Per completare la rassegna di articoli dedicati al ciclo di incontri La contemporaneità: conoscerla per insegnarla, organizzato da Diesse Lombardia (si vedano i precedenti interventi: Le sfide della contemporaneità e Una seconda sfida decisiva per gli insegnanti: il tema dei diritti), cercherò di indicare alcuni dei punti più significati degli ultimi due momenti, ovvero delle due ulteriori sfide prese in considerazione.
La terza sfida culturale di cui ci si è occupati, è stata quella rappresentata dalla globalizzazione nei suoi aspetti economici e linguistici: una visione fondamentalmente utilitaristica sembra consegnare sia economia sia linguaggio a una progressiva omologazione.
Tale impoverimento del patrimonio culturale dell’umanità è una condizione inevitabile della globalizzazione? In questo terzo incontro, Giovanni Gobber (Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore) e Paolo Preti (Docente di Organizzazione aziendale presso l’Università della Valle d’Aosta) hanno offerto un contributo particolarmente significativo relativamente ad alcune delle dinamiche principali, proprie della globalizzazione.
La riflessione, attraverso prospettive differenti, ha suggerito un’ipotesi di lettura molto interessante: non esiste un unico modo di intendere la globalizzazione, ma sono riscontrabili diverse possibilità. Sia da un punto di vista linguistico, sia da un punto di vista economico, la globalizzazione può comportare una progressiva omologazione, sacrificando differenze e identità.
Esiste, però, anche un’alternativa: uno sguardo veramente globale, cioè totale, in cui si cerchi di paragonare l’esperienza particolare, linguistica ed economica, con la totalità. Secondo un tale approccio, allora, non solo la propria identità non è messa in discussione, ma essa risulta sempre arricchita. In altri termini, la sfida, a cui siamo chiamati attraverso la cosiddetta globalizzazione, è tutt’altro che già decisa perché al centro di essa, come hanno evidenziato in diverso modo sia Gobber, sia Preti, vi sono la persona e la sua capacità di rapportarsi in modo autentico alla realtà.
In particolare, mi soffermo sulle osservazioni conclusive di Gobber: egli ha voluto evidenziare il carattere pervasivo della cosiddetta politically correctness, la correttezza politica, in quanto rappresenta un punto di vista contemporaneo molto radicato nelle nostre società. Questo punto di vista ritiene che la realtà prenda significato dopo che è stata detta, dopo che è stata verbalizzata, secondo un’impostazione di tipo costruttivistico, ovvero secondo quello che può essere considerato lo stadio estremo dello strutturalismo.
Si tratta di una forma di idealismo per la quale il significato non si scopre nell’esperienza ma è ottenuto attraverso il discorso. Secondo Gobber, di fronte a tale prospettiva, occorre ritornare a un atteggiamento realista riconoscendo nella realtà una grande ricchezza di cui le parole cercano appunto di afferrare qualcosa, attraverso un processo di continua approssimazione al vero. Proprio questo punto di vista realista, ha precisato Gobber, permette di cogliere la ricchezza di una prospettiva internazionale-globale, cross culturally oriented, senza rinnegare la ricchezza delle tradizioni, perché, nella misura in cui non viene meno il confronto con la realtà, disporre di una lingua internazionale consente di condividere le differenze; consente un reale confronto tra le diverse posizioni e un reciproco arricchimento.
Infine, come non occuparsi della contemporaneità dal punto di vista artistico-letterario, compito che non è sicuramente né semplice né immediato, ma fondamentale per tentare di aiutare a comprendere quale sia la posizione più adeguata per stare di fronte alla letteratura e all’arte contemporanea?
Questa è stata appunto la quarta sfida alla quale si è cercato di rispondere attraverso gli interventi di Stefano Bertani (Docente di Letteratura presso la Scuola Militare SSML Umanitaria – CIELS di Milano) e dell’esperto Giuseppe Frangi (giornalista e Presidente dell’Associazione Testori).
La riflessione sulla categoria del post-moderno, a partire dalle tesi di Roland Barthes, ha permesso di introdurre elementi di giudizio importanti, dei quali mi limito a segnalarne solo due: la tradizione della contemporaneità come linguaggio inclusivo, per quanto riguarda la letteratura, ovvero il tentativo di superare il dualismo di matrice cartesiana tra spirito e materia e il rifiuto di ogni forma di linguaggio specialistico; il superamento del quadro come forma espressiva nell’arte figurativa, ovvero l’esigenza di oltrepassare i limiti della tela per ampliare all’infinito la stessa espressività.
Anche in questo caso, come nei tre precedenti momenti, la riflessione ha portato a indicare come decisiva per l’uomo la ricerca di una identità profonda, mostrando come l’unico modo per comprendere a fondo la categoria della contemporaneità sia quello di evitare il riduzionismo che tende a concepire il contemporaneo con il presente.
Solo il recupero di ciò che sant’Agostino chiama distentio animi, permette di guardare letteratura e arte senza rimanere imbrigliati da schemi e da modelli di programmazione, a volte assunti acriticamente dagli stessi insegnanti.
Si capisce meglio tutto ciò se si tiene presente il contenuto della lettera del pittore Giorgio Morandi, scritta al musicista Thelonious Monk, citata proprio da Frangi durante l’incontro: «Da circa un mese lavoro, nella mia casa di Grizzana, a una serie di paesaggi in cui cerco un nuovo rapporto spaziale e cromatico tra gli elementi della composizione. Così, per qualche giorno, ho installato il cavalletto nel giardino di fronte ai due alberi da cui si intravede nel retro uno scorcio della casa, costretto però a lasciare puntualmente la tela bianca dopo essermi arreso più volte. Ragionavo sull’esistenza di una determinata tecnica adatta a tradurre quello che volevo fare, ovvero trovare un segno in grado di esprimere il significato che attribuiamo a una parola come pittura, o musica nel suo caso. […] Ma la tecnica è un incidente, mai un progetto, poiché è proprio il discorso artistico, quello più vero e profondo, che mette in crisi la relazione tra il nostro sguardo e la realtà di tutti i giorni, giocando d’anticipo sul pensiero dell’autore, e creando ogni volta un gesto “su misura”. In margine alla nuda realtà, all’evidenza delle cose oggettive, lo sguardo di un artista può permettersi un certo grado di miopia, spingendo il suo sguardo nello spazio in cui il mondo che già conosciamo possiede una seconda vita. Così ogni opera d’arte non è che la possibilità di avere altri occhi, di moltiplicare una realtà non più di fronte a noi, ma scavata nel nostro vissuto, nel nostro piccolo mondo di esseri umani».
Come si può facilmente capire, dalle tante suggestioni, qui e nei precedenti articoli solo accennate, offerte in questo ciclo La contemporaneità: conoscerla per insegnarla dai numerosi relatori, molti dei quali si sono resi disponibili a continuare a collaborare, risulta al quanto utile proseguire tale lavoro di approfondimento anche il prossimo anno.
Per questo Diesse Lombardia intende progettare un nuovo percorso che ponga ancora a tema la contemporaneità e le sue sfide per porsi in modo sempre più consapevole di fronte al cambiamento d’epoca in atto, come lo stesso papa Francesco ha indicato: «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli».
Giulio Luporini
(Docente di Storia e Filosofia nella Scuole secondaria di secondo grado, è membro del direttivo di Diesse Lombardia -Didattica e innovazione scolastica, Centro per la formazione e l’aggiornamento)
© Pubblicato sul n° 61 di Emmeciquadro