Dalle frontiere delle nanoscienze applicate alla medicina, la testimonianza di un approccio innovativo alla ricerca; che integra i fattori della elevata competenza specialistica e della interdisciplinarità con un intervento attivo nelle fasi dello sviluppo farmaceutico e con la pratica della condivisione con i pazienti in un rapporto costante e costruttivo.
L’incontro con Mauro Ferrari, iniziatore e protagonista di primo piano negli Stati Uniti di un’attività di ricerca in nanomedicina applicata alla cura dei tumori.



In occasione dell’annuale appuntamento European House Ambrosetti di Cernobbio a Villa d’Este – dove si radunano diverse figure rappresentative delle istituzioni internazionali del mondo della ricerca, dell’economia e della politica – abbiamo colto l’opportunità di intervistare il professor Mauro Ferrari, direttore dell’Institute of Academic Medicine del Methodist Hospital System ed Executive, uno dei maggiori esperti di nanotecnologie in medicina a livello mondiale.
Ferrari è stato anche ospite quest’anno del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli di Rimini, dove ha illustrato brevemente l’ultima scoperta effettuata dal suo gruppo di ricerca presso lo stesso ospedale da lui diretto e che da molti anni è impegnato nello sviluppo di innovative cure per i tumori.



Può spiegarci brevemente in cosa consiste questa nuova tecnica di cura per i tumori?

La nostra scoperta, riportata sulla rivista specializzata Nature Biotechnology del marzo scorso, riguarda la cura di un tipo di tumore al seno estremamente aggressivo (chiamato triplo negativo) e consiste nell’aver riscontrato la possibilità di impiegare un farmaco di nuova generazione nell’ambito della nanotecnologia; più propriamente, di un generatore di nanoparticelle.
Tale farmaco (denominato iNPG-pDox) è stato testato su centinaia di modelli animali preclinici nei quali era stato iniettato o trapiantato il tumore che causa metastasi polmonari ed epatiche. In particolare, sui topi più del 50% viene completamente curato: l’altro 50% vive il triplo più a lungo di quelli a cui sono stati somministrati i farmaci attualmente a disposizione.
Essendo ogni tipo di tumore metastatico estremamente complesso, anche il farmaco lo deve essere di conseguenza; infatti è dotato di più componenti che agiscono una dopo l’altra: le prime (le iNPG) hanno il compito di superare alcune barriere protettive biologiche specifiche per ogni tipologia di metastasi tumorale; a questo punto le nanoparticelle che contengono il farmaco polimerico (pDox) possono essere sintetizzate dalle cellule tumorali stesse con gli ingredienti da noi forniti.
Questo metodo consente di evitare che il farmaco sia espulso attraverso un sistema di pompaggio molecolare periferico alla cellula che si occupa di eliminare ciò che non viene riconosciuto. Nella seconda fase le nanoparticelle, attraverso dei sistemi di trasmissione interni alla cellula, vengono portate vicino al nucleo, dove viene rilasciato il farmaco che ha il compito di attaccarlo.



Da quanto tempo è attivo questo nuovo filone di ricerca che utilizza le nanotecnologie per la cura dei tumori?

Il filone di ricerca più generale della nanomedicina applicata alla cura del cancro può essere collocato all’interno del Programma Federale degli Stati Uniti, tuttora in corso, di cui sono stato ideatore e direttore tra il 2003 e il 2005.
Tenga presente che attualmente il 5-10% dei farmaci presenti sul mercato sono di tipo «nano» e sono quasi tutti riconducibili alla nostra esperienza del 2003-05.
Per quanto riguarda questo nuovo farmaco multi componente, non possiamo propriamente considerarlo appartenente alla stessa tipologia in quanto utilizza micro (non nano!) particelle di silicio, inventate nel 1994; esse somigliano alle piastrine presenti nel sangue, che svolgono un ruolo equivalente.
Come dicevo prima, sarà poi il tumore stesso che sintetizzerà le nanoparticelle portatrici del farmaco, per evitare che il principio attivo chemioterapeutico venga rigettato. Certamente la complessità di questo nuovo farmaco comporta maggiori difficoltà di omologazione ma a vantaggio di una maggior efficacia.

Quali sono le tempistiche che prevedete necessarie per passare alla distribuzione del farmaco ai pazienti?

Diciamo che questo è l’aspetto al quale ho dedicato maggior attenzione in questi ultimi anni. Infatti nel mio Istituto non solo effettuiamo ricerca, ma ci occupiamo anche di produzione farmaceutica; ciò per tentare di ridurre al massimo i tempi necessari per permettere la traslazione dalla sperimentazione in laboratorio alla clinica. In media i farmaci nuovi richiedono 17 anni e 2,7 miliardi di dollari per passare dallo studio scientifico alla pratica clinica.

Grazie ai nostri sforzi e alle nostre strategie di innovazione al servizio del paziente, contiamo invece di iniziare a sperimentare in clinica nell’estate del prossimo anno negli Stati Uniti e in autunno in Italia.
Inevitabilmente nel tempo abbiamo intrecciato numerose collaborazioni non solo in ambito scientifico ma anche farmaceutico in tutto il mondo, in modo da orientare la ricerca in base a cosa è più realisticamente utile e applicabile lì dove viene richiesto.

 

 

Da quali esperti è costituita la vostra equipe di lavoro? Più in generale, qual è il metodo di lavoro seguito presso il vostro istituto?

 

Una delle più importanti novità, e nostro fiore all’occhiello, consiste proprio nel metodo di lavoro. Infatti, per produrre questi tipi di farmaci, occorre mettere insieme diverse tipologie di conoscenze e competenze: non solo mediche, biologiche, chimiche, fisiche e oncologiche, ma anche ingegneristiche, matematiche e informatiche.
Nei nostri laboratori esistono squadre di lavoro composte da un centinaio di persone eccellenti nel loro talento e nessuno ha una competenza uguale all’altro. Devono essere persone altamente motivate nel raggiungere un obiettivo comune, che concepiscano il loro lavoro come una missione in quanto esso implica una grande responsabilità etica.
Per questo motivo le selezioni sono molto rigorose. Io mi occupo principalmente di assumere i direttori di laboratorio, ma se mi capita di incontrare persone con talento e la mentalità giusta, le coinvolgo senza esitare.
Il mio approccio al reclutamento può riassumersi in tre parole chiave: best, like e trust; ovvero cerco persone altamente qualificate, la cui compagnia è piacevole (si accumulano molti fallimenti e in questo occorre sostenersi a vicenda), di cui mi posso fidare (questa è la cosa più difficile in assoluto da trovare). Non nascondo che non è sempre facile dialogare con colleghi che hanno altri approcci e far cooperare team diversi in diverse situazioni, anche perché nel nostro lavoro non esistono orari.
L’esperienza che mi ha aiutato di più in questo senso è stata quella del basket: tutti i giocatori pensano di essere dei Michael Jordan; il compito arduo dell’allenatore consiste nel valutare le doti insite in ognuno in modo da riuscire a comporre una sinfonia in cui ognuno possa esprimersi a pieno in un contesto più ampio, dove è indispensabile instaurare uno spirito di coesione e ognuno possa essere Michael Jordan nel proprio ruolo.

 

 

In altre interviste lei ha parlato della necessità di rimuovere le barriere tra le discipline per arrivare a una conoscenza il più possibile unitaria; questo in ogni ordine di scuola. Può spiegarci meglio?

 

Credo che oggi sia del tutto anacronistico intendere le discipline come rigide organizzazioni della conoscenza: le barriere dovrebbero essere il più porose possibile.
Per questo motivo nel mio istituto sono nati Dipartimenti Accademici non tradizionali come Chirurgia Computazionale, Nanomedicina, Ingegneria dei tessuti, dove confluiscono diverse competenze apparentemente distanti (cliniche, informatiche, matematiche, fisiche, biologiche, eccetera).
Apprendere e far proprio il punto di vista adottato da ogni disciplina sono aspetti di non trascurabile importanza. Tuttavia ritengo, per mia esperienza, che sia fondamentale imparare a far interagire diverse competenze per la risoluzione di nuovi problemi dando spazio a progetti interdisciplinari in ogni ordine di scuola. È l’unico modo che può consentire ai ragazzi di fare un’esperienza di conoscenza che sia «viva».

 

 

Come incide nella sua ricerca la considerazione delle persone malate e il rapporto con loro?

 

Non c’è niente al di fuori del rapporto con le persone malate, perché è l’unica cosa che conta. Invitiamo costantemente i malati e i loro rappresentanti nei nostri laboratori, condividendo con loro le bozze delle pubblicazioni, l’approvazione dei brevetti, il rilascio di interviste.
Tutto questo per non tradire l’approccio che abbiamo scelto, che consiste nel porci al servizio del paziente evitando di dire cose che possano fare più male che bene ai diretti interessati.
Per lo stesso motivo una delle figure professionali presenti nel nostro Istituto sono proprio i rappresentanti dei pazienti.

 

 

Vai al PDF con l’intervista

 

 

a cura di Nadia Correale
(Docente di matematica e Scienze presso la Scuola Secondaria di primo grado e membro della Redazione della rivista Emmeciquadro)

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 62 di Emmeciquadro

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