò che è semplicemente innovativo.
Chi ha una responsabilità educativa non può rinunciare a un modo meno schematico e più approfondito di affrontare le questioni in gioco, che toccano aspetti fondamentali legati alla visione dell’uomo, dalla modalità di interagire con gli strumenti tecnici alla responsabilità con cui governare questa peraltro inevitabile interazione.
Abbiamo iniziato già nei numeri precedenti un lavoro di approfondimento, che ora trova un contributo significativo in questa conversazione con Carmine Di Martino, Docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano.



In alcuni suoi interventi lei ha messo in evidenza il fatto che non esista uomo senza tecnica. Come si può spiegare?

Molte sono le ricerche che, da almeno un secolo, si sono proposte di ricostruire il rapporto tra l’uomo – il «divenire umano della vita», l’ominazione – e la tecnica. Le teorie di riferimento di tali tentativi sono varie e anche opposte fra loro.
Una di queste è quella di matrice herderiana e nieztscheana, fatta propria dall’antropologia filosofica di inizio Novecento, che descrive l’uomo come un animale carente, malato, biologicamente sprovveduto e dunque costretto a dotarsi di una seconda «natura», tecnico-culturale, per sopravvivere.
In quest’ottica ogni artefatto, dagli utensili più elementari fino alla parola e alla scrittura, apparterrebbero a tale seconda natura «culturale e tecnica» dell’uomo.



Proviamo a ripercorrere i passi salienti di questo sviluppo all’interno della storia umana.

I primi vent’anni del secolo XX sono segnati da un sorprendente numero di scoperte di uomini primitivi. Nel secondo dopoguerra, in particolare, le ricerche paleoantropologiche rivoluzionano profondamente il modo di considerare il problema delle origini dell’uomo, conducendo a separare radicalmente la discendenza dell’uomo da quella delle scimmie antropoidi.
Nel 1959, con la scoperta da parte di Louis Leakey, in Kenia, dei resti dello Zinjantropo, viene accreditata la presenza di un essere costruito sostanzialmente come noi, che camminava eretto e lavorava la selce, vissuto circa 1,8 milioni di anni fa. I resti erano circondati da una notevole quantità di utensili, a documentazione della esistenza di una vera e propria «industria» litica.
A tale ritrovamento ne seguirono altri, che rafforzarono l’ipotesi di «ominidi» vissuti tra 1,5 milioni e 2 milioni di anni fa, non più collocabili tra le scimmie antropomorfe o qualificabili come «anello mancante» tra scimmia e uomo, ma già chiaramente identificabili come appartenenti al genere Homo (Homo habilis, come è stato definito dagli scienziati, nella sua distinzione da Homo sapiens).
Vengono via via fissati i criteri per distinguere l’uomo: il primo e il più importante di essi è la stazione eretta, cui si uniscono la faccia corta, la mano libera durante la locomozione, il possesso di utensili movibili e il linguaggio (pur in forme elementari). Tramonta per sempre l’idea di una derivazione dell’uomo dalla scimmia: si può pensare una comunanza di origini della scimmia e dell’uomo solo nella forma di un antenato comune, ma nel momento in cui è stabilita la stazione verticale appare un essere che non può più essere confuso con la scimmia.
Un tecnicismo riconoscibilmente «umano» è presente anche nelle forme più antiche di Homo; e, sebbene esseri zoologicamente prossimi a noi, come lo scimpanzé, sembrino avvicinarsi a un tecnicismo elementare, permane, come osserva André Leroi-Gouhran nella sua opera più nota, «un abisso insondabile tra l’atto della scimmia che infila uno nell’altro due bambù per salire su una cassa e cogliere una banana e il gesto creatore dello Zinjantropo» (Il gesto e la parola, p. 96). Quest’ultimo implica già una effettiva coscienza tecnica, sebbene questa non possa essere misurata col nostro metro. Per centinaia di migliaia di anni, infatti, l’industria dell’homo habilis resta identica a se stessa, senza apprezzabili mutamenti.
Si può in ogni caso dire che il tecnicismo contrassegni la comparsa dei supposti primi esemplari di Homo, accompagnando la lunga transizione che conduce dalle prime forme di Homo habilis fino all’Homo sapiens. Nella ricostruzione di questo vertiginoso cammino l’attuale paleoantropologia colloca a circa 80.000-60.000 anni fa i segni della apparizione degli esseri umani moderni, quali noi siamo, vale a dire dell’Homo sapiens.

Noi possiamo oggi farci un’idea abbastanza precisa di come doveva essere la vita delle popolazioni di Homo sapiens di circa 45.000-35.000 anni fa sia a partire dalle testimonianze tecniche e artistiche – come le definiamo noi – in nostro possesso (si pensi per esempio alle straordinarie pitture parietali della grotta di Chauvet, risalenti a circa 32.000 anni fa) sia a partire dalla vita dei popoli cosiddetti «primitivi», che non hanno cioè conosciuto la civilizzazione, tuttora esistenti sul pianeta (la cui sopravvivenza è oggi in qualche misura protetta).
In sintesi, concentrandosi sul nostro tema e abbandonando le problematiche paleoantropologiche, non c’è umanità che non sia tecnico-culturale.
Nemmeno il corpo umano è mai mero corpo «naturale», bensì sempre corpo «culturale», cioè segnato, disegnato, tecnicamente e culturalmente modificato (anche nelle comunità che vivono in contesti climatici favorevoli, tali da non esigere abiti di sorta, il corpo dei soggetti adulti è sempre distinto dal corpo animale da segni o protesi, come i dischi inseriti nel lobo dell’orecchio o nel labbro inferiore, eccetera; secondo quanto possiamo vedere nell’ultimo lavoro di Sebastião Salgado, Genesi, in cui sono ritratti uomini appartenenti a comunità primitive attuali).
L’artificialità appartiene, insomma, all’alba della vita umana sul pianeta.

 

 

Questo agli inizi. Poi cosa accade?

 

La sedentarizzazione, avvenuta circa 10.000 anni fa, rappresenta una sorta di spartiacque. Si tratta di un mutamento profondo che dà luogo a una accelerazione improvvisa dell’innovazione tecnica. Taluni gruppi umani, in determinate condizioni ambientali, passano dall’essere cacciatori e raccoglitori all’essere coltivatori e allevatori.
Con la trasformazione provocata da agricoltura e allevamento spuntano i primi villaggi permanenti e si avvia il processo di sedentarizzazione. Se in un regime economico basato sulla caccia e sulla raccolta dei vegetali i gruppi sono composti da un numero limitato di individui dei due sessi, specializzati quanto alle funzioni e in ciclico movimento sul territorio (a seconda del «percorso» del cibo: selvaggina e vegetali), nel nuovo regime di agricoltura e allevamento si verifica invece la concentrazione stabile di un numero relativamente alto di individui su uno stesso territorio, grazie alla presenza di riserve alimentari e grazie alla protezione dall’ambiente naturale e dall’insidia rappresentata dagli altri gruppi mediante apparati difensivi.
Intorno al 6.000 a. C. compare l’industria della ceramica e poi, verso il 3.500 a. C., cominciano ad apparire la metallurgia e la scrittura. Sono occorsi circa trentamila anni all’Homo sapiens per approssimarsi alle soglie dell’agricoltura e ne sono bastati duemilacinquecento di agricoltura e di sedentarietà affinché le società medio-orientali entrassero in possesso delle basi tecno-economiche che reggono tuttora l’edificio umano.
Con lo sviluppo di insediamenti organizzati e la disponibilità di riserve alimentari, si crea la possibilità di «liberare» alcuni individui dalle attività immediatamente collegate alla produzione alimentare per altre attività, come quelle «tecnico-artigianali».
Alla disponibilità del tempo necessario perché spunti l’invenzione, si aggiunge l’aumento della popolazione e quindi dei suoi bisogni, i quali costituiscono un pressante appello all’innovazione. Tale spinta non ha motivo di presentarsi in gruppi che hanno le dimensioni equilibrate di una «unità di sopravvivenza» mobile e vivono in ambienti sufficientemente provvisti di risorse oppure si spostano alla loro ricerca. Liberazione del tempo e appello all’innovazione possono quindi essere considerate condizioni del progresso accelerato delle tecniche.
Le arti del fuoco, ceramica e metallurgia, e la scrittura rappresentano una sorta di risposta a un tale appello: attraverso esse si affrontano i problemi dell’immagazzinamento delle risorse, della fabbricazione degli strumenti da lavoro e delle armi, della contabilizzazione dei beni, della fissazione delle genealogie e delle proprietà, in una società che si è complessificata e gerarchizzata. Difficile, nell’ambito degli accenni compiuti, sottovalutare l’importanza della scrittura, della sua influenza nella modificazione delle pratiche di conoscenza e di archiviazione del sapere.
In particolare, il passaggio dalle prime scritture logo-grafiche a quelle sillabiche e da queste alla scrittura alfabetica costituisce un vero e proprio crinale tra le culture orali e «la» civiltà della scrittura, l’unica in senso stretto, vale a dire l’Occidente, poiché solo la scrittura alfabetica utilizzata dai Greci consente effettivamente l’abbandono dei moduli compositivi e rimemorativi dell’oralità nella formazione e trasmissione dei saperi della comunità (diversamente da ciò che avviene nelle culture che possiedono una scrittura sillabica, come quelle semitiche, o una scrittura ideo-grafica, come quella cinese, che segue un altro percorso).

 

 

Quando e perché avviene, invece, il salto tecnologico che conduce alla situazione tecnologica attuale?

 

Lo sviluppo tecnologico prosegue con una velocità costante, con modifiche abbastanza graduali, fino alle due rivoluzioni industriali. A quel punto avviene un’impennata. Con l’invenzione della elettricità si verifica un significativo ampliamento degli spazi di vita e dei tempi d’azione.

Diventa possibile, per esempio, compiere su vasta scala delle attività «notturne» come se si fosse alla luce del giorno. Inoltre, con l’invenzione della macchina a vapore prima e con quella del motore a scoppio poi, si realizza un inaudito sviluppo della locomozione.
Verso la fine dell’Ottocento inizia anche il processo di automazione nelle industrie tessili, grazie all’utilizzo di schede perforate che permettono la programmazione della tessitura senza che sia necessario l’intervento dell’uomo.

 

Grazie ad elettricità, locomozione e automazione cresce notevolmente, in una misura mai sperimentata prima, il livello di liberazione dalle condizioni ambientali e di emancipazione dalla forza lavoro animale e umana nella realizzazione dei processi produttivi. Si creano così le premesse per il salto tecnologico attuale, cioè la digitalizzazione.

 

 

Arriviamo quindi all’oggi. La presenza di strumenti tecnologici è diventata pervasiva: quali possono essere gli effetti?

 

Siamo ancora troppo coincidenti con quello che sta accadendo per pensarne in modo non superficiale gli effetti, per avvederci della ristrutturazione dell’esperienza e delle diverse procedure di formazione del sapere cui esso dà luogo. È evidente che, con l’introduzione dell’informatica, si sia realizzata un’inedita e vertiginosa accelerazione dell’innovazione tecnica.
L’informatica ha svolto e sta ancora svolgendo il ruolo di uno straordinario moltiplicatore. Il calcolo che poteva effettuare una intera comunità scientifica in tempi molto lunghi oggi può essere svolto da una sola macchina in un tempo minimo. Con l’uso del computer possiamo realizzare simulazioni di situazioni che ci permettono di giungere alla formulazione di ipotesi previsionali prima impensabili. La rivoluzione cibernetica ha impresso a tutti i processi una accelerazione inaudita, consentendo passaggi o avanzamenti che non sono solo quantitativi.
Tuttavia, riecheggiando il titolo di un’opera di Gunther Anders, L’uomo antiquato, la nostra consapevolezza viaggia a una velocità incomparabilmente più modesta rispetto a quella dell’innovazione tecno-scientifica.
Siamo quasi presi per il bavero dal mutamento e siamo senza posa sottoposti allo stress di adeguarci, di conformarci ai nuovi strumenti e dispositivi tecnologici.

 

 

Non entrano in gioco qui i problemi legati alla minaccia della tecnica alla vita?

 

Certamente. Ricordo due momenti apicali, emblematici, della nostra epoca, uno precedente e l’altro conseguente alla rivoluzione informatica: lo sganciamento della bomba atomica su Hiroshima e la clonazione della pecora Dolly.
Qui la tecnica si rivela in tutta la sua minacciosità e problematicità. Ma si tratta di una eruzione dall’interno dell’esperienza umana e non dall’esterno. Vale a dire, l’azione della tecnica non coglie l’umano di sorpresa, poiché ne ha da sempre accompagnato l’emergenza.
Nel primo caso, per ora, non è stato più fatto un uso attivo della potenza nucleare in ambito bellico, anche se sono state introdotte altre armi non meno deleterie dal punto di vista qualitativo, come quelle batteriologiche.
Nel secondo caso, invece, per quanto sembri sbarrata la strada di una clonazione che riguardi esseri umani, la manipolazione del nostro testo genetico è certamente una delle questioni più aperte oggi e pone enormi interrogativi.

 

 

Perché sarebbe utile ripercorrere i passi dello sviluppo umano per parlare della tecnologia oggi?

 

La ragione principale è quella di evitare una sorta di «originarismo anti-tecnologico» o, per usare una espressione di Peter Sloterdijk, una «isteria anti-tecnologica», in cui si può essere tentati di cadere quando il pericolo cresce, senza accorgersi che quando l’uomo utilizza la tecnica non fa niente di diverso da ciò che lo ha caratterizzato dall’origine.
Non vi è motivo di sorprendersi, perciò, di fronte all’«ingerenza» della tecnica, per esempio in campo medico: molti di noi sono già dei cyborg, hanno già un organismo cibernetico, vale a dire portano occhiali, hanno protesi dentarie, placche di titanio inchiodate alle ossa, valvole cardiache e così via.
Certo, si tratterà di dare una valutazione –etica e politica–, di considerare se quella determinata modificazione è approvabile, ma innanzitutto occorre cogliere che non vi è da una parte la vita, una vita pura, naturale, e dall’altra la tecnica, che interviene dall’esterno a corrompere la mera natura. Giacché l’uomo non potrebbe affatto sopravvivere senza la sua «seconda natura» tecnico-culturale.
Rispetto al rapporto tra vita e tecnica, tale riconoscimento ci permetterebbe di considerare le trasformazioni che stanno accadendo in maniera meno reattiva, più consapevole.

 

 

Se, come lei ha fatto notare, da sempre l’uomo vive la sua corporeità integrandola con delle protesi, con dei supporti artificiali, le cui applicazioni si stanno estendendo enormemente, si può parlare di un attuale abuso «protesico»?

 

Questo è il tema del cosiddetto post-umano o trans-umano, di un corpo a tal punto modificato tecnologicamente che arriverebbe a perdere o superare, a seconda dei punti di vista, molte caratteristiche o limiti che oggi lo identificano come umano.
Per affrontare la discussione, anche nei suoi risvolti più spinosi e delicati, tra cui quello della manipolazione genetica, non bisogna tuttavia dimenticare, come accennavo prima, che non vi è mai stato un uomo puramente naturale, al di qua di una compromissione con la tecnica.

L’uomo, potremmo dire, è per sua natura culturale, tecnico: il suo stesso corpo è un corpo-cultura, che non si trova mai in uno stato meramente naturale, ma sempre tecnologicamente modificato (indumenti, cosmesi, aggiunta di elementi artificiali di vario genere, eccetera).
Nell’uomo vi è già da sempre un altro modo di essere corpo, rispetto all’animale (che non si veste e non si modifica artificialmente). Perciò la logica bivalente, che tende a opporre i poli naturale/culturale, naturale/artificiale, vita/tecnica, non è adatta a cogliere la vita umana.
Se vogliamo parlare dell’uomo in azione nel suo mondo, dobbiamo sempre compenetrare i due aspetti, includere il loro intreccio. Una volta detto ciò, è necessario porsi l’interrogativo sui limiti e sulla sensatezza di una determinata trasformazione tecnica dell’organismo umano.

 

 

Questa però non sembra una posizione diffusa; anzi, si nota quasi uno strano «gusto», soprattutto nell’ambito della cultura umanistica, a svalutare la tecnologia, fino a vederla come nemica dell’uomo. Come si spiega tale opposizione?

 

È perché si pensa che l’artefatto irrompa dall’esterno nell’esperienza umana. In questa immagine, la naturalità coincide con il non-tecnico, il non-culturale, come se fosse rintracciabile nell’uomo un simile livello.
[A destra – credits: Fraunhofer IPT]
La tecnica assume allora l’aspetto di una corruzione dell’originario, concepito come il pre-tecnico, il pre-culturale, come vita pura, incontaminata, appunto «naturale».
In realtà ciò non sarebbe per nulla auspicabile, in quanto l’uomo, per quanto accennato prima, non sarebbe nemmeno sopravvissuto se non fosse stato un essere «tecnico per natura»: senza una liberazione tecnico-culturale dai suoi limiti corporei, sarebbe stato sopraffatto dall’ambiente naturale e dal confronto con le altre specie di viventi, assai più attrezzate sul piano biologico.
È per il suo originario tecnicismo che la specie Homo ha potuto non solo sopravvivere, ma diffondersi in ogni tipo di ambiente, dall’Africa equatoriale fino alle zone polari.

 

 

Perché molto spesso prevale la paura dei cambiamenti introdotti dalla tecnica?

 

Consideriamo la storia. Quando entra in circolazione un nuovo strumento, si modificano le nostre pratiche di vita, le nostre abitudini, «ciò che si è sempre fatto», e facilmente si grida alla perdita dell’originario, della naturalità, che è poi un altro nome della tradizione consolidata. Tutto questo è nuovo e antico. Prendiamo l’esempio della scrittura alfabetica.
Quali sono state le reazioni dei protagonisti di allora? Platone, nella Lettera VII, condanna la scrittura perché corrompe la memoria e la capacità di pensare, induce la presunzione di sapere: il possesso di discorsi scritti che si possono ripetere a pappagallo, senza averne una vera comprensione, dà l’illusione di possederne i contenuti.
Ora, se guardiamo con più attenzione al fenomeno, dobbiamo dire che non sarebbe concepibile un sapere filosofico-scientifico senza la scrittura alfabetica. Platone non si avvedeva dell’importo costitutivo della scrittura nella formazione di quel sapere unico che chiamiamo filosofia, di cui egli era il primo grande rappresentante.
Sono passati tanti secoli, nel corso dei quali la scrittura alfabetica ci ha profondamente modificati, ha cambiato il modo di formare e capitalizzare le nostre conoscenze: noi tutti, ormai, ci educhiamo a leggere e scrivere per acquisire una mentalità logico-definitoria.
Il disorientamento si è ripetuto con l’avvento della stampa: grazie a essa, un testo può essere diffuso in un numero di copie illimitato e in maniera incontrollata, capitare nelle mani di tutti; avanza lo spettro di una corruzione del percorso naturale del sapere, che viene messo a disposizione diretta degli individui, li emancipa da una fruizione di scuola. Le conseguenze della stampa sulla formazione e circolazione del sapere sono state enormi.
Ora, in tempi recenti, qualcosa di analogo è accaduto con la scrittura elettronica e la navigazione nella rete, che di nuovo è sembrata introdurre la corruzione nella «naturalità». Si sentono spesso elencare, tra le conseguenze della tecnologia informatica, la perdita della capacità di riflessione, la diffusione di un sapere piatto e preconfezionato, il ritorno analfabetizzante all’immagine nella dinamica della comunicazione, eccetera.

 

 

In genere la reazione all’invadenza o agli eccessi nell’utilizzo della tecnica è solo di tipo etico: si parla di strumenti buoni o cattivi, di applicazioni positive o negative. Qualcuno però ritiene questo giudizio riduttivo e insufficiente. È d’accordo?

 

Sì. È insufficiente perché, invece di spingere a cercare un altro rapporto con la tecnica, si limita a segnalare i rischi – presunti o reali – della tecnica e a formulare una condanna generica della sua invadenza.
Ma non ci si può ridurre all’alternativa «tecnica sì, tecnica no», tale alternativa viene sempre troppo tardi (per esempio, tutto quello che riguarda il «bio» non è un ritorno a una fase pre-tecnica bensì un prodotto raffinato della tecnica, un altro modo di fare esperienza della tecnica, seguendo altre vie).
Si tratta, allora, di interrogarsi su modi di esperienza della tecnica, che includono anche una valutazione etica. In proposito Sloterdijk distingue tra «allotecnica» e «omeotecnica»: la prima è la tecnica che lacera, che forza, che interviene sulla Natura violentemente, voracemente; la seconda, invece, è la tecnica che entra in dialogo con la Natura, cercando una alleanza, un equilibrio.

Il problema, dunque, va affrontato senza rifugiarsi nello schema del tutto illusorio della pura e semplice alternativa, pro o contro, ma cercando nuovi modi di fare esperienza della tecnica.

 

 

In quale misura questa scelta tra i modi implica i piani antropologico ed etico?

 

Dobbiamo sempre decidere tra un modo e un altro di esperirci come esseri tecnici, giacché non possiamo mai portarci realmente al di qua della tecnica: ciò significherebbe regredire al di qua dell’umano. E dobbiamo sempre decidere tra un modo e un altro di essere uomini, di soggiornare nel mondo con gli altri, e questo è il livello etico. È qui in gioco (come in ogni piega dell’esistenza singola e associata) una concezione di uomo e un senso della responsabilità.
Oggi, in rapporto con ciò che accade, è sempre più sottolineato il fatto che una responsabilità per essere tale debba implicare la dimensione del futuro. Quando Hans Jonas, ne Il principio responsabilità, parla della responsabilità includendovi le generazioni future, porta la responsabilità all’altezza di problemi che non si erano mai presentati prima.
Possiamo agire come se il mondo finisse con noi, oppure agire includendo il bene delle generazioni future: ciascuno dovrà valutare come collocarsi in questa alternativa.

 

 

Questo della responsabilità è anche il tema dell’enciclica Laudato si…

 

Non è un caso che una figura come il Papa abbia deciso di scrivere un’enciclica sull’ecologia. Il modo in cui l’uomo tratta la Natura è in profonda connessione con il modo in cui tratta l’altro, la vita, il tempo, i beni. La stessa rapacità nel rapportarsi alla Natura si ritrova sul piano sociale e politico.
Si pensi al capitalismo tecno-finanziario e alle sue conseguenze sulla convivenza, sugli equilibri sociali: lo stile di questo capitalismo sembra quello «allotecnico».
L’ecologia ha a che fare con l’intero essere al mondo dell’uomo con gli altri, perciò con la questione del senso del vivere, problematizzato e riconosciuto.

 

 

La scuola, anche rispetto ai temi che stiamo toccando, ha un ruolo fondamentale; che diventa cruciale se si considera la tendenza a un uso massiccio e talvolta acritico degli strumenti tecnologici. Cosa ne pensa?

 

Occorre ricordarsi che ogni strumento ha una capacità riconfigurativa dell’intera esperienza cognitiva.
[A sinistra – credits: Fraunhofer IPT]
Siamo soliti dire: «uso il tale strumento», come se ci fosse un rapporto di mera utilizzazione tra un soggetto già costituito, padrone della situazione, e degli strumenti al suo puro servizio; dimentichiamo di aggiungere che anche lo strumento fa qualcosa di noi, o meglio, fa di noi un diverso qualcuno, cioè ci forma, plasma la nostra fisionomia, il nostro modo di conoscere.
Il medium «è» il messaggio, diceva Marshall McLuhan, con una formula che ha avuto fortuna. Il che significa: è il medium il messaggio più decisivo, poiché esso ha la capacità di configurare i «suoi» contenuti, «pre-scrivere» i messaggi (si pensi alle considerazioni proposte sopra sul rapporto tra scrittura e procedere filosofico-scientifico).
Questa realtà non deve per nulla allarmarci, indurci a vietare i nuovi strumenti o, al contrario, a subire i cambiamenti come una catastrofe. Si tratta di essere il più possibile consapevoli della performatività di ogni medium, per poterla mettere a frutto, senza condanne aprioristiche né facili idolatrie.

 

 

Tuttavia gli insegnanti dovrebbero intraprendere un grande lavoro, che solitamente non avviene, per capire quali sono le capacità che si perdono, che si guadagnano e che si possono riconfigurare.

 

Occorre non essere dogmatici: non esistono degli assoluti, ma delle possibilità che si intrecciano; senza dimenticare poi i problemi che si aprono, come quelli legati alla velocità vertiginosa con cui questi mezzi diventano obsoleti, il che mette paradossalmente a repentaglio la possibilità di trasferimento e archiviazione dei dati (ciò che si presentava come uno dei punti di forza delle nuove tecnologie).
Di fronte a ogni strumento, invece di assumere un atteggiamento immediatamente difensivo, si può cercare di verificare come esso svolge la sua azione ristrutturante e riconfigurante, puntando sulla compresenza di una pluralità di metodi.

 

 

Un esempio di problema aperto riguarda l’utilizzo massiccio di strumenti che sono per natura distrattivi (si pensi agli ipertesti, costellati di link, immagini, pulsanti): pur avendo dei pregi, non ritiene che suscitino forti preoccupazioni pedagogiche, ad esempio nel limitare la possibilità di sviluppare la capacità di attenzione?

 

Credo che la scelta migliore consista in una formazione multilaterale, tenendo presente – per accennare esemplificativamente – che la scrittura e la lettura restano indispensabili anche per l’uso del computer e offrono la possibilità di ordinare «logicamente» (che vuol dire linearmente, sequenzialmente, dimostrativamente) il pensiero, mentre l’uso della rete facilita l’individuazione dei nessi e la realizzazione di schemi o mappe complesse, non lineari, aprendo a un’altra «logica».
Ma deve essere l’insegnante in prima persona a sperimentare ciò che è utile per i propri studenti anche in base all’età. Imparare linguaggi nuovi è stimolante; perciò, piuttosto che prendere aprioristicamente partito, credo sia importante essere curiosi, disponibili a sperimentare.

 

 

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A cura di:
Mario Gargantini (Direttore della rivista Emmeciquadro) e Nadia Correale (Membro della Redazione della rivista Emmeciquadro)

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 61 di Emmeciquadro

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